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Habilis
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Indice

  1. Cloridano e Medoro
  2. L’innamoramento di Angelica
  3. Temi
  4. Il ruolo del destino e il contrasto tra illusione e realtà
  5. Gli autoinganni di Orlando
  6. La follia come totale rinuncia alla ragione
  7. Lo sguardo ironico di Ariosto

Cloridano e Medoro

Il tema della pazzia di Orlando rappresenta la vera novità del poema e per questa ragione si sviluppa nei canti centrali, il XXIII e il XXIV. La causa della follia viene esposta nel canto XIX. Qui la bella Angelica, in fuga dai molti guerrieri musulmani e cristiani invaghiti di lei, si imbatte in Medoro, un soldato saraceno che con l’amico Cloridano si era intrufolato di notte nel campo nemico per dare degna sepoltura al cadavere del loro re. Tale tentativo è però fallito, tanto che Cloridano è stato ucciso dai cavalieri cristiani mentre Medoro giace a terra gravemente ferito.

L’innamoramento di Angelica

La bellezza di Medoro colpisce Angelica, la quale gli presta soccorso con l’aiuto di un pastore, che accetta di ospitarli nella propria casa. Ben presto i due giovani si innamorano e si sposano. Nel brano seguente troviamo Orlando che insegue il cavaliere saraceno Mandricardo, con il quale poco prima si stava scontrando in duello fino a che quest’ultimo, trascinato dal proprio cavallo imbizzarrito, si è inoltrato nel bosco.

Temi

● L’amore che conduce alla follia
● Sentimenti incontrollabili: gelosia, rabbia, dolore
● L’autoinganno come forma di protezione
● Il ruolo del destino

Mentre si inoltra nel bosco all’inseguimento di Mandricardo, Orlando si imbatte per caso nel bel prato in cui Angelica e Medoro si sono amati e hanno inciso i loro nomi nelle cortecce degli alberi; poi giunge fino alla grotta dove i due si incontravano durante le ore più calde del giorno e sulle cui pareti è iscritta una poesia erotica con cui Medoro ha celebrato la gioia fisica derivante dalla sua unione con la bella principessa. Stanco e angosciato Orlando decide di passare la notte in una fattoria che si rivela essere quella in cui gli amanti hanno trovato rifugio: controvoglia è infatti costretto ad ascoltare dalla voce del padrone di casa il racconto dettagliato dell’innamoramento di Angelica per il soldato ferito. Per fuggire al dolore che gli opprime il cuore Orlando lascia la casa del pastore nonostante l’ora tarda e vaga nel bosco per giorni, dando libero sfogo con il pianto alle proprie sofferenze. Quando tuttavia il destino lo riconduce di fronte alla grotta che più di tutti è stata il rifugio d’amore dei giovani amanti, comincia a impazzire: separandosi letteralmente da se stesso, egli perde la propria identità di uomo saggio e di valoroso combattente e si trasforma in un bruto in preda a una follia violenta.

Il ruolo del destino e il contrasto tra illusione e realtà

Nel passo del poema dedicato all’inizio della «gran follia» di Orlando, il destino agisce come una divinità capricciosa e malvagia che conduce l’eroe a terminare dolorosamente la ricerca di Angelica (la sua personale “inchiesta”): lo stesso Ariosto ne sottolinea il ruolo affermando che «lo tornò il suo destin sopra la fonte / dove Medoro isculse l’epigramma» (129, vv. 3-4).
La Fortuna può colpire così crudelmente Orlando perché egli tenta in ogni modo di non credere a una verità troppo dura da accettare: Angelica non ha mai dato prova di ricambiare il suo amore, al contrario è sempre fuggita da lui come dagli altri suoi pretendenti. A ben vedere, quindi, il destino non è soltanto lo strumento che stabilisce le varie tappe della pazzia di Orlando, ma rappresenta anche il manifestarsi della realtà in una passione d’amore fondata soltanto su un’illusione.

Gli autoinganni di Orlando

Pur di non prendere atto del fatto che Angelica non solo non lo ha mai voluto ma si è innamorata di un altro, per giunta di un semplice fante, Orlando si sforza con una serie di autoinganni fantasiosi di pensare «come / possa esser che non sia la cosa vera» (114, vv. 1-2). Tecnicamente gli autoinganni sono spiegazioni che egli elabora faticosamente per ingannare se stesso («usando fraude a sé medesimo», 104, v. 6) e che pertanto, pur avendo un fondamento logico, sono «dal ver remote» (104, v. 5), cioè lo allontanano dalla verità. Orlando si autoinganna, ad esempio, quando di fronte alle scritte incise sugli alberi pensa che Angelica abbia utilizzato il soprannome di Medoro per parlare di lui (104, v. 4): sul piano della logica potrebbe anche essere una spiegazione convincente, ma non abbastanza da eliminare in lui il sospetto che la verità sia un’altra (105).

La follia come totale rinuncia alla ragione

Quando infine tramite il racconto del pastore la realtà diviene evidente e innegabile, Orlando viene sopraffatto da un’atroce sofferenza che, dopo un alternarsi di stati psicologici, lascia spazio al furore e al totale annebbiamento delle facoltà mentali («In tanta rabbia, in tanto furor venne, / che rimase offuscato in ogni senso», 134, vv. 1-2). In sostanza Orlando, che aveva forzato il ragionamento per adeguarlo all’esigenza di nascondere a se stesso la verità, ora si difende da essa rinunciando definitivamente alla ragione, cioè trovando in qualche modo rifugio nella pazzia.

Lo sguardo ironico di Ariosto

Il modo in cui Orlando scivola a poco a poco nella follia è rappresentato dal narratore mediante un susseguirsi di situazioni talmente incredibili e paradossali da risultare a tratti comiche. Ariosto descrive infatti il conflitto, perso in partenza, tra Orlando e la realtà secondo il consueto procedimento dell’ironia: lo stesso ripetersi degli inganni messi in atto dal destino produce l’effetto di attenuare la tragicità della vicenda e di far riflettere il lettore – soprattutto se si rispecchia nel dolore del paladino – sui rischi di una passione totalizzante e non corrisposta, che prima o poi porta al trauma della disillusione. Anche lo stile rivela l’intenzione di sottolineare ironicamente la sproporzione tra la devozione di Orlando verso Angelica, da lui idealizzata come vergine pura e a lui fedele, e il trasporto con cui quest’ultima si concede a Medoro. In particolare, la poesia amorosa che Medoro ha inciso sulla parete della grotta rappresenta una ripresa parodica, cioè un’imitazione in chiave ironica, dello stile convenzionale della tradizione lirica: i richiami petrarcheschi, il ritmo lento dei versi, lo stesso godimento erotico vantato dal giovane sono in contrasto con il terribile dolore del povero conte, costretto a leggere in arabo (la lingua straniera che per combinazione conosce meglio di qualsiasi altra) di come la “sua” Angelica si è sdraiata nuda tra le braccia del proprio amante donandogli un immenso piacere. Le ultime ottave, infine, in cui il nobile Orlando nudo e impazzito è ormai simile a una belva feroce, ironizzano su quelle che un tempo erano state le sue doti cavalleresche (l’ardimento, la difesa della fede e dei deboli, la generosità): ora le sue straordinarie gesta (le «prove eccelse» dell’ottava 134, v. 7) consistono nel devastare la natura sradicando alberi secolari come fossero cespugli.

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