Versione originale in latino
Duo bella eo anno prospere gesta: cum Tarquiniensibus Tiburtibusque ad deditionem pugnatum. Sassula ex his urbs capta; ceteraque oppida eandem fortunam habuissent, ni universa gens positis armis in fidem consulis venisset. Triumphatum de Tiburtibus; alioquin mitis victoria fuit. In Tarquinienses acerbe saevitum; multis mortalibus in acie caesis ex ingenti captivorum numero trecenti quinquaginta octo delecti, nobilissimus quisque, qui Romam mitterentur; volgus aliud trucidatum. Nec populus in eos qui missi Romam erant mitior fuit: medio in foro omnes virgis caesi ac securi percussi. Id pro immolatis in foro Tarquiniensium Romanis poenae hostibus redditum. Res bello bene gestae ut Samnites quoque amicitiam peterent effecerunt. Legatis eorum comiter ab senatu responsum; foedere in societatem accepti. Non eadem domi quae militiae fortuna erat plebi Romanae. Nam etsi unciario fenore facto levata usura erat, sorte ipsa obruebantur inopes nexumque inibant; eo nec patricios ambo consules neque comitiorum curam publicave studia prae privatis incommodis plebs ad animum admittebat. Consulatus uterque apud patricios manet; consules creati C. Sulpicius Peticus quartum M. Valerius Publicola iterum. In bellum Etruscum intentam civitatem, quia Caeritem populum misericordia consanguinitatis Tarquiniensibus adiunctum fama ferebat, legati Latini ad Volscos convertere, nuntiantes exercitum conscriptum armatumque iam suis finibus imminere; inde populabundos in agrum Romanum venturos esse. Censuit igitur senatus neutram neglegendam rem esse; utroque legiones scribi consulesque sortiri provincias iussit. Inclinavit deinde pars maior curae in Etruscum bellum, postquam litteris Sulpici consulis, cui Tarquinii provincia evenerat, cognitum est depopulatum agrum circa Romanas salinas praedaeque partem in Caeritum fines avectam et haud dubie iuventutem eius populi inter praedatores fuisse. Itaque Valerium consulem, Volscis oppositum castraque ad finem Tusculanum habentem, revocatum inde senatus dictatorem dicere iussit. T. Manlium L. Filium dixit. Is cum sibi magistrum equitum A. Cornelium Cossum dixisset, consulari exercitu contentus ex auctoritate patrum ac populi iussu Caeritibus bellum indixit.
Traduzione all'italiano
Le due guerre combattute quell'anno ebbero esito positivo. Tarquiniesi e Tiburtini vennero costretti alla resa. Ai Tiburtini fu strappata Sassula. Le altre città avrebbero fatto la sua stessa fine, se l'intero popolo non avesse abbandonato le armi, consegnandosi a discrezione del console. Per la sconfitta dei Tiburtini venne celebrato un trionfo. Ma la clemenza prevalse negli altri aspetti della vittoria. Per la gente di Tarquinia non ci fu invece nessuna pietà: molti di essi vennero uccisi in battaglia, e dei moltissimi prigionieri catturati ne vennero scelti trecento cinquantotto - il fiore della nobiltà - per essere inviati a Roma, mentre il resto della popolazione venne passato per le armi. Quanto al popolo, non fu molto più clemente con quelli che erano stati inviati a Roma: vennero frustati e decapitati al centro del foro. Fu quello il modo per vendicarsi dei nemici per i Romani massacrati nel foro di Tarquinia. Il successo in questa guerra fece sì che anche i Sanniti venissero a chiedere la pace. Il senato ebbe per i loro ambasciatori una risposta amichevole e concesse loro un trattato di alleanza. Ma la plebe di Roma non coglieva in patria gli stessi successi che le toccavano in campo militare. Infatti, anche se l'adozione del tasso di interesse dell'uno per cento sui prestiti li aveva liberati dall'usura, i più poveri erano ugualmente schiacciati dal peso del capitale da restituire e finivano con l'essere ridotti in schiavitù. E per questo né la presenza di due consoli patrizi, né la preoccupazione per le elezioni o per la politica riusciva a distrarre l'attenzione dei plebei dalle vicissitudini private. Di conseguenza entrambi i consoli continuarono a essere patrizi e vennero eletti Gaio Sulpicio Petico (al quarto consolato) e Marco Valerio Publicola (al secondo). Mentre la gente aveva pensieri solo per la guerra contro il popolo etrusco (poiché circolava voce che gli abitanti di Cere, presi da compassione per i loro consanguinei di Tarquinia, avrebbero fatto causa comune con questi ultimi), arrivarono ambasciatori latini a stornare l'attenzione verso i Volsci: riferirono che questi avevano arruolato e armato un esercito con il quale stavano già minacciando il territorio latino, per poi passare di lì a devastare quello romano. Il senato ritenne opportuno non trascurare nessuno dei due pericoli, e ordinò di arruolare legioni per entrambe le campagne, lasciando che i consoli dividessero tra loro i cómpiti con un sorteggio. Ma il fronte etrusco divenne in séguito la preoccupazione maggiore, quando cioè tramite una lettera del console Sulpicio, cui era toccata la campagna contro Tarquinia, si venne a sapere che la zona nei pressi delle Saline romane era stata messa a ferro e fuoco, che parte del bottino era stata portata nel territorio di Cere e che tra i responsabili del saccheggio c'erano sicuramente giovani provenienti da quella città. Pertanto il senato, dopo aver richiamato il console Valerio, che era impegnato contro i Volsci e stava accampato nel territorio di Tuscolo, gli ordinò di nominare un dittatore. La scelta cadde su Tito Manlio, il figlio di Lucio. Questi, dopo essersi scelto come maestro di cavalleria Aulo Cornelio Cosso, si limitò a chiedere un esercito consolare e quindi, con l'autorizzazione del senato e per volontà del popolo, dichiarò guerra agli abitanti di Cere.