Pillaus
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Versione originale in latino


Cum haec dicerentur audirenturque et deploratum paene Romanum nomen in concilio sociorum fidelium esset, dicitur [Ofillius] A. Calavius Ovi filius, clarus genere factisque, tum etiam aetate verendus, longe aliter se habere rem dixisse: silentium illud obstinatum fixosque in terram oculos et surdas ad omnia solacia aures et pudorem intuendae lucis ingentem molem irarum ex alto animo cientis indicia esse; aut Romana se ignorare ingenia aut silentium illud Samnitibus flebiles brevi clamores gemitusque excitaturum, Caudinaeque pacis aliquanto Samnitibus quam Romanis tristiorem memoriam fore; quippe suos quemque eorum animos habiturum, ubicumque congressuri sint; saltus Caudinos non ubique Samnitibus fore.
Iam et Romae sua infamis clades erat. Obsessos primum audierunt; tristior deinde ignominiosae pacis magis quam periculi nuntius fuit. Ad famam obsidionis dilectus haberi coeptus erat; dimissus deinde auxiliorum apparatus, postquam deditionem tam foede factam acceperunt; extemploque sine ulla publica auctoritate consensum in omnem formam luctus est. Tabernae circa forum clausae iustitiumque in foro sua sponte coeptum prius quam indictum; lati clavi, anuli aurei positi; paene maestior exercitu ipso civitas esse; nec ducibus solum atque auctoribus sponsoribusque pacis irasci sed innoxios etiam milites odisse et negare urbe tectisve accipiendos. Quam concitationem animorum fregit adventus exercitus etiam iratis miserabilis. Non enim tamquam in patriam revertentes ex insperato incolumes sed captorum habitu voltuque ingressi sero in urbem ita se in suis quisque tectis abdiderunt, ut postero atque insequentibus diebus nemo eorum forum aut publicum aspicere vellet. Consules in privato abditi nihil pro magistratu agere nisi quod expressum senatus consulto est ut dictatorem dicerent comitiorum causa. Q. Fabium Ambustum dixerunt et P. Aelium Paetum magistrum equitum; quibus vitio creatis suffecti M. Aemilius Papus dictator, L. Valerius Flaccus magister equitum. Nec per eos comitia habita; et quia taedebat populum omnium magistratuum eius anni, res ad interregnum rediit. Interreges Q. Fabius Maximus M. Valerius Corvus. Is consules creavit Q. Publilium Philonem et L. Papirium Cursorem iterum haud dubio consensu civitatis, quod nulli ea tempestate duces clariores essent.

Traduzione all'italiano


Mentre si dicevano e si sentivano queste cose, e nell'assemblea dei fedeli alleati la potenza romana veniva quasi pianta come se fosse stata annientata, pare che Aulo Calavio, figlio di Ovio, uomo famoso per nascita e per gesta compiute, e in quel periodo reso ancora più rispettabile dall'età, avesse sostenuto che le cose stavano in tutt'altra maniera: quel silenzio ostinato, gli occhi fissi a terra, le orecchie sorde a ogni tipo di conforto e l'imbarazzo di dover guardare la luce erano i segnali di un animo che nell'intimo covava un'enorme rabbia. Se non conosceva male il carattere dei Romani, di lì a poco quel silenzio avrebbe suscitato tra i Sanniti grida piene di gemiti e dolore, e il ricordo della pace di Caudio sarrebbe stato molto più pesante per i Sanniti che per i Romani. Perché dovunque si fossero scontrati nei giorni a venire, ognuno di essi avrebbe avuto la grinta di sempre, mentre per i Sanniti non ci sarebbero state dappertutto le Forche Caudine. La notizia della grave disfatta era già arrivata anche a Roma. In un primo tempo si era venuti a sapere che erano stati circondati. Poi, ben più doloroso di quello relativo al pericolo corso, era arrivato l'annuncio della vergognosa pace. Alla notizia dell'accerchiamento, erano state avviate le pratiche della leva militare. Quando però si venne a sapere che era stata stipulata una pace tanto infamante, venne interrotto l'allestimento di rinforzi. E sùbito, senza aspettare alcuna decisione ufficiale, il popolo tutto si era abbandonato a ogni forma di lutto. I negozi intorno al foro vennero chiusi, sospesi spontaneamente i pubblici affari prima ancora che arrivasse l'ordine relativo. Vennero deposte le toghe orlate di porpora e gli anelli d'oro. I cittadini erano quasi più addolorati dello stesso esercito; il loro risentimento non toccava soltanto i comandanti e i responsabili e garanti della pace, ma anche gli innocenti soldati: sostenevano che non li si dovesse accogliere in città né all'interno delle case. Il rancore venne però piegato dall'arrivo dell'esercito, che suscitò compassione anche negli animi più esacerbati. Entrati infatti in città a tarda sera, non come uomini che tornavano sani e salvi in patria contro ogni speranza, ma con l'aspetto e l'espressione di prigionieri, si rinchiusero nelle loro case e nessuno di essi volle vedere il foro o la pubblica via, né l'indomani né i giorni successivi. I consoli, nascosti nelle loro abitazioni, non compirono alcun gesto pertinente alla carica, tranne quanto prescritto da un decreto del senato, e cioè la nomina di un dittatore cui far presiedere le elezioni. La scelta cadde su Quinto Fabio Ambusto, mentre maestro di cavalleria venne eletto Publio Elio Peto. Ma essendosi verificata una qualche irregolarità in questa nomina, i due vennero rimpiazzati dal dittatore Marco Emilio Papo e dal maestro di cavalleria Lucio Valerio Flacco. Neppure questi, tuttavia, riuscirono a presiedere le elezioni, e siccome il popolo si dimostrava insofferente nei confronti di tutti i magistrati di quell'anno, si ebbe un interregno. Interré furono Quinto Fabio Massimo e Marco Valerio Corvo, il quale proclamò consoli Quinto Publilio Filone e Lucio Papirio Cursore per la seconda volta, che vennero eletti all'unanimità dalla cittadinanza perché erano i generali più in vista del periodo.

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