Versione originale in latino
Deserta omnia, sine capite, sine viribus, di praesides ac fortuna urbis tutata est, quae Volscis Aequisque praedonum potius mentem quam hostium dedit. Adeo enim nullam spem non potiundi modo sed ne adeundi quidem Romana moenia animus eorum cepit tectaque procul visa atque imminentes tumuli avertere mentes eorum, ut totis passim castris fremitu orto quid in vasto ac deserto agro inter tabem pecorum hominumque desides sine praeda tempus tererent, cum integra loca, Tusculanum agrum opimum copiis, petere possent, signa repente convellerent transversisque itineribus per Labicanos agros in Tusculanos colles transirent. Eo vis omnis tempestasque belli conversa est. Interim Hernici Latinique pudore etiam, non misericordia solum, moti si nec obstitissent communibus hostibus infesto agmine Romanam urbem petentibus nec opem ullam obsessis sociis ferrent, coniuncto exercitu Romam pergunt. Ubi cum hostes non invenissent, secuti famam ac vestigia obvii fiunt descendentibus ab Tusculana in Albanam vallem. Ibi haudquaquam aequo proelio pugnatum est, fidesque sua sociis parum felix in praesentia fuit. Haud minor Romae fit morbo strages quam quanta ferro sociorum facta erat. Consul qui unus supererat moritur; mortui et alii clari viri, M. Valerius, T. Verginius Rutulus augures, Ser. Sulpicius curio maximus; et per ignota capita late vagata est vis morbi, inopsque senatus auxilii humani ad deos populum ac vota vertit. Iussi cum coniugibus ac liberis supplicatum ire pacemque exposcere deum, ad id quod sua quemque mala cogebant auctoritate publica evocati omnia delubra implent. Stratae passim matres, crinibus templa verrentes, veniam irarum caelestium finemque pesti exposcunt.
Traduzione all'italiano
Senza un capo e senza forze, la città spopolata fu protetta dai suoi numi tutelari e dalla sua buona stella, che ispirò a Volsci ed Equi un comportamento da predoni più che da nemici. Infatti il loro animo era così lontano dal nutrire una qualche speranza non solo di conquistare ma addirittura di avvicinarsi alle mura di Roma e la vista da lontano dei tetti e dei colli sovrastanti aveva fuorviato le loro menti tanto, che l'intero esercito cominciò a esser percorso da mormorii di disapprovazione: si domandavano perché dovessero sprecare il tempo inoperosi in un'area desolata e abbandonata, dove non c'erano opportunità di bottino, ma solo cadaveri di uomini e di bestie, mentre avrebbero potuto invadere una terra ricca di ogni ben di Dio e inviolata quale la zona di Tuscolo. Per questo si misero rapidamente in marcia e per vie traverse che passavano in mezzo alla campagna labicana si spostarono sulle colline di Tuscolo per concentrarvi tutto l'impeto e la furia della guerra. Nel frattempo Ernici e Latini, spinti non solo dalla pietà ma anche dalla vergogna che certo avrebbero provato se non si fossero opposti ai nemici comuni lanciatisi in assetto di guerra contro Roma e non fossero intervenuti a fianco degli alleati stretti d'assedio, unirono i propri eserciti e si misero in marcia verso Roma. Qui, non avendo trovato nemici ma fidandosi delle informazioni avute per strada e seguendo le tracce del loro passaggio, li incontrarono mentre da Tuscolo stavano scendendo nella valle di Alba. Si combatté con forze impari e la loro lealtà per il momento portò poca fortuna agli alleati. A Roma la strage dovuta all'epidemia non fu di proporzioni minori di quella patita dagli alleati a colpi di spada. L'unico console rimasto era nel frattempo deceduto. Così come morti erano pure altri personaggi illustri quali gli àuguri Marco Valerio e Tito Verginio Rutulo e il capo delle curie Servio Sulpicio. La malattia aveva colpito con tutta la sua violenza anche la folla anonima. E il senato, non potendo più contare sull'aiuto degli uomini, spinse il popolo a rivolgere le preghiere agli dèi, ordinando che tutti, con mogli e bambini, andassero nei templi a supplicare il cielo e a chiedere la pace. Così, indotti dall'autorità pubblica a fare le cose a cui già li costringevano le proprie sventure, i cittadini si affollarono in tutti i santuari. Dovunque le matrone, piegate a spazzare coi capelli sciolti i pavimenti dei templi, implorano gli dèi adirati e li supplicano di porre fine alla pestilenza.