Pillaus
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Versione originale in latino


Haud aeque laeta patribus insequenti anno C. Marcio Cn. Manlio consulibus de unciario fenore a M. Duillio L. Menenio tribunis plebis rogatio est perlata; et plebs aliquanto eam cupidius scivit. Ad bella nova priore anno destinata Falisci quoque hostes exorti duplici crimine quod et cum Tarquiniensibus iuventus eorum militaverat et eos qui Falerios perfugerant cum male pugnatum est, repetentibus fetialibus Romanis non reddiderant. Ea provincia Cn. Manlio obvenit. Marcius exercitum in agrum Privernatem, integrum pace longinqua, induxit militemque praeda implevit. Ad copiam rerum addidit munificentiam, quod nihil in publicum secernendo augenti rem privatam militi favit. Privernates cum ante moenia sua castris permunitis consedissent, vocatis ad contionem militibus "castra nunc" inquit "vobis hostium urbemque praedae do, si mihi pollicemini vos fortiter in acie operam navaturos nec praedae magis quam pugnae paratos esse." Signum poscunt ingenti clamore celsique et spe haud dubia feroces in proelium vadunt. Ibi ante signa Sex. Tullius, de quo ante dictum est, exclamat "adspice, imperator" inquit, "quemadmodum exercitus tuus tibi promissa praestet", piloque posito stricto gladio in hostem impetum facit. Sequuntur Tullium antesignani omnes primoque impetu avertere hostem; fusum inde ad oppidum persecuti, cum iam scalas moenibus admoverent, in deditionem urbem acceperunt. Triumphus de Privernatibus actus. Ab altero consule nihil memorabile gestum, nisi quod legem novo exemplo ad Sutrium in castris tributim de vicensima eorum qui manumitterentur tulit. Patres, quia ea lege haud parvum vectigal inopi aerario additum esset, auctores fuerunt; ceterum tribuni plebis, non tam lege quam exemplo moti, ne quis postea populum sevocaret, capite sanxerunt: nihil enim non per milites iuratos in consulis verba, quamvis perniciosum populo, si id liceret, ferri posse. Eodem anno C. Licinius Stolo a M. Popilio Laenate sua lege decem milibus aeris est damnatus, quod mille iugerum agri cum filio possideret emancupandoque filium fraudem legi fecisset.

Traduzione all'italiano


Fu invece meno gradita ai senatori una proposta di legge presentata l'anno successivo durante il consolato di Gaio Marcio e Gneo Manlio. Gli autori della proposta - accolta con ben altro favore dalla plebe e volta a limitare il tasso di interesse annuo all'uno per cento - furono i tribuni della plebe Marco Duilio e Lucio Menenio. Alle guerre già decise l'anno precedente, venne ad aggiungersene una con i Falisci. A questo popolo venivano imputate due colpe, e cioè il fatto che alcuni loro giovani avessero militato nelle file dei Tarquiniesi e il non aver riconsegnato ai feziali che li reclamavano i Romani rifugiatisi a Faleri dopo la rotta. La campagna toccò a Gneo Manlio. Marcio guidò invece un esercito nel territorio dei Privernati (rimasto intatto per il lungo periodo di pace intercorso), e riempì le truppe di bottino. Alla grande razzia il console aggiunse anche la propria generosità, perché non fece accantonare nulla per le casse dello Stato, favorendo l'utile personale dei soldati. Dato che i Privernati si erano accampati di fronte alle mura della loro città proteggendosi con massicce opere di fortificazione, egli convocò l'adunata e rivolse alle sue truppe queste parole: "L'accampamento e la città dei nemici ve li concedo fin da adesso come vostro bottino, a patto che mi garantiate di svolgere il vostro cómpito con valore, pensando più alla battaglia che al bottino". I soldati chiesero allora a gran voce che venisse dato loro il segnale e si gettarono con ardore in battaglia, rincuorati da una sicurezza che non ammetteva dubbi. Fu allora che Sesto Tullio (di cui abbiamo parlato prima), davanti alle insegne, gridò: "Guarda, comandante, come il tuo esercito mantiene la promessa fatta!". Poi, lasciata l'asta, impugnò la spada e si gettò all'assalto del nemico. I soldati della prima linea lo seguirono in massa e, messi in fuga i nemici al primo urto, li inseguirono fino in città. E lì, quando i Romani stavano ormai accostando le scale ai muri, la città si arrese. La vittoria sui Privernati venne celebrata con un trionfo. L'altro console non fece nulla che valga la pena di menzionare, se si esclude che, nel suo accampamento presso Sutri, facendo votare gli uomini per tribù (una prassi senza precedenti), riuscì a far approvare una legge in base alla quale le affrancazioni di schiavi venivano tassate del cinque per cento. Il senato approvò la legge, perché essa garantiva un gettito di denaro non trascurabile per l'erario in grave crisi. Ma i tribuni della plebe, preoccupati più dal precedente stabilito che dalla legge in sé, ottennero che venisse sancita la pena di morte per chiunque avesse in séguito osato convocare l'assemblea del popolo lontano da Roma. Infatti, se ciò fosse stato concesso, qualunque cosa, per quanto dannosa per il popolo, avrebbe potuto essere approvata attraverso il voto dei soldati vincolati dal giuramento di obbedienza al console. Nel corso di quel medesimo anno, Gaio Licinio Stolone venne condannato, sulla base della sua stessa legge, a un'ammenda di diecimila assi, per il fatto che, possedendo insieme col figlio mille iugeri di terra, aveva tentato di aggirare la legge dichiarando il figlio indipendente dalla patria potestà.

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