Versione originale in latino
L. Furius inde et C. Manlius consules. Manlio Veientes provincia evenit; non tamen bellatum; indutiae in annos quadraginta petentibus datae frumento stipendioque imperato. Paci externae confestim continuatur discordia domi. Agrariae legis tribuniciis stimulis plebs furebat. Consules, nihil Meneni damnatione, nihil periculo deterriti Servili, summa vi resistunt. Abeuntes magistratu Cn. Genucius tribunus plebis arripuit. L. Aemilius et Opiter Verginius consulatum ineunt; Vopiscum Iulium pro Verginio in quibusdam annalibus consulem invenio. Hoc anno, quoscumque consules habuit, rei ad populum Furius et Manlius circumeunt sordidati non plebem magis quam iuniores patrum. Suadent monent honoribus et administratione rei publicae abstineant; consulares vero fasces, praetextam, curulemque sellam nihil aliud quam pompam funeris putent; claris insignibus velut infulis velatos ad mortem destinari. Quod si consulatus tanta dulcedo sit, iam nunc ita in animum inducant consulatum captum et oppressum ab tribunicia potestate esse; consuli, velut apparitori tribunicio, omnia ad nutum imperiumque tribuni agenda esse; si se commoverit, si respexerit patres, si aliud quam plebem esse in re publica crediderit, exsilium Cn. Marci, Meneni damnationem et mortem sibi proponat ante oculos. His accensi vocibus patres consilia inde non publica sed in privato seductaque a plurium conscientia habuere, ubi cum id modo constaret, iure an iniuria, eripiendos esse reos, atrocissima quaeque maxime placebat sententia, nec auctor quamvis audaci facinori deerat. Igitur iudicii die, cum plebs in foro erecta expectatione staret, mirari primo quod non descenderet tribunus; dein cum iam mora suspectior fieret, deterritum a primoribus credere et desertam ac proditam causam publicam queri; tandem qui obversati vestibulo tribuni fuerant nuntiant domi mortuum esse inventum. Quod ubi in totam contionem pertulit rumor, sicut acies funditur duce occiso, ita dilapsi passim alii alio. Praecipuus pavor tribunos invaserat, quam nihil auxilii sacratae leges haberent morte collegae monitos. Nec patres satis moderate ferre laetitiam, adeoque neminem noxiae paenitebat, ut etiam insontes fecisse videri vellent, palamque ferretur malo domandam tribuniciam potestatem.
Traduzione all'italiano
I consoli successivi furono Lucio Furio e Gaio Manilio. A quest’ultimo toccarono i Veienti. Tuttavia non si arrivò a combattere in quanto, su loro espressa richiesta, venne concessa una tregua di quarant’anni in cambio di denaro e frumento. Alla pace con l’estero successe immediatamente una ripresa dei disordini interni. I tribuni aizzavano la plebe con l’arma della legge agraria. I consoli, per nulla spaventati al ricordo della condanna di Menenio e del pericolo corso da Servilio, resistevano con grande forza. Al termine però del loro mandato, il tribuno della plebe Gneo Genucio li trascinò in giudizio. Lucio Emilio e Opitro Verginio entrano quindi in carica come consoli. In alcuni annali ho trovato Vopisco Giulio al posto di Verginio. In quell’anno - chiunque fossero i consoli - Furio e Manilio, accusati di fronte al popolo, andarono in giro vestiti a lutto visitando non meno i plebei che i giovani senatori. Li mettevano in guardia e li dissuadevano dall’assumere cariche onorifiche e dal lasciarsi invischiare nella gestione dello Stato; cercavano di far capire loro che le fasce consolari, la toga pretesta e la sella curule non erano nient’altro che accessori da pompe funebri: quegli splendidi ornamenti valevano le bende sulla fronte delle vittime, e portarli significava avviarsi alla morte. Se il consolato li affascinava tanto, almeno si rendessero conto che ormai esso era ostaggio e schiavo dello strapotere tribunizio e che il console, ridotto al rango di subalterno dei tribuni, era costretto a subordinare ogni suo movimento al cenno e agli ordini dei tribuni stessi; qualunque suo movimento, qualunque segno di reverenza nei confronti dei senatori, qualunque concezione che non contemplasse la plebe come unica presenza all’interno dello Stato, avrebbe dovuto fare i conti con l’esilio di Gneo Marzio e con la condanna a morte di Menenio. Infiammati da queste parole, i senatori cominciarono a tenere riunioni che non avevano carattere pubblico ma si svolgevano in privato e all’insaputa della maggior parte dei cittadini. Durante questi incontri una sola era la parola d’ordine: gli imputati andavano sottratti al giudizio ricorrendo a procedure lecite o meno; di conseguenza, più una proposta era turbolenta, più incontrava il favore dei convenuti e non mancavano anche i fautori di gesti assolutamente temerari. Così, il giorno del giudizio, con la plebe in piedi nel foro (nessuno osava fiatare nell’attesa), sulle prime ci fu un’ondata di stupore per la mancata comparsa del tribuno e poi, quando la sorpresa si trasformò in sospetto, tutti cominciarono a pensare che il magistrato si fosse venduto ai patrizi e avesse proditoriamente abbandonato la causa dello Stato. Alla fine, quelli che erano andati ad aspettare il tribuno davanti alla porta tornarono dicendo che lo avevano trovato morto in casa. Appena la notizia si diffuse in tutta l’assemblea, come un esercito che si squaglia quando il comandante cade sul campo, così la folla si disperse in tutte le direzioni. I più terrorizzati erano però i tribuni, perché la morte del collega aveva chiaramente dimostrato la scarsa protezione che veniva loro garantita dalla legge sull’inviolabilità. Né i senatori riuscirono a mascherare la propria soddisfazione: il crimine commesso suscitò così pochi sensi di colpa che addirittura gli innocenti volevano far vedere di avervi preso parte e tutti ormai parlavano della violenza come unico antidoto al potere dei trbuni.