VI
Infatti Teognide e Pisone dicevano dinnanzi ai trenta riguardo ai meteci che alcuni erano avversi al governo e che era un ottimo pretesto per sembrare di punirli, invece per arricchirsi; che la città era allo stremo e che il governo aveva bisogno di denaro.
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E non difficilmente persuasero gli ascoltatori: infatti per loro contava nulla uccidere la gente, contava molto prendere il loro denaro. Sembrò dunque loro opportuno ucciderne dieci, di questi due poveri, per avere una scusa davanti all'opinione pubblica, che cioè non per denaro si prendevano quei provvedimenti, ma che erano utili allo stato, come se avessero fatto secondo un giusto criterio qualcuna delle altre azioni.
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Andavano per le case dopo essersele spartite; e presero me che avevo ospiti a pranzo, cacciati i quali mi consegnarono a Pisone; gli altri andati alla fabbrica inventariarono gli scudi. Io chiesi a Pisone se prendendo denaro volesse salvarmi;
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egli disse di si, purché fosse tanto. Gli dissi che ero pronto a dargli un talento d'argento in moneta; lui fu d'accordo a fare ciò. Sapevo invero che non credeva né agli dei né agli uomini, tuttavia per le circostanze mi parve assolutamente necessario esigere da lui un giuramento.
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Dopo che ebbe giurato, imprecando la sciagura a sé e ai suoi figli, che, preso il talento, mi avrebbe salvato, andato nella mia stanza aprii lo scrigno; Pisone accortosene entrò e, visto il contenuto, chiamò due degli aiutanti e ordinò di prendere quello che c'era dentro lo scrigno.