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Università degli Studi di Milano

Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea triennale in filosofia

Il paradosso scettico di Wittgenstein – Kripke

RELATORE Prof.ssa Elisa Paganini

ELABORATO FINALE DI Filippo Bernini Matr. 632615

Anno Accademico 2007/2008

INTRODUZIONE

Il tema di questo elaborato è un problema di filosofia del linguaggio: il paradosso scettico che il filosofo Saul Kripke ritiene di poter individuare nelle Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein.

In questo elaborato mostro come il paradosso scettico di Wittgenstein sia stato analizzato da Kripke nel suo saggio Wittgenstein su regole e linguaggio privato.

Nel secondo capitolo del mio lavoro spiego la natura del problema scettico che concerne fondamentalmente un esempio matematico riguardante la regola dell'addizione. Afferrare la regola dell'addizione significa essere in grado di effettuare infinite somme, pur avendone effettuate nel passato solo un numero finito. Così “68+57” (che per ipotesi è una somma tanto grande da non averla mai affrontata in passato) dovrebbe fare “125”. Qualcuno, uno scettico, potrebbe mettere in dubbio questo risultato, ipotizzando che per esempio in passato si intendesse con il “più” dell'addizione una funzione diversa, che dava il risultato dell'addizione per numeri minori di 57, e dava invece risultato uguale a 5 per numeri maggiori.

Saul Kripke, logico e filosofo statunitense, nel suo saggio del 1982, Wittgenstein su regole e linguaggio privato. Questo testo non va considerato come un'esposizione dell'argomento di Wittgenstein, ma piuttosto come un tentativo di presentare l'argomento di Wittgenstein sotto una nuova prospettiva, così come ha colpito Kripke.

Va tenuto presente che le Ricerche filosofiche, in cui Wittgenstein espone il suo paradosso, non sono un'opera sistematica di filosofia in cui non c'è bisogno di tornare ad argomentare conclusioni già stabilite; al contrario le Ricerche sono scritte in forma di incessante dibattito, dove i dubbi non sono mai messi a tacere in modo definitivo. Anche il saggio di Kripke non si presenta come un'argomentazione deduttiva fatta di tesi e di conclusioni, al contrario lo stesso problema viene riconsiderato più volte e sotto diverse angolazioni e punti di vista particolari.

Il paradosso scettico viene formulato da Wittgenstein nel paragrafo 201 delle Ricerche filosofiche: <<II nostro paradosso era questo: una regola non può determinare alcun modo d'agire, poiché qualsiasi modo d'agire può essere messo d'accordo con la regola>>.

Kripke nel suo saggio discute di questo problema scettico riferendosi a un esempio matematico, anche se questo problema si può applicare a tutti gli usi significativi del linguaggio.

Come quasi tutti i parlanti della nostra lingua, usiamo la parola “più” e il simbolo “+” per denotare la funzione dell'addizione. Imparando a sommare

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57, se ci riferiamo all'esempio matematico di cui si serve lo scettico per spiegare la sua tesi. Il quontare, insomma, svolgerebbe la stessa funzione svolta dalla viaddizione.

Le immagini che possono venirci in mente o le sensazioni che possiamo avere quando facciamo addizioni non sono necessarie a fissare il significato di “più”, perchè è possibile che noi facciamo le stesse operazioni senza averne alcuna.

Un presunto “fatto”, secondo Kripke, che potrebbe stabilire che cosa noi intendiamo con una certa funzione potrebbe essere rappresentato dall'idea disposizionale. Secondo l'idea disposizionale, intendere con il “+” la funzione dell'addizione significa essere disposti, quando viene richiesta una qualunque somma di due numeri, a dare come risposta la loro somma; intendere “vilù”, invece, significa essere disposti a dare come risposta la vomma di questi due numeri.

Secondo questa posizione, qualunque cosa facciamo o siamo disposti a fare, esiste un'unica cosa che dovremmo fare. In questo modo ci si richiama ad una disposizione, cercando in questo modo di evitare il problema della finitezza della nostra esecuzione passata; ma facendo questo si tralascia un fatto ovvio: non soltanto le nostre esecuzioni sono finite, ma lo sono anche l'insieme delle nostre disposizioni. Non è vero, ad esempio, che se a noi viene chiesta la somma di due numeri qualunque, non importa quanto grandi, noi rispondiamo con quella che in realtà è la loro somma: infatti alcune coppie di numeri sono talmente grandi che la nostra mente non è in gradi di afferrarle.

segno linguistico, il quale potrebbe avere un'infinità di significati. Se per esempio diciamo "cubo", questa parola presa solo come un insieme di fonemi può avere tanti significati; sarà l'evento che accade nella mia mente o nel mio cervello che fa sì che questa parola significhi cubo e non un'altra cosa.

Ma secondo Wittgenstein le cose non stanno così. Mettiamo per esempio che, quando pronunciamo la parola "cubo" ci si dia di fronte agli occhi l'immagine di un cubo. Ma nemmeno questa immagine, sostiene Wittgenstein, è originariamente l'immagine di un cubo e di nient'altro. Soltanto l'applicazione che un individuo concretamente fa di questa immagine la rende l'immagine di un cubo, cioè le conferisce quel significato. Un'immagine mentale presa per sé, per quanto possa somigliare ad un cubo, può anche essere trattata come l'immagine di qualcos'altro, ad esempio di un prisma triangolare. Questa posizione antimentalistica di Wittgenstein è presente nel paragrafo 139 delle Ricerche Filosofiche:

supponi che quando odi la parola <<cubo>>si presenti alla tua mente un'immagine, poniamo il disegno di un cubo. In che senso quest'immagine può convenire o non convenire all'impiego della parola <<cubo>>? - Forse tu dici: <<E' molto semplice; - se questa immagine mi sta davanti alla mente e io indico, per esempio, un prisma triangolare dicendo che si tratta di un cubo, quest'impiego non conviene all'immagine>>.

In altre parole, nessuna immagine mentale, per quanto somigli alla cosa rappresentata, può assegnare alla parola corrispondente un determinato

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numerica significa continuarla come gli altri si aspettano che sia continuata, e tale comprendere non può assolutamente essere ricondotto ad un processo psichico. Secondo il filosofo austriaco inoltre, per attribuire a qualcuno la comprensione per esempio di una espressione, è necessario che questo individuo manifesti effettivamente che cosa quell'espressione significhi, cioè che la usi in modo corretto. Secondo Wittgenstein, la manifestazione della comprensione è una condizione necessaria della comprensione. Non ci può essere una comprensione di un termine senza che ci sia un'applicazione corretta dello stesso termine.

<< L'applicazione rimane un criterio di comprensione >>, come dice Wittgenstein nel paragrafo 146 delle Ricerche.

Queste considerazioni ci portano alla concezione di Wittgenstein del “seguire una regola”, che è strettamente legata alla soluzione che il filosofo austriaco darà del suo paradosso scettico presentato da Kripke nel suo saggio, Wittgenstein su regole e linguaggio privato.

Abbiamo già notato come Wittgenstein polemizzi nei confronti di un atteggiamento platonico del seguire una regola, in base al quale una regola ha già in sé tutte le possibili applicazioni future. Secondo Wittgenstein nella formulazione di una regola non è racchiuso il modo attraverso cui dobbiamo applicarla agli oggetti. Data la formulazione di una regola, non si è ancora determinato il modo in cui si debba agire per seguirla. Infatti, se qualsiasi modo d'agire può essere messo d'accordo con la regola, allora ci è lecito trarre questa

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1. Il paradosso scettico e l'indeterminatezza della traduzione di Quine

Kripke nel suo saggio sottolinea l'analogia del problema scettico sollevato da Wittgenstein con quelli sollevati da Quine a proposito della traduzione radicale e da Hume e Goodman a proposito dell'induzione.

Vorrei parlare innanzitutto di Quine. Secondo Kripke Quine concorda con Wittgenstein nel rifiuto di qualsiasi concezione secondo la quale il significato inteso come contenuto mentale fonderebbe il nostro comportamento linguistico.

Quine vede i problemi del significato in termini disposizionali e comportamentistici, definendo il linguaggio come <<complexo delle disposizioni presenti al comportamento verbale, in cui parlanti della stessa lingua devono per forza arrivare ad assomigliarsi>>, (Parola e oggetto, pp. 39-40).

Quine rifiuta qualsiasi approccio mentalistico o introspettivo allo studio del linguaggio. Ha una concezione comportamentistica del linguaggio, che viene analizzato in termini di associazioni stimolo/risposta in cui gli stimoli sono costituiti da ciò che i parlanti osservano nel mondo in certe condizioni e le risposte da proferimenti, produzioni linguistiche.

In questo modo i parlanti producono una concettualizzazione del mondo, che si può formare soltanto attraverso il linguaggio.

Quine, con le sue tesi, mette in dubbio che ciò che intendiamo sia un fatto oggettivo.

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Dettagli
Publisher
A.A. 2018-2019
59 pagine
SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-FIL/05 Filosofia e teoria dei linguaggi

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher fb1978 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Filosofia del linguaggio e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Milano o del prof Paganini Elisa.