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CONDIZIONE DI SALUTE
(MALATTIA/DISTURBO)
ATTIVITÀ
FUNZIONI E STRUTTURE PARTECIPAZIONE
CORPOREE
FATTORI AMBIENTALI FATTORI PERSONALI
Figura 2. Funzioni e strutture corporee, attività e partecipazione nell’ICF.
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Emerge l’universalismo dell’ICF: la disabilità non viene considerata un problema di un
gruppo minoritario all’interno di una comunità, ma un’esperienza che tutti, nell’arco della
vita, possono sperimentare. Tutti possono trovarsi in un contesto ambientale precario e ciò
può causare disabilità. Questa classificazione offre un’analisi dettagliata di tutte le dimensioni
esistenziali dell’individuo, che vengono poste sullo stesso piano, prende in considerazione
anche gli aspetti sociali della disabilità e integra l’aspetto sanitario medico con quello
psicologico e sociale senza porli in contrapposizione. Questa classificazione può essere
considerata un modello interattivo multidimensionale poiché prevede l’interazione fra le
persone, la loro salute e il loro ambiente e correla lo stato di salute della persona con
l’ambiente in cui vive. Inoltre, l’ICF può essere considerato uno “strumento educativo”
perché permette di programmare il curricolo sulla base della consapevolezza che le difficoltà
degli studenti derivano dall’incontro tra le loro caratteristiche e l’ambiente extrascolastico e
3
scolastico .
Quindi, possiamo definire la disabilità come la condizione di chi ha una capacità di
integrazione con l’ambiente e con il contesto sociale, minore rispetto a ciò che viene
considerata la norma. Infatti, il soggetto disabile non può contare sull’integrità o sulla piena
efficienza fisica o psichica, a causa di difetti dalla nascita o di lesioni, danneggiamenti o
deterioramenti della salute. Il soggetto appare, dunque, meno autonomo nello svolgimento
delle attività quotidiane e partecipa alla vita sociale partendo oggettivamente una condizione
di svantaggio.
Nella società in cui viviamo ciò che conta sono le performance, i risultati e le prestazioni.
Si tratta di una società dominata dal mito dell’efficienza e dal mito delle tecnologie. In questo
contesto, è difficile che emerga l’unicità e l’originale irripetibilità della persona, soprattutto in
3 Cfr. OMS, ICF. Classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute, Erikson,
Trento 2001. 9
presenza di disabilità. Infatti, nella società dei consumi un fenomeno molto diffuso è quello
dell’omologazione, che tende a mascherare o addirittura azzerare le differenze e che
distrugge, in questo modo, la creatività e l’individualità della persona. Tuttavia, la disabilità,
sia fisica che mentale, non può essere ignorata o cancellata, ma va accolta.
Le differenze interpersonali sono una ricchezza e non devono assolutamente creare
differenze sociali. Infatti, si possono avere diversi tratti somatici, diverse condizioni sociali,
diversa condizione culturale, ma nonostante queste differenze, tutti hanno la stessa dignità e
parità sociale. Chi presenta disabilità è sicuramente diverso in qualche prestazione, ma è
uguale a tutti gli altri nella sua umanità. Tuttavia, alcune interferenze sociali possono
trasformare la diversità in disuguaglianza. È compito della comunità sociale eliminare queste
diversità e offrire a tutti pari possibilità.
La pedagogia e la didattica speciale, ad esempio, si fanno carico della diversità dello
sviluppo e lavorano perché non creino differenze sociali. Esse innanzitutto studiano tutte le
diversità, dovute a difficoltà di apprendimento, a problemi dell’affettività, ad handicap fisici,
oltre che alle diversità che nascono dal disagio sociale e dalla marginalità culturale. Il loro
compito, dunque, è quello di offrire delle prospettive di recupero, partendo dalla
valorizzazione della persona, dalla sua dignità e della sue effettive risorse e cercando di
valorizzare le sue energie compensative.
Solitamente non si è preparati ad accogliere e ad accettare la diversità, che dunque viene
vissuta come una minaccia alla propria identità e viene percepita come qualcosa di
assolutamente negativo. La presenza del diverso genera spesso ansia, paura e sospetto.
Quindi, è necessario educare all’identità, all'alterità e alla diversità. Si tratta di tre componenti
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fondamentali di un unico percorso, in cui se manca armonia ed equilibrio fra queste tre
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prospettive, si impoverisce la persona. Ruth Benedict nel 1934 scriveva:
‹‹Non importa quale sia il tipo di “anormalità” di cui si discute, si trova sempre un
contesto nel quale una persona descritta altrove come anormale riesce ad agire e
ad esprimersi con facilità e onorevolmente e apparentemente senza pericoli né
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difficoltà per la società .››
4 Benedict Ruth (1887 - 1948) è stata un’antropologa statunitense Allieva di Fr. Boas, ha insegnato antropologia
alla Columbia University. Nella sua prima e più nota opera Patterns of culture (1934) ha elaborato il concetto di
modello culturale, analizzando l'organizzazione culturale di quattro diverse società primitive.
5 Cfr Benedict R., L’antropologia e l’anormalità, Hoepli, Milano 1970, p. 292.
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CAPITOLO 2:
DALLE SCUOLE SPECIALI A QUELLE INCLUSIVE
Il problema della convivenza tra diversità, soprattutto in campo scolastico, ha posto le basi
per l’inclusione. Tuttavia, prima di analizzare il concetto dell’inclusione, è necessario
soffermarsi sulle tappe storiche che hanno caratterizzato nel tempo questo cammino e, in
particolare, è necessario soffermarsi su altri concetti chiave: l’esclusione, la segregazione,
l’inserimento e l’integrazione.
L’esclusione si verifica quando il soggetto con difficoltà, non necessariamente disabile,
viene escluso da ogni pratica educativa. Questa situazione nel sistema scolastico italiano si è
protratta fino al ventennio fascista.
La segregazione prevede che i soggetti in difficoltà possano prendere parte alle attività
didattiche in contesti distinti da quelli degli altri studenti e con modalità differenti. Dunque,
soggetti con difficoltà o disabilità devono avere “scuole speciali” e “classi speciali”, con una
didattica pensata appositamente per loro da docenti qualificati. Già la “Legge Gentile” (1923)
aveva stabilito l’obbligo scolastico ai ciechi ed ai sordomuti in scuole appositamente istituite.
La C.M. n 1771/12 dell’11 marzo 1953 delineava un sistema che distingueva tra classi
speciali per minorati e scuole di differenziazione da un lato, e classi differenziali dall’altro:
‹‹Le classi speciali per minorati e quelle di differenziazione didattica sono istituti
scolastici nei quali viene impartito l’insegnamento elementare ai fanciulli aventi
determinate minorazioni fisiche o psichiche ed istituti nei quali vengono adottati
speciali metodi didattici per l’insegnamento ai ragazzi anormali, es. scuole
Montessori. Le classi differenziali, invece, non sono istituti scolastici a sé stanti,
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ma funzionano presso le comuni scuole elementari ed accolgono gli alunni
nervosi, tardivi, instabili, i quali rivelano l’inadattabilità alla disciplina comune e
ai normali metodi e ritmi d’insegnamento e possono raggiungere un livello
migliore solo se l’insegnamento viene ad essi impartito con modi e forme
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particolari. ››
La segregazione è stata superata dalla logica dell’inserimento. In Italia l’inserimento degli
alunni disabili nel sistema di istruzione generale è avvenuto con la L. 118 del 1971, con la
quale si rinuncia alle “classi speciali” e alle “scuole speciali” e si stabilisce che i soggetti
disabili debbano frequentare le classi tradizionali insieme agli altri studenti. L’art. 28 della
legge 118/71 sanciva chiaramente il diritto dei disabili a frequentare la scuola pubblica.
Tuttavia, l’ottica dell’inserimento non offriva strategie mirate ad integrare gli alunni disabili e
quelli non disabili e si pensava che fosse sufficiente inserire l’alunno disabile in classe per far
sì che egli ne traesse beneficio. Mancavano metodi e strategie che agevolassero l’inserimento
e la socializzazione fra alunni disabili e alunni non disabili andava incentivata, trasmettendo i
valori di accettazione dell’altro e trasmettendo l’idea che l’altro, anche se diverso, presentava
la stessa dignità.
Per questi motivi, si è passati alla prospettiva dell’integrazione scolastica, che è nata in
Italia con la L. 517 del 1977 e che prevedeva l’inserimento a scuola dei bambini disabili. Si
stabiliva che le classi che accoglievano un portatore di handicap non dovevano superare le
venti unità e dovevano avvalersi di un servizio socio-psico-pedagogico, e si definiva il ruolo
dell’insegnante di sostegno, preparato in modo specifico nelle tecniche didattiche differenziali
6 Barbuto E. e Mariani G., Avvertenze Generali per tutte le classi di concorso di ogni ordine e grado,
Competenze pedagogiche e didattiche, Ordinamento del sistema istruzione, EdiSES, Napoli 2016, p. 446.
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adeguate ai vari tipi di disabilità, il quale deve essere presente in classe per aiutare l’alunno
nello svolgimento delle attività didattiche. L’integrazione scolastica permette di adottare
regole generali che rispettino le specificità degli alunni disabili e degli alunni non disabili,
grazie alla collaborazione dei docenti specializzati e dei docenti curricolari. Tutti questi
cambiamenti portarono ad un cambiamento di portata più ampia, che riguardava l’intera
istituzione scolastica: tutti gli alunni venivano posti al centro al centro dell’interesse
formativo, in modo da rispettare e sfruttare meglio le caratteristiche personali di ogni allievo.
Tuttavia, questa prospettiva presentava un grosso limite, in quanto molto spesso il processo
di integrazione si riduceva ad un semplice adattamento della minoranza (alunni disabili) alla
maggioranza (alunni non disabili):
‹‹Il sistema maggioritario dà per scontato che la partecipazione al gruppo di
maggioranza avverrà secondo gli standard del proprio sistema, ossia quello
dominante. In altre parole, nel processo di integrazione, l’istruzione speciale si
unisce al sistema tradizionale e funziona quanto più possibile secondo le norme
del sistem