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Considerate il colloquio con i genitori nel primo caso (il caso di G.) riportato nel capitolo 7 del libro “Quando imparare è
più difficile”. Riportate le principali differenze (colloquio con genitori di G. e colloquio con genitori di A.) che emergono
considerando i dati a voi disponibili.
La prima differenza tra i due casi riguarda l’invio: nel caso di G. è l’insegnante a suggerire ai
genitori di rivolgersi al servizio di consulenza, mentre nel caso di A. è la madre a richiedere la
consultazione per chiarire alcuni dubbi personali riguardo le difficoltà del figlio. Tuttavia i
genitori di G. riferiscono che in passato avevano già richiesto l’intervento di un logopedista, in
quanto G. “nelle parole non metteva la erre o la esse”, mentre per A., che aveva avuto un ritardo
nello sviluppo del linguaggio, non era stata richiesta alcuna consulenza nella prima infanzia. Per
quanto riguarda invece l’andamento del colloquio, i genitori di A. descrivono più ampiamente le
difficoltà del bambino, arricchendo il racconto di esempi esplicativi, mentre i genitori di G., pur
alternandosi l’un l’altro nei turni, producono descrizioni brevi e sembrano necessitare di maggiori
input da parte della psicologa. Un’altra differenza che si può riscontrare nei due colloqui riguarda
la propensione dei genitori di G. nel mettersi nei panni del figlio, cercando di comprendere le
difficoltà e le emozioni del bambino tornando con la mente alla propria infanzia e stabilendo dei
parallelismi che gli permettano di “giustificare” alcuni suoi comportamenti (es. Mamma: “[…]
capisco che molti comportamenti sono dovuti al fatto che… è quello che molte volte sentivo io”);
i genitori di A. invece mantengono un certo distacco emotivo, mostrandosi in alcuni casi
maggiormente giudicanti (es. Mamma: “[…] proprio non… no, ora, e qui non riesco a capire,
pigrizia? Sicuramente.” Papà: “secondo me, secondo me sì”). Infine, tenendo conto degli estratti
del colloquio di G. riportati nel libro, sembra che l’attenzione dei suoi genitori sia più orientata
alle difficoltà extrascolastiche (fragilità a livello psicologico, scarsa fiducia in se stesso,
timidezza, paure), mentre i genitori di A. sono maggiormente concentrati sull’orizzonte scolastico
(lettura, scrittura, comprensione del testo, apprendimento delle divisioni, ambiente scolastico
caotico).
Dal capitolo 8 del libro “Quando imparare è più difficile”:
Immaginare che il governo della consultazione diagnostica risieda esclusivamente nelle mani dell’“esperto”
“
è una finzione, che non rende conto di quanto la comprensione intersoggettiva dell’incontro clinico si realizzi
grazie al contributo di entrambi i gruppi di partecipanti, esperti e non esperti. ”
Spiegate quest’affermazione e poi considerate se ci sono parti del colloquio analizzato in aula in cui c’è uno sforzo di
comprensione intersoggettiva tra partecipante esperto e partecipanti non esperti.
Tradizionalmente il colloquio tra un esperto e un paziente/cliente è visto sotto un’accezione di
asimmetria, in cui colui che detiene la conoscenza professionale fa un’analisi dei sintomi e
restituisce una diagnosi. La costruzione della diagnosi è invece un processo di negoziazione tra
l’esperto e gli altri partecipanti, che sono a loro volta “esperti” del proprio figlio. Questo fa sì che
ci sia una certa interdipendenza tra le due parti, che devono impegnarsi nella comprensione
reciproca al fine di giungere ad un’analisi il più completa possibile. Nel colloquio con i genitori
di G. questo sforzo di comprensione intersoggettiva si può notare dall’intervento 18 fino al 37:
dopo la descrizione degli episodi di comportamento provocatorio del bambino da parte della
madre, la psicologa indaga il vissuto emotivo della donna in seguito alla violazione delle sue
aspettative; seguono poi diversi turni in cui viene chiarito tra le parti a quale periodo si sta
facendo riferimento (primo o secondo cambiamento di classe?), per concludere poi al turno 37
con una richiesta ai genitori da parte della psicologa di esprimere le proprie opinioni personali