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Carmelo Vigna Sulla cura
1. La cura per un essere umano è anzitutto una maniera di rapportarsi al
mondo: quella maniera che protegge dal male qualcosa; soprattutto
qualcuno. Ma proteggere qualcosa o qualcuno dal male significa
presupporre che qualcosa o qualcuno sia vulnerabile. L'esperienza diffusa
e costante della vulnerabilità delle cose di natura e degli esseri umani è
dunque alle origini della cura. Questa esperienza è però l'esperienza stessa
della nostra finitudine. Solo un essere finito può infatti essere vulnerato e
rischiare di perire. La cura vorrebbe impedirlo.
2. Impedire che qualcosa o qualcuno sia vulnerato e anche perisca, si può in
molti modi. Perciò la cura prende molti nomi. Siamo abituati a legare la
cura al malato e alla sua malattia. Ma si cura anche educando, si cura
governando, si cura se medesimi nel corpo e nell'anima, si curano gli
animali procurando loro del cibo, si curano le piante con l'acqua o il
concime, si curano gli oggetti restaurandoli o semplicemente ripulendoli,
si cura l'ambiente, si curano i rapporti con gli altri e pure i rapporti con Dio
ecc. Ogni essere può essere oggetto di cura; ogni forma dell'essere può
meritare della cura. Se è vulnerabile. Strappare alla vulnerabilità è il sogno
di ogni essere umano. Perché è, prima ancora, il sogno di Dio.
3. Non possiamo qui inseguire i molti sensi secondo cui ci si cura di qualcosa
o di qualcuno o si prende in cura qualcosa o qualcuno (già queste due
maniere differiscono notevolmente). Preferiamo soffermarci sul prendersi
cura d'altri, perché questo è poi il senso più importante e più diffuso nella
quotidianità. E quanto alla cura d'altri, di nuovo restringiamo le nostre
considerazioni all'essenziale. L'essenziale è la cura d'altri come liberazione
d'altri dal male (del corpo e dell'anima).
4. E subito osserviamo che la cura d’altri non è una semplice possibilità per
un essere umano. In certo senso, non è neppure un “dovere”. E’ piuttosto
una vera e propria “necessità”. Un essere umano, infatti, vive e fiorisce in
rapporto ad altri, e se il rapporto ad altri non è per lui gratificante, ne
muore. Per quanto l’affermazione possa parere paradossale, è vero che noi
ci nutriamo esclusivamente di alterità, nel corpo come nello spirito. Perciò
a noi conviene avere altri come disponibili per noi. Ma altri possono essere
per noi disponibili solo se stanno bene. Ne viene che la condizione del
nostro benessere è il benessere d’altri. Ma perché altri stia bene, deve
essere da noi, appunto, “curato”.
5. Per meglio intendere questa prima considerazione, bisogna fare attenzione
all’ordine delle intenzioni. Il nostro star bene non può essere la prima
intenzione, nel rapporto ad altri. Non sfuggiremmo altrimenti ad un
miserabile narcisismo e ad una sorta di cannibalismo delle relazioni. La
prima intenzione deve sempre essere lo star bene d’altri. Il nostro star
bene (la cura di noi medesimi) seguirà poi - inevitabilmente. Ma, appunto,
non deve essere voluto di prima intenzione. Proprio come quando, ad es.,
si va in bicicletta: mai guardare la ruota; guardare piuttosto la strada, per
non andare finire contro un palo o contro un albero o in un fosso. La ruota
andrà di suo al modo giusto, proprio perché uno fa attenzione alla strada e
non alla ruota.
6. Ora, i nostri rapporti con altri sono a volte simmetrici, a volte asimmetrici.
Ma non c'è mai asimmetria senza una certa simmetria e viceversa. Così il
nostro rapporto di cura. A volte siamo solo curati, a volte siamo solo
curanti, quando non c’è una vera e propria simmetria; e tuttavia la cura
importa sempre una reciprocità di fondo. Questa considerazione è di
notevole importanza. Senza una reciprocità di fondo, nessuno può essere
veramente curato, anche nel rapporto asimmetrico. Certo, ci si cura anche
di semplici oggetti, ma in tal caso la cura è piuttosto una delle forme della
cura di sé. Gli oggetti sono cose che abbiamo e che fanno in qualche modo
parte di noi. I soggetti non sono cose che abbiamo; sono altro da noi in
senso radicale. Sono un altro principio della vita, per noi sempre
inaggirabile.
7. Quando un altro soggetto sta con noi in relazione asimmetrica, accade che
noi ne dipendiamo o che lui dipende da noi. Se ne dipendiamo, possiamo
da lui esser presi in cura, se dipende da noi possiamo prenderlo in cura.
Qui lasciamo da parte il primo caso, che pure possiede una propria
declinazione, e prendiamo a considerare il secondo, quello più comune,
quando si parla di cura. Si parla infatti di cura soprattutto dal punto di vista
di chi cura, perché si presuppone per lo più che il soggetto curato sia
passivo. In realtà, si commette, così pensando, un errore clamoroso, ma
per ora lasciamo in sospeso questo tipo di sviluppo.
8. Chi cura protegge colui che cura dal negativo, cioè dal male per lui,
abbiamo già anticipato. Egli cura che il soggetto in cura ritrovi lo star
bene, se lo ha perduto, o permanga nello star bene, se già possiede il bene.
Chi cura, se veramente cura, è dunque un essere per altri, giacché la sua
mira è il benessere d’altri, non il proprio star bene (che pure
inevitabilmente accade; lo si è detto). Perciò chi cura deve prendere
sempre altri come fine, e mai semplicemente come mezzo. Ma questo
implica che il fondamento del suo agire sia il bene d’altri. Implica cioè che
tutte le proprie azioni di cura traggano senso dalla realizzazione della
fioritura dell’altro. L’altro è così per lui fonte di senso. Deve dunque
essere ascoltato in un modo speciale. Quel modo che è declinabile quasi
come l’ascolto del proprio “signore”. La “fonte di senso” è infatti qualcosa
di simile al “signore”. Origina e quindi padroneggia la direzione
dell’azione.
9. Solitamente diciamo di curare chi è “malato” o è esposto facilmente al
male possibile (come accade ai bambini). Per la verità oggetto di cura è
anche il “sano”, ma nel caso del “sano” la cura consiste, semmai,
nell’aiutarlo a restare in salute. Nel caso del malato, la cura consiste invece
nel fargli riacquistare la salute. Ed è questa la difficoltà più grande per chi
cura. Liberare dal male non è mai, infatti, in nostro potere. Possiamo, nel
migliore dei casi, aiutare altri a liberarsi dal male, perché il male è prima
di tutto qualcosa che ha a che fare con l’esercizio della nostra libertà. E
solo dopo, il male è anche male fisico. Il male più grande e più profondo è
il male dell’anima. Sempre o quasi sempre ci si ammala nel corpo, perché
ci si è ammalati nell’anima, almeno nell’Occidente opulento, che ha
sconfitto per gran parte gli attacchi “esterni” al corpo, ma è diventato
fragilissimo rispetto agli attacchi interni. Non ci si ammala più di malaria
o di tubercolosi, però ci si ammala di depressione e di altre turbe psichiche
o ci si droga, cioè ci si procura, volenti nolenti, turbe psichiche e male
fisico.
10. Quando si cura qualcuno deve venire innanzi la capacità di durare
nell’attesa che spera. Intendo ricordare che liberarsi dal male fisico o
psichico è un compito lungo e deve essere eseguito da un soggetto a volte
indebolito nelle capacità di autonomia. Questo può indurre chi cura alla
sensazione dell’inefficacia o addirittura dell’inutilità dei propri sforzi.
Continuare, nonostante le smentite a breve e i comportamenti discutibili,
una relazione di fiducia e di sostegno significa guardare lontano. Significa,
cioè, oltrepassare la sequenza più o meno prevedibile di alcune “pratiche”
inaccettabili, messe in opera dal soggetto in cura, e rivolgersi alla capacità
(nascosta) di ripresa di comportamenti corretti. Significa, in certo modo,
aver occhio per l’“invisibile”. Tutto ciò che è solo potenziale, è sempre
invisibile.
11. Bisognerebbe stare nel rapporto di cura in maniera da trattare il soggetto in
cura senza mai dimenticare la sua natura di persona umana, cui
appartiene in modo inalienabile una speciale dignità. E questo sia perché le
nostre forme di vulnerabilità non diminuiscono mai la naturale dignità
originaria di un essere umano, ma solo la sua capacità operativa; sia
perché trattare la persona in cura come persona a pieno titolo, significa
evocare nel soggetto tutto ciò che è provvisoriamente impedito dalla
fragilità psichica. In altri termini, per ottenere qualche risultato, bisogna
sempre “parlare” alle parti buone di un essere umano e allearsi con quelle.
Ma le parti buone sono anzitutto quelle contenute nell’essenza o nella
natura nostra.
12. Una dimensione rilevante del rapporto di cura è costituita dalla presa in
carico della negatività del soggetto in cura. Stare da presso al negativo è
cosa difficile, tanto più se il negativo è ciò che altri porta con sé.
Accogliere altri anche nella forme della negatività importa lasciarsi
“contaminare” o lasciarsi in qualche modo “ferire”. Una ripulsa istintiva
del curante è sempre da mettere in conto. Ma essa può restare sotto
controllo, in chi ha responsabilità della cura, se egli è in grado di assorbire
la negatività, di darle un certo significato attraverso l’interpretazione e di
“metabolizzarla”, restituendo al soggetto in cura la stessa realtà di prima,
ma “bonificata”. Un soggetto in cura dovrebbe poter contare su questa
permanente opera di bonifica da parte del responsabile della cura. Da solo,
infatti, un soggetto in cura difficilmente può venire a capo del proprio
male. La sua libertà deve poter essere sostenuta e quasi in certo modo
persino surrogata.
13. La presa in carico della negatività impedisce un possibile processo di
colpevolizzazione del curato. La prima mossa della cura sta proprio
nell’evitare di venire presso il soggetto in cura attraverso il giudizio
moralistico o comunque colpevolizzante. E’ vero che un essere umano
resta sempre un essere responsabile, ma è anche vero che in certi momenti
della vita uno può essere piuttosto assediato dagli effetti della condotta
precedente. Egli vorrebbe poterli togliere, ma non v