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Certo, la componente ‘’vendita’’, con la relativa azione promozionale, fu tra le più
caratterizzanti il fenomeno dello Streamlining. Di per sé l’industrial designer non
rappresenta un personaggio nuovo. Però ora ci troviamo posti di fronte a nuove
dimensioni: le serie illimitate che produce l’industria nel periodo della piena
meccanizzazione sono tutte improntate allo stile dell’industrial designer. La sua influenza
sulla formazione del gusto può essere paragonata solo a quella del cinema. L’industrial
designer non traccia soltanto profili. Negli studi rinomati nei quali lavorano anche più di
cento disegnatori vengono compiute, per conto dei clienti, inchieste di mercato, studiate
proposte per la riorganizzazione di grandi magazzini o di fabbriche o addirittura
interamente progettati gli edifici secondo le varie esigenze richieste. Quindi il designer
deve essere ad un tempo artista, architetto e organizzatore. Egli deve obbedire ad
un’autorità unica, al compratore, cioè al dittatore che negli USA impera sul piano del
gusto.
Nulla di nuovo accade in America rispetto alla logica tradizionale della vendita del prodotto
industriale, così come da vari decenni si era verificato in Europa: dopo la concorrenza
affidata alla competitività dei prezzi, subentra la fase di quella affidata anche alla qualità
formale dei prodotti. Non è quindi senza ragione che sia stato proprio uno dei maggiori
rappresentanti dello Styling design, Raymond Loewey, a interpretare nella sua opera e nei
suoi slogans le nuove esigenze dei consumatori e ad agire contemporaneamente sui due
fronti della produzione e del consumo, convincendo gli industriali che ‘’le cose brutte si
vendono male’’ e che un buon disegno vuol dire anche buoni affari, ma senza
dimenticare di avvertire, con uno slogan di ricambio, che ‘’il più bel prodotto non si
venderà se il compratore non è convinto che si tratti realmente del più bello’’.
Quanto alla componente ‘’consumo’’, inteso come segno del consenso del pubblico
verso un determinato fenomeno produttivo, va anzitutto precisata meglio quella valenza
simbolica di cui s’è più volte parlato.
Lo Styling non cercava di condizionare psicologicamente il gusto del pubblico con l’aiuto
della pubblicità, ma di interpretarne anche gli umori e le aspirazioni tenendone conto nella
progettazione sulla base di simboli e di convenzioni visive in cui la collettività dei
consumatori potesse in qualche modo riconoscersi.
La cultura dello Streamlining ci sembra vada interpretata rispetto ad una tendenza via via
sempre più affermatasi nelle istanze del pubblico. Questo, nei settori merceologici più
tradizionali, è orientato generalmente verso tipi e forma ancora artigianali, comunque
rivolti al passato; viceversa, per quei prodotti affatto nuovi predilige tipi e forme industriali
e comunque ultramoderni.
Di fronte a questo divario, lo Streamlining ci sembra l’unica tendenza che abbia tentato, in
buona parte riuscendovi, di conferire tanto a i prodotti di alta tecnologia quanto a quelli
originariamente artigianali un’unità di stile.
Nel 1932 Henry Russel Hitchcock e Philip Johnson organizzarono presso il Museo di
arte moderna di New York una mostra intitolata The International Style e volta ad
illustrare i migliori esempi della produzione architettonica a partire dal 1922.
Tra il 1925 e il 1932, la maggior parte dei critici europei aveva abbandonato l’ampollosa
retorica dell’avanguardia dell’immediato dopoguerra per concentrarsi più precisamente, in
varie occasioni, sulle cause sociali dell’architettura. Soprattutto l’edilizia residenziale e
la pianificazione erano diventati i punti di contatto unificanti tra i gruppi di architetti.
Hitchcock e Johnson si trovarono, perciò, costretti a compiere un duplice gioco di prestigio
al fine di rendere accessibile l’architettura europea ad un pubblico americano. Come che
sia, la formula fu indovinata e, sia pure variamente intesa, l’idea di International Style ha
alimentato la produzione architettonica fino ai nostri giorni o quasi.
Hitchcock e Johnson giunsero anche ad indicare i tre princìpi-base di questo codice-stile:
la concezione dell’architettura come volume, ovvero come spazio definito da piani o
superfici sottili in contrasto con il senso della massa e della solidità; la composizione
basata sulla regolarità piuttosto che sulla simmetria e su altri tipi ovvi di equilibrio; il gusto
dei materiali, della perfezione tecnica e delle proporzioni in opposizione alla decorazione
applicata.
Per International Style in campo di design domestico fu inteso uno stile basato sulla
stereometria elementare dei mobili contenitori, sull’impiego dell’acciaio curvato quale
struttura di sedie e poltrone, sull’accostamento di pochi eterogenei materiali, sull’assenza
di ogni decorazione, così come nei tre princìpi-base che Hitchcock e Johnson avevano
teorizzato per l’architettura. Si aggiunga che, per la semplicità del metodo e per la facilità
delle regole, questo gusto del mobile si diffuse rapidamente in ogni paese, legittimando
quell’attributo di internazionale, anche se i processi d’industrializzazione furono diversi da
nazione a nazione.
Ma l’esistenza di un International Style nel settore del design, del tutto parallelo a quello
dell’architettura, non si limita all’influenza dei mobili in tubolare d’acciaio ideati in Europa,
né alla stesa presenza degli insegnanti europei in America. Si contano molte esperienze
che sin da tempi più lontani sono state condotte in sintonia più o meno consapevole al di
qua e al di là dell’Atlantico. Tipico è il caso dell’assembled kitchen, di quella
organizzazione e conformazione di mobili ed attrezzi poi generalmente nota come
‘’cucina americana’’. Il problema fu posto da Catherine Beecher che pensò all’ambiente
della cucina e al suo arredamento in connessione coi temi del femminismo, dell’abolizione
o riduzione del personale di servizio, di un più razionale sfruttamento dello spazio,
giungendo a formulare concrete proposte disegnate.
Il punto d’arrivo delle ricerche europee fu la cucina adottata nel quartiere Frauheim di
Francoforte, progettato da Ernst May. Tale cucina, ideata dall’architetto viennese Grete
Schutte-Lihotzky, riassume e dà forma a molti dei requisiti da tempo ricercati:
disposizione di una ‘’pianta a U’’ di tutti gli elementi in modo che la massaia, quasi da
ferma, possa operare avendo a portata di mano tutto l’occorrente. In sintesi, unificazione
degli elementi orizzontali e verticali.
Intanto, spostandoci nuovamente in America, in questo lasso di tempo l’industria è
impegnata a produrre isolatamente le varie ‘’macchine’’, segnatamente quella per lavare
automaticamente, il frigorifero, il fornello con i suoi vari sistemi di alimentazione, ecc.,
ognuna con proprie caratteristiche tecniche e, quel che più conta, con proprie misure
d’ingombro che rendevano difficile il loro assemblaggio in quell’insieme unitario sopra
descritto. Non ultima difficoltà, quella di convincere i fabbricanti della convenienza di
produrre lavelli, lavatrici e frigoriferi, e non solo separatamente ma anche in modelli che
rientrassero in un insieme coordinato. Per ottenere tale risultato si rese necessario lo
sforzo produttivo di varie industrie, il contributo di varie istituzioni, persino di una
campagna di stampa.
Nella storia del prodotto industriale l’assembled kitchen assume un ruolo importante per
le evidenti implicazioni sociali, economiche, più tardi di status symbol, ma anche per altri
motivi. Come contemporanea al movimento dello Streamlining, essa ne riassunse anche
lo spirito: conferire un aspetto gradevole ad un intero ambiente meccanizzato,
nascondendone gli stessi meccanismi e dando al tutto un’immagine di estrema efficienza.
Se l’automobile, gli elettrodomestici, l’assembled kitchen, le macchine e le
apparecchiature elettroniche sono i prodotti più emblematici dell’industria americana,
questa sembra dare il meglio di sé, per ciò che attiene alla vicenda del design, nel settore
del mobile.
Oltre che essere limitato al settore dei mobili, il nostro esame si soffermerà su quelli
prodotti da due sole delle oltre 4.000 aziende operanti in America: esse sono la Herman
Miller Furniture Company e la Knoll International.
Della prima, sorta in una piccola città nei pressi di Grand Rapids (Michigan) nel 1905,
George Nelson, architetto e designer, consulente dal 1944 al 1965, scrive che è una
piccola azienda in una piccola città, e viene diretta dai proprietari stessi. Ciò che la
distingue da altre imprese del settore sono i seguenti princìpi: cioè che fai è importante; il
design è una componente fondamentale della nostra attività; il prodotto deve essere
onesto; sei tu a decidere cosa vuoi produrre; esiste un mercato per un buon design.
La seconda ditta fu fondata nel 1951 da un giovane mobiliere tedesco, Hans Knoll,
emigrato in America, al pari di maestri del Bauhaus, all’avvento di Hitler.
L’aspetto più interessante di queste vicende sta nella singolare circostanza che i primi
principali designers di entrambe le ditte ci occupiamo provengono da un unico centro
didattico: la Cranbrook Academy of Art di Bloomfield Hills (Michigan), fondata e diretta
da Eliel Saarinen, il maggiore architetto finlandese della generazione dei maestri,
emigrato negli USA nel 1923, avendo vinto il secondo premio del concorso per la
‘’Chicago Tribune’’. Essa si fondava sull’intento di incrementare il rapporto tra le arti
maggiori e quelle applicate, sulla venerazione dell’opera di Morris e delle Arts and Crafts e
per le altre istituzioni europee, segnatamente la Wiener Werkstatte.
Quanto alla componente ‘’progetto’’ delle due ditte in esame, l’analisi deve partire dal
famoso concorso ‘’Organic Design in Home Furnishing’’. Bandito dalla neocostituita
sezione design del Museo d’arte moderna di New York nel 1940, fu vinto da Eames e
Saarinen, che presentavano quattro progetti per sedie e soluzioni per mobili componibili.
Il modello principale ideato dal team Eames-Saarinen per il concorso del 1940 consisteva
in un poltrona ricavata da una grande scocca formante sedile, schienale e braccioli. La
plasticità di questa ampia e accogliente forma trovava un voluto contrasto nelle quattro
sottili gambe, divaricate al fine di migliorare la stabilità del mobile.
Ancora sulla componente ‘&rsqu