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IL MISTERO DELLA SOCIOLOGIA
1937: Talcott Parsons pubblica “la struttura dell'azione sociale, nella quale
sostiene che Weber e Durkheim pur proponendo letture antitetiche dei
fenomeni sociologici mettono in campo due teorie non troppo dissimili tra
di loro, due teorie che finiscono per completarsi.
Nello stesso tempo Josè Ortega elabora una propria teoria partendo
dall'assunto che le due teorie di Weber e di Durkheim sono essenzialmente
inconciliabili, e soprattutto che la definizione di Weber di azione sociale
fosse inadeguata. Infatti la teoria di Weber presuppone che solo l'azione
interindividuale dell'individuo costituisce azione sociale. Una definizione
del genere eliminerebbe qualsiasi distinzione tra sociologia e psicologia,
ma Weber si cura di affermare l'indipendenza della prima dalla seconda,
identificando l'azione sociale come razionale rispetto a uno scopo o a un
valore creando il concetto di “razionalità normale oggettiva”, il primo tipo
di azione viene regolato da una razionalità strumentale, il secondo da una
materiale. A questo punto nasce la domanda che chiede da dove vengano
questi imperativi che inducono l'attore a comportarsi in un dato modo. La
risposta che Weber da è antitetica a quella di Durkheim, infatti insiste
nell'affermare che sulla scena sociale ci sono solo gli individui e i
significati che essi attribuiscono in maniera soggettiva alle proprie azioni,
il senso del sociale di Durkheim è completamente assente dunque. Da qui
l'impossibilità per Weber di vedere che l'oggetto della sociologia è l'azione
tradizionale, ovvero un'azione guidata dalla cultura alla quale l'individuo
appartiene. Ortega riesce a vedere questa incompatibilità tra le due teorie e
giunge alla conclusione che nell'interazione esiste un “terzo personaggio”,
ovvero la tradizione culturale, che non è altro il fatto sociale di Durkhei, al
quale Ortega riconosce di aver compreso che vi sono dei fatti sociali che
sono esterni all'individuo e ne guidano l'azione grazie al potere coercitivo
che esercitano. Ortega li chiama “usi sociali” e la sua analisi sociologica si
basa sul peso che essi esercitano sull'attività umana: per lui la tradizione
culturale non è altro che un sistema di usi che si è sviluppato
spontaneamente attraverso molte vicissitudini e divenuto una struttura
nella quale si svolge l'interazione tra i singoli individui. Si prenda come
esempio l'atto del saluto: esso è effettivamente un gesto meccanico,
compiuto per il semplice fatto che “si fa così”, e anche se si può attribuire
il significato soggettivo di mostrare buone intenzioni, alla realtà dei fatti è
un modello di comportamento imposto, munito di sanzioni. Il saluto non è
che uno dei tanti modelli di comportamento al quale l'uomo si conforma se
vuole interagire con gli altri, da qui Ortega chiama gli usi “vigenze
collettive” poiché fissano le regole di base in base alle quali si svolge la
vita sociale più basilare. Fenomeni come la moda, o la lingua, confermano
come le relazioni interindividuali sono regolate da norme che nessuno ha
esplicitamente creato e alle quali tutti sono assoggettati senza che ci sia
una specifica agenzia deputata al controllo del rispetto di esse: Ortega
arriva a affermare che l'interazione è dominata dal potere impersonale
della gente. L'uomo è un essere sociale dunque, poiché la società si fa
“viva” in lui sotto forma di cultura interiorizzata attraverso il processo di
socializzazione, essere uomo significa “essere in una tradizione” scrive
Ortega. Questa sua teoria non è altro che una riformulazione della teoria di
Durkheim, ma Ortega riesce a sfuggire all'errore che il francese commette,
ovvero quello di non riconoscere alcun ruolo all'individuo se non nel
processo di socializzazione. Ortega è dell'avviso che il carattere fantasioso
dell'essere umano è troppo evidente per essere negato, e affermò che non è
la società ad essere creativa ma l'individuo stesso. Mentre Durkheim tende
a spiegare il sociale con il sociale, Ortega vede nell'azione individuale la
sorgente del mutamento della tradizione. Ricorre a una metafora efficace,
ovvero che la personalità individuale è come una sfera spessa fuori e cava
dentro, lo spessore è dato dallo spirito sociale della persona, saturo di usi e
tradizione, ma il cavo centrale è riempito dall'entità creativa dell'individuo
laddove l'immaginazione è al riparo dalla pressione alteratrice della gente.
Per Ortega nulla entra nella cultura senza essere stato prima elaborato
dall'individuo, non troviamo solo gli individui che agiscono come in
Weber né gli individui e le proprie azioni già programmate dalla cultura
stessa come per Durkheim, arrivando alla conclusione che la realtà è
biforme perchè costituita da questi due elementi fondamentali. Molte usi
sociali sono reiterati solo perchè “lo fa la gente”, ciò fa scadere Ortega
nella concezione di vita inautentica di Heidegger, ma Ortega rifiuta la
negatività della definizione esistenzialista poiché riesce a percepire che
sebbene il sociale sia inautentico senza di esso la vita autentica sarebbe
impossibile, per le principali funzioni degli usi sociali:
1. Essi consentono di prevedere le azioni degli individui estranei e
permettono la convivenza con coloro che non conosciamo.
2. Permettono la tesorizzazione degli esperimenti di vita passati e
rendono possibile il processo materiale e morale della società.
3. Automatizzano molti comportamenti, dando all'individuo possibilità
di concentrarsi su ciò che ritiene di maggior valore.
4. Obbligano l'uomo a vivere all'altezza del suo tempo storico e a fare
riferimento al passato, senza il quale non potrebbe essere
effettivamente uomo del suo tempo.
Fra l'uomo e la società c'è un rapporto dialettico ben definito, poiché la
tradizione mette a disposizione dell'individuo una serie di punti di partenza
con cui fronteggiare la vita, sebbene stia all'uomo rinnovare questo
repertorio di usi sociali. Senza tradizione l'uomo non potrebbe essere
effettivamente tale.
LA LIBERTA' DEI MODERNI
Constant è colui che primo ha dato la definizione di “libertà dei moderni”
e l'individuazione dei suoi contenuti avendola paragonata con la “libertà
degli antichi”. Quest'ultima consisteva nell'esercizio pubblico di molte
funzioni della sovranità politica ed era compatibile solo con l'asservimento
totale dell'individuo all'autorità dell'insieme, e di tutt'altra natura è la
libertà dei moderni nella quale questa sottomissione non è presente in
quanto essa si basa nel pacifico godimento della propria indipendenza
individuale, presupponendo la distinzione tra pubblico e privato, concetto
assente nelle civiltà antiche.
Libertà degli antichi:
• libertà politica
• asservimento dell'individuo all'autorità
•
Libertà dei moderni:
• distinzione pubblico/privato
• nomocrazia
• garanzia dei diritti fondamentali
•
Constant ha inoltre proposto una spiegazione sociologica della nascita
delle due libertà. La prima era legata a una situazione storica che
presupponeva la guerra permanente tra le poleis, identificando la figura del
cittadino con quella del soldato: da qui l'assunto che le poleis erano
organizzate come caserme, palese l'esempio di Sparta, con il risultato che
ai liberi cittadini fu imposto una rigida gabbia istituzionale dalla quale non
potevano uscire. La libertà dei moderni per contro nasce dall'esercizio
dell'attività mercantile. Nei tempi moderni (ma anche per Atene)
l'allocazione delle risorse scarse non è più avvenuta per mezzi militari ma
attraverso il commercio a largo raggio, il quale ispira negli uomini un forte
desiderio per la libertà. Attraverso il commercio infatti è nato un nuovo
tipo antropologico, l'uomo borghese, un uomo che è orientato verso il
godimento privato dei propri diritti e teso a evitare qualsiasi ingerenza
statale nei propri affari privati. Questo fa in modo che la base della società
liberale sia la società borghese stessa, ovvero una società centrata sul
mercato e le istituzioni da esso portate, è il primato dell'economia che ha
fatto emergere questa particolare organizzazione sociale, entro la quale la
società liberale è nata e si è sviluppata. L'analisi di Constant si inserisce
nel dibattito ottocentesco tra Sparta e Atene come archetipi di due diversi
tipi di libertà, e Constant si schiera decisamente dalla parte di Atene che
ritiene rappresenti la prima incarnazione storica della libertà dei moderni.
Atene fu una città sui generis, poiché nessuna delle poleis del tempo
possedeva una tale nozione di libertà individuale, neanche la Repubblica
Romana, in quanto ad Atene il commercio fu in grado di far sparire tra i
cittadini le differenze che distinguono la libertà degli antichi da quella dei
moderni, proprio perché si era aperta al mercato. Essa istituzionalizzò la
“tradizione dell'anti-tradizione”, ma con la sua sconfitta nella guerra del
Peloponneso bisognerà aspettare il basso medioevo e la rivoluzione
comunale affinché lo spirito moderno della libertà potesse riemergere.
Riemerse attraverso quell'istituzione che l'aveva fatto nascere, ovvero la
città stato autonoma, e l'istituzionalizzazione dei diritti in queste ultime è
la chiave per comprendere l'origine della parabola storica che ha consentito
la nascita del capitalismo. La comparazione dei cittadini dei comuni
medievali con i cittadini loro contemporanei nel Dar-al-Islam o nei
sultanati Indiani fa risaltare molto che il nesso tra libertà e mercato è
essenziale per comprendere l'origine di questi fenomeni, in quanto mentre
l'Europa era ormai una “società distributrice di diritti” i paesi sopraelencati
erano imprigionati nella gabbia d'acciaio, che non poneva limiti ai poteri
arbitrari ma ne poneva all'economia di mercato e alle libertà individuali.
L'Europa riuscì a far nascere il capitalismo proprio per l'assenza della
megamacchina mumfordiana, e anche se gli stati nazionali soppressero le
autonomie compresero il valore della loro innovazione istituzio