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Riassunto esame Storia romana, prof. Giorcelli, Libro consigliato Civis Romana, forme giuridiche e modelli sociali dell’appartenenza e dell’identità femminili in Roma Antica, Peppe Pag. 1 Riassunto esame Storia romana, prof. Giorcelli, Libro consigliato Civis Romana, forme giuridiche e modelli sociali dell’appartenenza e dell’identità femminili in Roma Antica, Peppe Pag. 2
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Estratto del documento

Terme, Verre viene accusato da Cicerone di stuprum, anche se poi cambia tono e parla di amor tra Verre e

Callidama. Cicerone narra le storie di tutte quelle donne che sono state in relazione con la magistratura di Verre, per

screditarlo, incalzando sulla sua peccaminosa lussuria, aggressività sessuale.

8. conclusioni: Cicerone quindi descrive la personalità di verre per connetterla con la realtà dei fatti, per accusarlo. La

vituperatio è parte integrante dell’opera, soprattutto nella secunda actio, non solo su un piano strettamente tecnico-

giuridico.

8.1 Verre e le donne: in realtà Cicerone attraverso Verre e le Verrine: si incontrano molte donne nelle Verrine, viene

citata il nome di qualche adultera, altre rimangono anonime, anche quelle con cui Verre avrebbe commesso

stuprum, ovvero non sposate. Verre usa seduzione, ma soprattutto violenza contro queste. Se invece si guarda alle

donne con le quali Verre avrebbe avuto rapporti consenzienti alcune hanno un nome, altre rimangono senza come

quelle delle quali gli è stato ruffiano il liberto Timarchide in Sicilia, o le meretrici della sua gioventù. Nella vituperatio

di Verre ci sono quindi due pratogonisti: le donne consenzienti, qualificate come metrici da Cicerone, con cui si

compie la stigmatizzazione del tiranno come libidinoso; infine Verre stesso, presentato in due modi diversi. Da una

parte maschio aggressivo, dall’altra effeminato, succube di donne come Chelidone e Tertia.

8.2 Chelidone, una sconosciuta: di questa folla femminile negativa nelle Verrine, pochissime donne risultano con

qualche individualità, come Nice. Di Tertia si conosce l’origine familiare, di Chelidone invece non si sa nulla e questo

ci fa concludere che di fatto avesse ben poco peso strategico nelle accuse avanzate da Cicerone. Nella secunda actio

tuttavia si parla spesso di lei, anche senza avere riferimenti biografici. Questa diversa rileanza che Cicerone

attribuisce alle donne ha una spiegazione: serve per dimostrare che Verre è succube di una donna, e che questa sia

meretrix; Tertia invece serve per sottolineare la sua libido in Sicilia. Di chelidone quindi non abbiamo notizie, solo

supposizioni fatte da Cicerone: è mulier, meretrix e per due volte meretricula. Le Verrine quindi sono popolate da

un’umanità femminile composita: figlie, madri, sacerdotesse, cortigiane, nobili, plebee che entrano in stretto

rapporto con il mondo giuridico e la sua manifestazione più pubblica, il processo. Ne sono parti, testimoni, vittime,

lobbiste e corruttrici. Sono una presenza varia e importante che Cicerone involontariamente ci tramanda.

Cap. 5 – Le esclusioni in Ulpiano: D. 50.17.2 pr.-1

1. D. 50.17.2 pr.-1: una sintesi (quasi) perfetta: una sintesi di quanto analizzato finora la si trova in un passo di

Ulpiano, giurista che muore nel 228 d.c.. in un passo di Ulpiano che si trova nel Digesto giustinianeo si parla

dell’esclusione dei minori e delle donne dalle magistrature. Per il minorenne non è ancora il momento, per le donne

invece non ci sarà mai. I criteri dell’esclusione sembrano quindi diversi: per l’impubere la ragione è nella natura, gli

manca il iudicum; per la donna invece, come per gli schiavi, l’esclusione non avviene per natura, hanno iudicum, ma

per i mores, per diritto risalente. Le donne non possono porre in essere attività processuali in un processo altrui, non

possono garantire per altri, non possono rappresentare in giudizio. L’esistenza di queste incapacità è indubbia, ma

bisogna evidenziarne due dati: in primo luogo per sé la donna può agire in processo, in prima persona, così come

può essere chiamata in giudizio. In secondo luogo sia il divieto di difendere altri sia quello di garantire per altri non

sono originari e nelle fonti risultano introdotti molto tardi, quando la condizione della donna romana è divenuta

certamente più libera. Sembrerebbe una contraddizione, ma probabilmente è la traccia del tentativo di ribadire

principi tradizionali di fronte al percorso di emancipazione femminile.

2.1 le donne avvocato ovvero l’aneddoto di Carfania: Valerio Massimo e Ulpiano raccontano della vicenda di

Carfania, moglie del senatore Licinio Bucco, morto nel 49 a.c.. Secondo lo storico Carfania agitava il tribunale del

pretore con i suoi latrati, come fosse un cane, secondo il giurista la donna si comportava senza ritegno e infastidiva il

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magistrato. Bisognava introdurre il divieto che le donne infastidissero i magistrati, ma soprattutto bisogna evitare

che le donne assumessero funzioni virili. Il pretore quindi include le donne nell’elenco di coloro ai quali è vietato

difendere terzi in giudizio: ma di fatto si tratterebbe di un’esclusione sancita formalmente solo ora, mentre

precedentemente era solo socialmente riprovata. Secondo l’autore le donne prima di questa legge comunque

avevano un accentuato ruolo in prima persona nelle questioni giuridiche: prima a causa delle stragi della II guerra

punica, poi per i cambiamenti dell’economia romana e l’affermarsi di nuove forme processuali, le donne hanno

assunto un ruolo in prima persona nelle questioni giuridiche ed anche a favore di terzi, anche se il ruolo configgeva

con il fondo tradizionale dell’immagine della donna silenziosa e riservata. Valerio Massimo ricorda infatti la figura

precedente a Carfania, Mesia Sentinate, avvocatessa. Anche un’epigrafe testimonia questa attività, del I sec A.c.

elogio funebre di Turia, i genitori della donna sono stati assassinati in campagna e lei e la sorella riescono a far punire

il colpevole. Il testamento del padre viene attaccato dai parenti ingordi, lei riesce a difenderlo. È una donna

fortissima, si legge, quasi virile. Il divieto introdotto dal pretore forse non è neanche mai esistito, ma si è trattato

solo di un ritorno alla tradizione, dove le donne devono rimanere estranee alla giurisprudenza. Questa era la vera

colpa di Carfania.

2.2 il sc. Velle(i)ano: nei mesi di luglio agosto 54 dc viene emanato il senatoconsulto Velle(i)ano che proibisce alle

donne di assumere obbligazioni nell’interesse di altri in qualsiasi modo ciò avvenisse. Si preclude così un’attività

giuridica prima consentita alle donne. Quanto questo divieto sia stato efficace è difficile dirlo. Rimane il dato di fatto

che anche dalle fonti giuridiche risulta un protagonismo femminile negli affari che appare scarsamente conciliabile

con un effettivo rispetto del divieto del senatoconsulto. Probabilmente l’emanazione di questo si inserisce in un

contesto di mutamenti della materia giuridica: tra il 44 e 49 viene emanata la lex Claudia de tutela, che aboliva la

tutela agnatizia, provvedimento favorevole alle donne. Si sente la necessità quindi di specificare il divieto per le

donne di essere defensor, cosa che evidentemente prima la donna poteva fare.

2.3 Officia civilia e officia pubblica. D.1.1.1.2

La donna quindi viene esclusa dai pubblica officia. Nel Digesto D.1.1.1.2 si trova una definizione che in realtà è molto

più antica, collocata intorno al IV sec a.c.: in pratica sono escluse dalle magistrature le cose sacre e i sacerdoti. Le

donne e le loro sacerdotesse non possono non rientrarvi, cossichè la nozione di pubblico viene a riassorbire anche le

donne. La donna romana ha ovviamente pieno accesso allo ius civile, ma nel contesto le sono proibiti gli officia

civilia. Quindi anche se civis non gode della possibilità di farsi carico di cose altrui, come avvocati, procuratori ecc. gli

officia civilia sono officia virilia, tipicamente maschili. Per la famiglia romana inoltre una donna non può essere

tutore, ma questa impossibilità in realtà si radica semplicemente nella struttura originaria della familia: la tutela è

riserva maschile, anche se una madre da un certo momento può però negare che qualcuno sia nominato tutore

dativo del figlio. Le donne quindi sono escluse dagli officia civilia per più ragioni: evitare il contatto con gli estranei, e

soprattutto non collidere con l’immagine della donna dentro la famiglia. Tutto questo fa emergere la sua inferior

condicio.

Cap. 6 – le esclusioni nel tardo antico. Ambrosiaster Q.45.3

1. Ambrosiaster Q.45.3: altra sintesi, in un testo polemico cristiano: la sintesi di quello detto finora si trova anche nel

testo cristiano Ambrosiaster, di autore anonimo, databile intorno al 380 d.c, quando ormai la religione cristiana è

ben radicata e sta diventando la religione ufficiale dell’impero, ma è lacerata da conflitti interni, non solo teologici.

Questo testo ci interessa per due motivi: chi lo scrive utilizza norme specifiche e generiche del diritto romano per

asseverare una verità teologica, mettendo insieme concenzioni romane e giudaico-cristiane; le regole in esso

contenute faranno parte del diritto canonico cattolico e della tradizione giuridica europea laica fin quasi ai nostri

giorni. Il punto di partenza è un problema teologico: se la donna sia inclusa nell’immagine di Dio, così come l’uomo.

La risposta dell’Ambrosiaster è negativa, andando contro ad alcune delle posizioni della chiesa di quel periodo. Le

donne del periodo, in particolare vedove anziane e ricche avevano un ruolo nel cristianesimo: ricondotte dopo la

vedovanza allo stato verginale, quindi alla totale purezza, potevano, come alcuni sostenevano, avere un ruolo

ascetico di primo piano nella chiesa. Altri, come l’Ambrosiaster, legati ad una visione gerarchica e maschile, negano

anche questa possibilità alle donne.

1.1 Dominium: la donna è sottoposta al dominium, alla proprietà del marito, secondo l’Ambrosiaster. 11

1.2 Auctoritas: la donna non ha alcuna autorità. E non può neanche avere un’auctoritas propria di un giurista, figura

tipicamente maschile. quanto al diritto privato, fino all’età classica auctoritas era il necessario assendo del tuttore

agli atti di ius civile della pupilla e la donna non poteva essere tutrice; successivamente può divernrlo solo per

particolare concessione del principe. Al tempo dell’Ambrosiaster l’esclusione è assai meno tassativa perché la tutela

muliebre è ormai solo un ricorso storico, mentre fin dal II sec dc è ammessa in determinate circostanze la tutela della

donna sui propri figli.

1.4 docere: la donna non può insegnare nell’Ambrosiaster. Ma se si intende per insegnamento quello in pubblico, ciò

è avvenuto, anche se solo assai raramente e le protagoniste sono state figlie o mogli di illustri filosofi. Basti pensare

ad Ipazia. Solo le donne infatti di classe superiore ricevevano una certa istruzione. Per la donna era di competenza

invece l’educazione in casa dei propri figli fino ai 7 anni. La qualità di docta ricorre talvolta nelle epigrafi, ma questa

doveva sempre essere indirizzata nella sua sede naturale, la domus, altrimenti la donna poteva essere vista

negativamente, c

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Publisher
A.A. 2017-2018
15 pagine
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-ANT/03 Storia romana

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher simosuxyeah di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia Romana e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi di Torino o del prof Giorcelli Silvia.