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Instabilità relazioni affettive
Sintomi dissociativi
Alterazioni senso d'identità
Sfiducia, vergogna, timore di esser feriti o di
danneggiare
Difficoltà terapeutiche, ricadute
Disturbi d'ansia, dell'umore, da uso di sostanze,
suicidio associati
Storia traumatica è criterio costituente la diagnosi NO, non sempre è dimostrabile storia traumatica
(ma: è anche vero che gli studi a riguardo si basano su
un concetto di trauma fisico o sessuale e non
relazionale)
Liotti e Farina operano dunque un distinguo e ipotizzano (coerentemente con le idee di Classen) che: DA precoce
(meno grave) --> maggiormente associata all'insorgenza di quadri clinici coerenti con la diagnosi di DBP
Trauma infantile cronico (più grave)--> più propenso a produrre quadro con nome di Disturbo Post-traumatico di
Personalità, con due sottotipi, uno organizzato e uno disorganizzato (DPTP-O, DPTP-D), a seconda che al
trauma cronico si associ o meno la presenza della disorganizzazione precoce dell'attaccamento.
DBP diverso da DPTP-O: diversa intensità e durata dei sintomi dissociativi, atteggiamento relazionale richiedente
e confuso del DBP e maggiormente evitante dell'altro, stile cognitivo e emotivo oscillante tra convinzioni e
sentimenti positivi e negativi nel DBP e cronicamente incapace di positività nell'altro.
Il DPTP-D sarebbe distinguibile per l'estrema caoticità dello stile di vita e di relazione, esplosioni di rabbia,
dipendenza passiva alternata a reattività aggressiva, paura, impulsività, atti autolesivi e suicidarietà.
Vi è però una sostanziale difficoltà a diagnosticare i sintomi dissociativi: questo perchè coperti da altri sintomi;
perchè non esiste una diagnosi appropriata, a parte dei disturbi dissociativi; i sintomi diss spesso sono effimeri e
multiformi, è difficile persino che il cliente li segnali, perchè più pesanti sono generalmente quelli d'ansia o
depressivi; non è dichiarabile ciò che non si ricorda, dunque è impossibile avere chiara coscienza di oggetti
sottoposti ad amnesie traumatiche o simili; timore d'esser riconosciuto o riconoscersi come pazzi; difficoltà a
spiegare verbalmente, necessità di usare metafore (es non mi riconosco più). Allora il clinico, qualora non
emergano memorie esplicite di sviluppi traumatici, oppure si dubiti anche solo vagamente che queste siano frutto
di falsi ricordi, deve addentrarsi alla ricerca di altri indizi, specialmente indiretti, della presenza di trascuratezza,
maltrattamenti o abusi subiti. Finire invischiati in relazioni maltrattanti in età adulta, elementi biografici indiretti
che fanno capire come il caregiver non fosse disponibile, episodi di contagio emotivo di dolore e paura nella
relazione coi genitori (come in lutti o malattie nel caregiver ancora prima che il pz nascesse), gravissime difficoltà
economiche, violenza domestica, degrado sociale, disturbi psichiatrici prolungati nei caregiver, sono tutti
indicatori utili di quello che il pz può aver subito.
Anche lo stile narrativo conta: specie nell'AAI, ma anche in colloquio, discorsi confusi, pausati, storie difficili da
ricostruire possono parlare di intrusione di memorie traumatiche non elaborate, sulle quali mai l'indagine deve
farsi forzata (pena attivare il pz laddove non è pronto e rischiare di mandarlo in dissociazione). Inoltre, la capacità
di riferire memorie autobiografiche episodiche sembra ridotta in coloro che hanno avuto storie traumatiche, la cui
narrazione è invece ricca di generalizzazioni semantiche (si parla in generale, senza entrare nel merito dei
contenuti emotivi e vivi di ciò che succedeva), piatta, devitalizzata a causa della componente alessitimica (es: la
relazione con mia madre è sempre stata fantastica, mia madre era con me dolcissima, non so dirle di una volta
in cui è stata dolce con me, lo è stata sempre).
Anche guardare alle strategie controllanti è importante: essere molto oppositivi verso l'atteggiamento benevolo
del terapeuta, dichiarare di non essere in grado di dire no e di essere troppo buoni con tutti, la promiscuità
sessuale, la tendenza all'isolamento sociale sono tutti indicatori probabilistici di modi che il pz può avere di
proteggersi dalla disorganizzazione.
La gestione della rabbia, quale espressione della regolazione emotiva, è anche molto correlata a fenomeni
dissociativi: quando emerge il MOI organizzato alle emozioni veementi e dolorose spesso si associano
compartimentazione e disorientamento.
A livello di ciò che in psicoanalisi si dice controtransfert vi sono principalmente paura, confusione e noia nel
terapeuta, tutti indicatori che, se non sono usuali, è possibile l'alterazione dello stato di coscienza proprio per lo
sforzo che il terapeuta fa di sintonizzarsi con il pz nel medesimo, spesso cronico stato.
Cap. 7
Relazione terapeutica e piano generale di trattamento
Difficile, in quadri così complessi, è instaurarsi di quel clima di fiducia e collaborazione chiamato alleanza
terapeutica: a maggior ragione, in pazienti gravemente deprivati e sofferenti, è importante far sì che si crei, di
modo che possano essere esposti ad un'esperienza emozionale e relazionale correttiva rispetto alle credenze
patogene e ai vissuti emotivi disorganizzati legati alle relazioni infantili traumatiche.
Linee guida per il trattamento: il denominatore comune di tutte le psicoterapia si articola in tre fasi, ciascuna
propedeutica alla successiva.
• Sicurezza e stabilizzazione dei sintomi
• integrazione delle memorie traumatiche e delle parti di sè dissociate
• stabilizzazione e crescita delle abilità acquisite
Prima fase: ottenere condizioni di sicurezza per il paziente, sia a livello di relazione con il terapeuta (costruendo
una buona alleanza), sia all'esterno della psicoterapia, stabilizzando i sintomi più invalidanti (dissociazione,
comportamenti a rischio e atti impulsivi, emozioni sregolate di collera, ansia e tristezza, ripetizione di relazioni
abusanti).
Seconda fase: ricostruzione e integrazione delle memorie traumatiche e delle parti di sè comporta alleanza
terapeutica, senza il pz potrebbe rivivere in modo inutile e controproducente il dolore del trauma (effetto
iatrogeno della terapia)
Terza fase: aiuto a compiere nuove esperienze che gli consentano la sperimentazione di nuove realtà
relazionali e di autonomizzarsi nel perseguimento degli scopi esistenziali
No processo lineare, andamento a spirale: necessario ripercorrere più volte le fasi, rinnovarne la portata, un po'
si va avanti un po' indietro
Relazione terapeutica: bisogna avere ben presente quanto sia lungo ottenere i risultati necessari al pz
(esperienza relazionale correttiva, regolare gli affetti, ecc): il principale ostacolo è la fretta del terapeuta,
accompagnato dalla difficoltà a instaurare il clima di fiducia necessario per gli eventi di vita del pz, che lo
rendono diffidente e difficile da agganciare. Due fobie compresenti alimentano la dinamica: fobia degli stati
interni, per cui si evita la percezione di emozioni e desideri, in particolare quelli collegati col SMI
dell'attaccamento, coesistente a sua volta con la fobia opposta della perdita dell'attaccamento, per cui il
possibile allontanamento/perdita della figura d'attaccamento diviene intollerabile. Le strategie controllanti
servono a tenere a bada questo circuito.
Due strategie in appropriata alternanza sono allora proposte: 1. evitare quanto più possibile l'attivazione del
sistema dell'attaccamento, così da non favorire la disorganizzazione delle strategie controllanti del paziente.
Questo si può fare sostituendolo con il sistema della cooperazione paritetica (tipico dell'alleanza terapeutica),
accettando momentaneamente le strategie controllanti del pz per poi cercare attivamente e gradualmente una
collaborazione sempre più sana. Questo non è facile perchè, se il pz è motivato a star meglio, significa che
chiede aiuto, e chiedere aiuto comporta l'attivazione dell'attaccamento e a sua volta una risposta in termini di
accudimento da parte del terapeuta. Inoltre, l'asimmetria naturale del setting e la storia traumatica del soggetto
non facilitano la reciprocità e la fiducia. Il cambiamento è però possibile, non tramite prese di coscienza
intellettuali ma tramite il concreto sviluppo del rapporto.
2. a. curare la fobia dell'attaccamento, correggendo il MOI disorganizzato in direzione dell'attaccamento
sicuro. Questo basandosi in gran parte sulla prima strategia: il terapeuta, avendo innescato un rapporto
facendo attenzione a non stimolare la richiesta di attaccamento del soggetto, dovrà però dimostrarsi
pronto ad essere leggermente più confortevole nei momenti di serio bisogno del pz, per poi riportarsi
sempre sulla cooperazione. Questo per regolare la relazione e far capire che esiste qualcuno di cui ci si
può fidare. Intanto, deve anche esporre gradualmente il soggetto alla natura della fobia e della sua
origine, normalizzandone il contenuto, perchè la paura è normale, in contesti di sviluppo complessi e
dolorosi. In più, si desensibilizza il pz, guidandolo prudentemente ad apprezzare l'innocuità delle
emozioni di conforto, distinguendole dalla pericolosità effettiva che vi era stata nell'ambiente in qualche
modo violento e spaventante in cui è cresciuto.
b. curare la fobia dell'abbandono, non con costante disponibilità del terapeuta a richieste e provocazioni, ma
con prevedibilità della cura e della protezione (arriverà ogni volta che ci si incontrerà). Con questo tipo di pz,
cedere alla domanda d'amore infinito che pongono è molto dannoso, perchè non sarà realisticamente possibile
una costante disponibilità in un rapporto professionale, e ciò finirebbe per confermare il timore del pz di poter
essere davvero abbandonati
Offrire un'esperienza emozionale correttiva (Alexander) è un altro obiettivo: questo significa riesporre il pz in
circostanze più favorevoli a quello che fu nel passato. Queste circostanze più favorevoli sono difficili da creare
con emozioni forti quali paura senza sbocco e strategie controllanti in atto: si dice che il terapeuta è molto a
rischio di enactment. Questo significa che vi è un deficit nella mentalizzazione reciproca tra pz e ter delle
dinamiche inconsce che avvengono nella relazione, ad es: il ter cede con collera di fronte alle provocazioni
della strategia controllante punitiva del pz. Qua in qualche modo si rompe, si danneggia momentaneamente la
relazione terapeutica. Questo e molto altro non è impossibile, è molto umano: essenziale è che il terapeuta si
renda però conto