vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
R
Rydberg propose un’equazione che, data una costante empirica (ossia calcolata per
H
far quadrare i fenomeni osservati) e due numeri interi scelti in modo che il secondo sia
maggiore del primo, permetteva di calcolare la lunghezza d’onda emessa
1 1 1
=R ( − )
dall’idrogeno: . L’importante implicazione di queste scoperte è stata
H
λ 2 2
n n
che essendo le lunghezze d’onda e dunque i salti perfettamente quantificabili, le
orbite degli elettroni intorno al nucleo fossero di numero finito.
Ripetendo l’esperimento su gas rarefatti raffreddati (che assorbono le lunghezze
d’onda invece che emetterle), si nota che lo spettro ottenuto è esattamente il negativo
di quello dell’esperimento originale. Infatti, le lunghezze d’onda emesse dal gas
eccitato sono le stesse assorbite da quello freddo.
Un’importante applicazione di queste scoperte avvenne nel 1814 con Fraunhofer e
nel 1859 con Kirchof e Bunsen, quando si scoprirono i materiali di cui era fatto il
Sole attraverso il suo spettro: l’emissione era quasi continua, mancavano solo i colori
assorbiti dagli elementi più freddi dell’atmosfera.
summa
Una rilevante di questi contributori alla scoperta della natura dell’atomo venne
attuata da N. H. D. Bohr (1885-1962), il quale affermava che in condizioni normali gli
atomi non emettessero energia, in quanto gli elettroni si trovavano ognuno su di una
postulò
propria orbita stabile, l’orbita fondamentale (sulla quale che gli elettroni
possedessero il minimo d’energia possibile). Il secondo postulato di Bohr afferma che
l’elettrone può passare su orbite esterne a quella fondamentale quando riceve precise
quantità d’energia (i quanti). Queste quantità non sono sommabili (se l’elettrone di un
certo atomo per fare un salto necessita di un quanto pari a 8 J, non gli si possono
inviare due “pacchetti” da 4 J, ma uno o più “pacchetti” di 8 J).
Bohr propose un modello quantitativo in cui l’energia necessaria ai salti degli elettroni
corrispondeva perfettamente a quella emessa negli esperimenti con i gas
monoatomici (almeno dal 2° livello, in quanto i salti dal 1° sono a noi invisibili). Per
calcolare l’energia dell’elettrone, nell’equazione di Bohr compariva il numero
quantico, ossia il numero dell’orbita – esso apparteneva a N ed era maggiore o
uguale a 1, ma in realtà anche minore o uguale a 7 poiché oltre alla settima orbita
l’elettrone sfugge all’attrazione del nucleo, mandando l’atomo incontro a
ionizzazione (ossia, in questo caso, la formazione di un catione). Allo stesso modo, se
l’elettrone andasse al di sotto del primo livello collasserebbe nel nucleo.
L'energia aumenta discontinuamente all'aumentare del raggio, ma sotto il primo livello aumenta esponenzialmente per il collasso
4 3.4
3.5 2.9
3 2.6 2.5
2.5
2 1.5
e
n
o
ttr 1.5
le 1
e
ia
g 1
r
e
n 0.50.55
E 0.5
0 0 1 2 3 4 5 6
Raggio
Questa è la formula teorizzata da Bohr:
−b
E= n b
dove è numero quantico e costante di Bohr (pari a
2
n 4
2 πme −18
=2,18∗10 J m e h
, con massa elettronica, carica elettronica e costante di
2
h
Planck).
Questo modello va tuttavia incontro ad una limitazione: funziona esclusivamente con
+
l’idrogeno e ioni che, come H, possiedono un solo elettrone (come He ).
A. J. W. Sommerfeld (1868-1951) si avvicinò parzialmente alla ragione, proponendo
che non bastasse un solo numero quantico per descrivere l’energia degli elettroni: se
le orbite fossero state ellittiche invece che circolari, infatti, a seconda delle 3
orientazioni possibili (sugli assi X, Y o Z) le orbite sarebbero cambiate. Questo sembrò
essere confermato dai dati sperimentali, in cui gli atomi posti in un campo magnetico
emettevano delle frequenze che nello spettro si scindevano in 3. Il modello con orbite
ellittiche viene chiamato modello di Bohr-Sommerfeld.
L. V. P. R. de Broglie (1892-1987) propose una spiegazione differente: egli pose
2
un’analogia fra materia ed energia (come poi fece Einstein in E=mc ). Anche le
particelle per lui avevano natura ondulatoria, espressa dalla seguente equazione:
λ=h/m ν . Da questo si nota che massa e lunghezza d’onda sono inversamente
proporzionali: per questo a livello macroscopico le caratteristiche ondulatorie della
materia non sono evidenti.
Gli elettroni sono però abbastanza piccoli da comportarsi come onde. Dunque non ha
senso parlare di orbite: gli elettroni si muovono su onde stazionarie attorno al nucleo
dell’atomo. Queste onde, tornando al punto di partenza, causano interferenze che a
loro volta portano a delle perturbazioni. Se si incontrano due massimi l’interferenza è
costruttiva; se si incontrano due minimi è distruttiva; se si incontrano massimo con
minimo è totalmente stabilizzatrice; nei punti intermedi, sarà più o meno
stabilizzatrice.
Così la massa e la carica dell’elettrone sono distribuite attorno al nucleo lungo
un’onda. Se l’orbita è troppo piccola, l’elettrone la chiude fuori fase e si genera
un’interferenza distruttiva. Per questo l’orbita fondamentale è la più vicina possibile
(quelle più piccole non sono stabili, ma distruttive) – le interferenze con cui si chiude
l’elettrone sono stabilizzatrici.
Erwin Schrödinger (1887-1961) utilizzò l’equazione di de Broglie per ricavare
un’equazione applicabile all’elettrone che ne spiegasse lo stato quantico. La soluzione
che trovò fu la cosiddetta funzione d’onda, che risultava valida solamente con delle
2
precise costanti, ossia i numeri quantici. Una delle variabili inoltre è ψ , che
rappresenta la probabilità di trovare l’elettrone in un dato spazio.
Sono due quindi i cambiamenti segnati dalla funzione d’onda:
Non si parla più di orbite, bensì di spazi (più precisamente volumi sferici)
La funzione non serve a trovare la posizione dell’elettrone, bensì a trovare la
probabilità di trovare l’elettrone
Questo perché l’elettrone in quanto onda è diffuso ovunque intorno al nucleo, ma in
quanto particella si trova in un punto preciso.
Quest’interpretazione fu osteggiata dallo stesso Einstein tramite numerosi esperimenti
mentali, anche se venne poi difesa da David Bohm (1917-1992). La relatività (che
spiega l’immensamente grande) e la meccanica quantistica (che spiega
l’immensamente piccolo) sono tutt’oggi due campi inconciliabili, nonostante i tentativi
2
di Richard Feynman (1918-1988) – che aveva provato ad unirle, ma risultava che ϕ
valesse +∞ (mentre, rappresentando una probabilità il suo valore dovrebbe variare da
0 a 1).
Bohr aveva affermato che alcune proprietà delle particelle fossero fra loro legate dal
principio di complementarità (ossia che fossero inversamente proporzionali: ad
esempio più è grande la massa di un atomo minore è la sua durata e viceversa).
Sulla base di ciò, nel 1929 W. K. Heisenberg (1901-1976) scoprì che la precisione per
determinare la posizione di un elettrone e la precisione per determinarne la quantità di
moto (e dunque la velocità, visto che la massa di un elettrone rimane costante) sono
h
inversamente proporzionali rispetto alla costante , in cui h è la costante di Planck
2
normalizzata (ovvero divisa per 2π).
Tutto questo si esprime con il principio d’indeterminazione: il prodotto delle
incertezze sulla posizione e sulla quantità di moto dev’essere sempre maggiore o
h
uguale a .
2 h
∆ x∙∆ p≥ 2
Il significato di questo principio è che sapendo esattamente dov’è un elettrone, non si
può affermare quasi nulla della sua quantità di moto e viceversa. Naturalmente vi è
anche una conferma sperimentale: per misurare la velocità di un elettrone con il
massimo della precisione bisogna utilizzare un fotone che abbia il minimo d’energia
(quindi con frequenza molto bassa, per non causare perturbazioni); così facendo però
si riduce al minimo la precisione spaziale – e viceversa.
L’interpretazione di Copenaghen (corrente maggioritaria della meccanica
quantistica) stabilì che questa indeterminazione fosse intrinseca alla materia e non
dovuta alle nostre capacità: lo stato assoluto, se non c’è un osservatore, non esiste.
Per questo motivo le orbite sono incalcolabili, non esistono .
Due anni prima, Schrödinger aveva già fornito la risposta: la soluzione era trovare la
probabilità di trovare l’elettrone nello spazio. In questo modo si rinuncia ad una
precisione assoluta, ma si è comunque più precisi della meccanica newtoniana che
non può calcolare le orbite per via del principio d’indeterminazione.
Per comprendere meglio, analizziamo un esperimento mentale proposto dallo stesso
Schrödinger, quello del gatto. Poniamo che un gatto si trovi in una scatola chiusa, al
cui interno c’è anche del veleno sufficiente ad ucciderlo. Il veleno viene rilasciato
solamente quando un elemento radioattivo, presente nella scatola, decade. Senza
aprire la scatola, possiamo dire se il gatto è vivo o morto? No.
Le particelle non si trovano in posizioni precise finché non c’è un osservatore, ma si
trovano in ogni posizione (in percentuali pari alla loro probabilità). Ad esempio,
ipotizzando di poter lanciare una particella verso un bersaglio, senza alcun osservatore
essa per una buona parte si troverà sul bersaglio (dato che è alta la percentuale che ci
vada), ma contemporaneamente si troverà in varie altre posizioni (dato che ci sono
delle basse, ma non nulle, probabilità che vada da altre parti).
Tornando al gatto, finché non apriamo la scatola l’atomo radioattivo è sia decaduto
che non, quindi il veleno è sia fuoriuscito che non e il gatto è sia vivo che morto (che è
un’affermazione ulteriore rispetto al non poter dire se sia vivo o morto).
Dagli studi di Schrödinger e Heisenberg deriva il concetto di orbitale, del tutto diverso
da quello di orbita. Un orbitale è, infatti, la rappresentazione grafica della funzione
d’onda per cui il dato elettrone risolve l’equazione d’onda di Schrödinger. È quindi una
rappresentazione grafica e non un ente reale, come si pensava essere l’orbita.
n
Date posizioni dell’elettro