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La macchina da presa è capace di restituirci il mondo, ma non perché semplicemente ne fissa le
appartenenze, bensì perché ne coglie il meccanismo; essa esplora il mondo nel suo apparente caos,
ne identifica i nessi essenziali e ne ricostruisce il funzionamento. Il lavoro estetico serve anche a
mettere a nudo il funzionamento delle cose. Vertov definisce il suo film un esperimento; nell’idea di
esperimento convergono qui due aspetti: la sperimentazione estetica, volta all’arricchimento del
linguaggio filmico, e la ricerca scientifica, volta appunto ad analizzare il mondo e a coglierne le
leggi. Da un lato l’idea di diario di un operatore-poeta alla ricerca dell’ispirazione; dall’altra, il
protocollo di osservazione di un operatore-scienziato.
Riconoscere: legittimazione, accoglienza e smarrimento
Riconoscere è riportare ciò che si vede a qualcosa che si è incontrato in precedenza e, allo stesso
tempo, è ammettere la legittimità di qualcosa che si sta incontrando; è dunque sia
un'identificazione che un accoglimento.
Il cinema trasforma ciò che incontra, dandogli una diversa consistenza; ciò che era corpo concreto,
diventa “forma di luce”. Noi possiamo riconoscere questa realtà e, allo stesso tempo, coniugare il
nostro riconoscimento con la scoperta e l'accoglimento.
Tuttavia, la realtà quando arriva allo sguardo può anche lasciarci interdetti. Talvolta essa si
presenta in una veste talmente inaspettata da risultare difficilmente riconoscibile. E' il fenomeno
dello spaesamento, che interviene quando la testimonianza del cinema si fa troppo diretta e cruda,
e quando cioè paradossalmente manca della sua giusta parte di reinterpretazione; toppa oggettività
fa male.
La fusione soggetto-oggetto e il suo confine
Una semisoggettiva è un'inquadratura unica che ingloba nello stesso campo visivo sia l'oggetto
visto sia il soggetto vedente. Ciò che dunque emerge è la stretta fusione tra un osservatore e il
contesto in cui opera. Si parla quindi di un'esperienza scopica, cioè di un'esperienza dominata
appunto dalla reversibilità di soggetto e oggetto.
Se chi segue il film partecipa alle avventure che hanno luogo sullo schermo, è perché si mette nei
panni dell'eroe e con questo si trova a vivere in prima persona ciò che il personaggio vive. Quando
le luci si riaccendono, lo spettatore interrompe il suo rapporto con lo spettacolo; quando poi
comincia il deflusso dalla sala, egli interrompe anche il suo rapporto con il pubblico. In questo
gioco, l'apparato cinematografico svolge un ruolo non secondario: è appunto esso che, mentre crea
le condizioni per una unità fusiva tra soggetto e oggetto e tra soggetto e ambiente, crea
contemporaneamente anche le condizioni perché questa fusione non si realizzi fino in fondo. Ecco,
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il cinema è questo: l'occasione di con-fondersi con lo spettacolo e l'ambiente, mantenendo però una
qualche forma di distanza. Il confine è utile, anzi, è necessario. Ma il sogno di una sua completa
abolizione rimane e perseguita il cinema da sempre. E' il caso del film di Woody Allen “La rosa
purpurea del Cairo” e quello di Buster Keaton “La palla n°13”, film che mettono in scena il
dissolversi di ogni soglia cinematografica. Appunto, perché l'immersione sia non meno che totale.
Costi quel che costi. Dolcezza del naufragio.
La simulazione incarnata
Le neuroscienze ci hanno permesso di comprendere come il confine tra ciò che chiamiamo reale e il
mondo immaginario e immaginato sia molto meno netto di quanto si potrebbe pensare. Vedere e
immaginare di vedere condividono l'attivazione di circuiti cerebrali in parte comuni. La possibilità
di concepire mondi immaginari e talvolta inesistenti è stata a lungo e da molti considerata una
prerogativa esclusiva della nostra specie. Ma siamo sicuri che le cose stiano proprio così?
Per Aristotele, così come per Freud, sono la ricerca del piacere e l'allontanamento del dolore che ci
spingono ad agire: desideriamo raggiungere ciò che è piacevole ed evitare ciò che ci ferisce. Spesso
gli animali devono cercare ciò che desiderano; la ricerca di qualcosa che non è presente implica una
rappresentazione di qualcosa.
Dal punto di vista cognitivo, vedere un film e immergersi nella storia che ci narra significa
sospendere temporaneamente l'incredulità e fare finta che ciò che guardiamo non sia falso. Quando
guardiamo un film non concentriamo soltanto la nostra attenzione su di esso, ma la nostra
immobilità ci rende capaci di dispiegare interamente le nostre risorse di simulazione incarnata e di
metterle al servizio di una relazione immersiva con i personaggi della storia. Quelle ombre sullo
schermo compiono gli stessi gesti, provano gli stessi sentimenti e le stesse emozioni che proviamo
noi; il cinema è il luogo dove ci lasciamo emozionare da ombre su uno schermo, è la memoria e il
racconto che tratteniamo di quelle ombre e che se ne discosta quanto più si deposita nel nostro
vissuto.
La simulazione motoria
L'azione dei neuroni specchio può favorire grandemente alcuni generi di film. Nel caso di
“Notorious”, Alfred Hitchcock struttura l'intero film per creare il massimo della tensione possibile.
La trama è di per sé poco significante; ciò che importa è che ogni inquadratura si faccia carico di
una suspense quasi insostenibile. Nella scena in cui Alicia deve sottrarre le chiavi al marito, noi
sappiamo che egli è presente grazie alla sua ombra proveniente dal bagno: viene inquadrata Alicia
che guarda le chiavi e, subito dopo, vi è un lungo zoom verso l'oggetto del suo desiderio. La
simulazione motoria ci ha a tal punto trascinati nel vivo che quando Hitchcock ci mette di fronte
all'irrealtà di quel movimento siamo frustrati: Alicia non si è affatto avvicinata alle chiavi, è ancora
ferma sulla soglia, lo scarico di tensione che si era consumato al momento del dettaglio sul mazzo
di chiavi viene annullato, e la suspense rilanciata con potenza ancora maggiore. Chi si è “mosso” è
lo spettatore, non il personaggio e Hitchcock sottolinea una volta di più l'impotenza
dell'osservatore rispetto alle possibilità agentive dei personaggi.
Nel film “Una donna nel lago” Robert Montgomery radicalizza questa idea fallendo nel tentativo di
acuire la proiezione e l'identificazione dello spettatore nel personaggio. Il film è interamente
ripreso in soggettiva; il personaggio si intravede solo in rare occasioni in cui passa davanti a uno
specchio, mentre nel resto del tempo noi adottiamo il suo punto di vista, come se fossimo il suo
sguardo. Il salto è troppo forte: il regista non è più in grado di garantire al suo spettatore quel
livello di “compiacenza” che sta nel guardare il personaggio, né di istituire il transfert. Un
esperimento come questo ci dimostra come lo spettatore non abbia modo di identificarsi
primariamente con lo sguardo del personaggio, ma abbia più spesso bisogno di vederlo in terza
persona.
Delmer Daves, negli stessi anni, riuscirà invece meglio nell'intento con “La fuga (Dark Passage)”:
un evaso dal carcere deve rifarsi una vita, e ha dunque bisogno di un intervento chirurgico che gli
impianti un nuovo volto. Tutte le fasi della fuga avvengono attraverso la soggettiva dell'evaso, di cui
ci liberiamo soltanto a operazione avvenuta; questo risultò, nella sua durata più limitata, efficace.
E' bene introdurre inoltre un altro tipo di inquadratura: la falsa soggettiva. Robert Siodmak nel
film “La scala a chiocciola” ci mette al corrente del fatto che la ragazza muta che viene inquadrata
in una scena, dovrà morire. La ripresa successiva avviene dall'alto della scala a chiocciola, e
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inquadra la ragazza come se noi - la cinepresa - fossimo l'assassino che la osserva. Questo fatto
sembra essere confermato quando la ragazza, voltandosi verso di noi, fa sì che la cinepresa “si
accucci” dietro alla balaustra, come se volesse nascondersi. Ma ecco il colpo di scena: subito dopo,
la ripresa si sposta verso sinistra dove viene inquadrato il vero assassino. Nel caso di Siodmak lo
spettatore vive dapprima l'ansia di condividere il punto di vista dell'omicida e poi il terrore di
ritrovarsi lui stesso molto vicino all'assassino in persona.
Questo tipo di simulazione motoria contribuisce quindi grandemente al nostro grado di
immedesimazione con quanto accade sullo schermo.
Dispositivi e schermi
Il dispositivo per Walter Benjamin
La domanda che permea la ricerca sulla percezione è se le impressioni visive dell'uomo siano o
meno determinate dalla storia. Questo quesito se l'era già posto Walter Benjamin, convinto che non
si potesse parlare di esperienza in termini sovrastorici.
“ Nel giro di lunghi periodi storici, insieme coi modi complessivi di esistenza delle collettività umane, si
modificano anche i modi e i generi della loro percezione. Il modo secondo cui si organizza la percezione ”
umana - il medium in cui essa ha luogo -, non è condizionato soltanto in senso naturale, ma anche storico.
Il medium per Benjamin è sia l'insieme di quelle condizioni naturali della visione e della percezione
sensibile, sia il plesso di tutte quelle condizioni tecniche, artificiali, capaci di configurare la
percezione in modi diversi: condizioni storicamente variabili, che con il loro evolversi determinano
delle trasformazioni nella percezione stessa, nel modo in cui si organizza e ha luogo.
Più nello specifico, Benjamin distingue tre termini:
Medium. Di esso fanno parte le forme espressive della lingua (che si rifiuta di considerare
come mero mezzo finalizzato alla comunicazione di significati già pronti, poiché tutte le
cose sorgono nel momento in cui vengono nominate) e della pittura. Più in generale, viene
convocato per denominare quell'insieme di condizioni tecniche, produttive, sociali, che nel
loro evolversi storico determinano inevitabilmente delle trasformazioni profonde
nell'esperienza sensibile degli individui e delle collettività.
Apparat e apparateur. Sono termini scelti da Benjamin per parlare specificamente dei
media tecnici della modernità, sottolineandone l'aspetto artificiale.
Nell'ambito dei medium, Benjamin attribuisce un potere rivelatore ai nuovi media ottici per la loro
capacità di portare alla luce delle regioni prima inesplorate, che chiamerà “inconscio ottico”. Egli
attribuisce alla fotografia la capacità di ampliare il campo visivo e di sviluppare una visione senza
preg