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I DUE APPROCCI ALLA FILOSOFIA POLITICA
1. La tradizione realista in politica.
Si chiamano realisti quei pensatori che sostengono che il dominio della politica
costituisca una sfera sociale a sé o anche dominante le altre sfere, comunque tale che essa non sia
giudicabile, né misurabile, né asservibile a criteri, principi e fini estranei alla politica stessa.
Secondo i realisti insomma nessuna considerazione che non sia politica, ma per esempio etica,
teologica e di altro genere è appropriata a valutare o misurare o a orientare le azioni, i risultati e
gli stati di cose della politica.
La sfera politica si pone come autonoma nei confronti delle regole della morale, della religione
e di altre considerazioni non politiche. Esistono dei principi d'azione specifici della politica: la
prudenza; dei mezzi suoi propri: la forza; dei fini intrinseci: la potenza; e dei criteri
appropriati di giudizio politico: l'efficacia.
I realisti della politica fanno il loro ingresso nel pensiero Occidentale con Trasimaco, che nella
Repubblica di Platone afferma che la giustizia consiste nel vantaggio del più forte. Vediamo di
elaborare questa affermazione: giustizia è il predicato attribuito alla volontà di chi ha la forza di
imporla agli altri. Questo significa che in una collettività umana, ci sono alcuni, i forti, che si
impongono agli altri, i deboli; la genesi della politica sembra naturale: i naturalmente forti si
impongono ai naturalmente deboli che sono i più. I comandi dei primi sono definiti giustizia,
nomos, legge.
Questo scenario comporta una duplice interpretazione:
1.da una parte Trasimaco dice che ciò che il senso comune chiama giustizia è in realtà solo
potenza; in questo senso i discorsi sulla giustizia sono solo mistificazioni e ideologia. Tutti
coloro che predicano il bene comune e la giustizia contribuiscono a oscurare la realtà del potere
politico che è semplicemente forza che si impone e a cui viene dato il nome giustizia per
acquisire onorabilità. Uno degli obiettivi ricorrenti dei realisti è stato quello di disvelare,
smascherare la vera natura, il vero volto del potere togliendogli la maschera ideologica. In questo
senso i realisti si pongono un compito critico-conoscitivo, contro la pretesa di chi esercita il
potere politico di incarnare la giustizia.
2.dall'altra, le parole di Trasimaco indicano la dimensione autonoma e autosufficiente della
politica. Trasimaco dice: è giusto ciò che i governanti sostengono essere giusto e dunque la
giustizia consiste nell'obbedienza alla volontà dei governanti, che perseguono l'utile loro che
coincide con quello dello stato, perché oltre non c'è niente. (Repubblica, I, IX-XIX). Il fatto è che
al di là della volontà dei forti che si impone agli altri, e diventa legge, non esiste un criterio
indipendente, precedente alla volontà dei forti che si impone per poter dire: il comando, la legge
del più forte è ingiusta. Prima della legge del più forte non c'è legge, non c'è giustizia, non ci
sono regole. In questo senso definire giustizia il vantaggio del più forte, la volontà che si impone
agli altri non è solo un trucco manipolatorio, ma l'affermazione di un dato di fatto: la legge e la
giustizia non esistono prima che la volontà che riesce a imporsi sugli altri le stabilisca. Prima
della politica, prima della divisione nella società fra chi comanda e chi obbedisce, non c'è ordine
(cosmos), non c'è legge (logos), ma sopraffazioni contingenti. Quando i più forti, o il più forte,
riesce a imporre la sua volontà, quella definisce la legge e la giustizia. La giustizia non è un
criterio etico per valutare se i governanti lavorano bene o male, è invece il criterio d'esistenza
stessa di un ordine politico, che è ordine perché si basa su una legge ed è politico perché questa
legge si appoggia alla forza di chi l'ha promulgata.
Qui voi trovate la duplice faccia del realismo: da una parte il realismo descrive la sfera politica
come autonoma, capace di generare autonomamente legge, giustizia e ordine da sé, ossia dalla
volontà che si afferma su un territorio, e che va analizzata nei termini della sua capacità di tenere
insieme la società e di imporre il proprio ordine. Dall'altra il realismo smaschera i discorsi sulla
giustizia politica come discorsi puramente ideologici usati da chi comanda per sostenere la
propria legittimità. L'attrattiva del realismo anche nella filosofia contemporanea è proprio legata
a questo sguardo critico e spassionato che toglie la maschera alle bugie del potere. Purtroppo
però affermando l'autonomia della politica rispetto a giustizia e morale, questa critica rimane
inattiva. Perché da una parte, il potere politico sembra una necessità naturale al di fuori della
quale la sopraffazione e il conflitto sarebbe peggiore, dall'altra se giustizia e legge sono solo la
volontà del più forte, non abbiamo criteri razionali o morali di riforma o cambiamento che non
sia interno al mondo del potere stesso.
Tuttavia nel mondo antico il realismo di Trasimaco rimane una voce isolata, mentre il pensiero
politico di Platone, di Aristotele, stoico avrà come obiettivo la realizzazione del bene, della virtù,
della saggezza. Analogamente nel Medioevo, il pensiero politico prende corpo all'interno della
teologia cristiana e dell'eredità classica soprattutto aristotelica, sicché i Sofisti non trovarono
seguaci significativi.
Il realismo politico trova invece un'affermazione piena e originale con Il Principe di
Machiavelli, che a partire da un'antropologia negativa, pone il problema della politica come
quello degli strumenti atti a costruire e mantenere lo stato, cioè una società internamente
pacificata. Il punto di Machiavelli è che se non c'è una volontà che si impone su un territorio,
dettando legge, c'è il conflitto e la sopraffazione continua. La politica dunque è un'arte per
l'acquisizione e la conservazione degli stati; arte in mano al principe, che è una persona dotata di
prudenza, furbizia e fortuna che persegue la potenza in maniera efficace. Va osservato che l’
opera di Machiavelli è rivolta al problema dello stato, al suo mantenimento, come fattore di
prosperità di un territorio. La pacificazione è la condizione perché la gente, che obbedisce al
Principe, si possa occupare dei commerci, della produzione, della prosperità, delle arti che invece
languiscono nelle lotte civili.
Nel contesto del Cinquecento italiano, problema politico prioritario era quello delle lotte
civili e dello smembramento dell'Italia in lotte intestine sostenute dal Papato o della varie
monarchie europee al fine di spartirsi una regione ricca e progredita. In questa situazione
sembrava a Machiavelli che l'unica possibilità di creare uno stato forte, unito e pacificato
internamente fosse affidarsi a una persona capace politicamente, a un Principe che per ambizione
personale, con astuzia, prudenza, riuscisse a mettere insieme la forza necessaria e ad usarla in
modo efficace. Il fine pertanto è creare lo stato, tenerlo unito e pacifico; l'ambizione del principe
è solo la motivazione adeguata a mettere in moto questo meccanismo che avrà successo se
prudenza e forza verranno usate adeguatamente (la golpe e il lione).
Dopo Machiavelli, la concezione realistica della politica trova sostenitori nei teorici della Ragion
di stato: precettisti italiani e francesi fra '500 e '600.(Cf. Giovanni Botero, La Ragion di stato
(1589). Il fine della politica, secondo questa dottrina, consiste nel realizzare l’ interesse dello
stato, identificato come conservazione dell’unità territoriale e prosperità interna. Viene affermata
così l'esigenza del monopolio della forza nelle mani dell'autorità politica (e questa è un'esigenza
tipica della costituzione dello stato moderno, sostenuta anche da altri pensatori non riconducibili
alla ragion di stato come Jean Bodin, la cui teoria della sovranità viene a volte confusa con la
dottrina della ragion di stato, e Thomas Hobbes) contro la possibilità di lotte intestine dovute
alla presenza di potenti feudatari armati. Da questa esigenza viene derivata la tesi della condotta
politica come svincolata dalle regole religiose o morali. La condotta politica non va giudicata in
base al metro della morale, che regola tutte le altre azioni, bensì a quello della ragion di stato,
appunto, della sua efficacia nel realizzare il benessere dello stato. Il che non significa che il
politico deve trasgredire le regole morali come sua norma, ma che lo stato di necessità giustifica
una loro trasgressione (“Parigi val bene una messa!”).
Nel XIX secolo la dottrina della ragion di stato viene rivisitata e riproposta da alcuni teorici
tedeschi, in un contesto mutato (non più la formazione dello stato moderno, ma il montante
nazionalismo e imperialismo) e in forma diversa. La dottrina è nota con il nome di Stato-
potenza. I suoi teorici sono Treischke, Hinze e Meinecke. L'imperativo ipotetico dei trattatisti
del XVI e XVII secolo "Se vuoi mantenere lo stato, agisci secondo prudenza per la potenza",
viene qui trasformato nell'imperativo categorico: "agisci per la potenza".
Se nel caso della dottrina originaria, le norme morali potevano essere trasgredite in
situazioni di emergenza per il bene dello stato, la dottrina dello stato potenza sostiene invece che
l'agire politico non sia mai vincolato al rispetto di norme etiche. Nel primo caso, la dottrina della
ragion di stato si presenta come una giustificazione della priorità degli obiettivi politici e dei
mezzi adeguati a soddisfarli (forza e inganno) su criteri morali, in determinate circostanze. Nel
secondo caso, l'azione dello stato è comunque posta al di fuori da regole etiche e pertanto non si
danno casi di conflitto.
Infine sono di regola ascritti alla corrente realistica studiosi di scienza sociale e politica come
Max Weber, Carl Schmitt e i teorici delle élites, Pareto, Mosca, Michaels. Questi pensatori, tra
loro assai diversi hanno in comune il maestro, Max Weber, e la distinzione neo-kantiana fra fatti
e valori.
Secondo questa divisione, mentre i fatti sono oggetto di conoscenza rigorosa, oggettiva,
perché empiricamente testabili, i valori sono demandati alla scelta soggettiva e sottratti all'ambito
dell'analisi teorico-scientifica. Se gli studi sociali e politici aspirano ad essere scienze e non solo
ideologie, devono pertanto concentrarsi sui fatti e mettere fra parentesi i valori, i principi etici e
le norme morali.
Questa separazione netta