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Riso e pianto costituiscono le manifestazioni più visibili dell’umore, le reazioni più vistose al piacere
e al dolore ma, in realtà, non si tratta di fenomeni così trasparenti, come sembra. Il fenomeno
dell’espressività corporea non si può considerare una semplice combinazione di reazioni
fisiologiche e contrazioni muscolari.
Heidegger osserva: “Le lacrime sono qualcosa di somatico o di psichico? Né l’una, né l’altra”.
La sostanza materiale di cui è composta una lacrima può essere oggetto di un’analisi quantitativa,
ma ciò che intendiamo per “pianto” è inseparabile dalla considerazione di un soggetto che prova
un’emozione. Il cosiddetto linguaggio del corpo è un fenomeno che, pur accessibile al metodo
delle scienze sperimentali, richiede un ulteriore livello di analisi per essere pienamente compreso,
pena il rischio di riduzionismo.
Siamo, ormai, lontani da Darwin, il quale sostiene che le espressioni delle emozioni umane
sarebbero il prodotto di un processo evolutivo da forme animali inferiori. Nella sua prospettiva,
molte espressioni che manifestano paura, rabbia o stupore sarebbero invariate non sono in uomini
di diverse culture ma anche in altri animali.
Molte teorie attuali riguardati il rapporto mente-corpo, sulla scia dei progressi delle neuroscienze,
indentificano totalmente gli stati mentali con i processi cerebrali e tendono a dare alle emozioni
una spiegazione naturalistica.
È importante tenere conto che ogni prospettiva che pretende di mantenersi unilaterale nello studio
dell’uomo non solo lo impoverisce, ma rende meno comprensibile la sua complessità.
Il filosofo Ortega y Gasset utilizza l’efficace paragone della carica elettrica di un oggetto, che
non è evidente ma appare solo nei suoi effetti, in modo che il corpo non può essere ridotto a un
semplice organismo fisico, ma è un geroglifico, espressione di una realtà nascosta che va
decifrata e che costituisce l’intimità di una persona.
1. Il linguaggio del corpo oltre la sociologia delle comunicazioni
La sociologia delle emozioni ha valorizzato l’espressività corporea (“Non si può non comunicare”),
mettendo in risalto la valenza comunicativa di tutto ciò che non passa attraverso il paradigma
verbale, ma tramite il corpo e il silenzio. L’analisi del linguaggio spontaneo del corpo (mimica) e di
quello intenzionale (gestualità) aiuta a comprendere come la sola presenza di un corpo umano sia
di per sé indicativa. Nel caso della mimica, il corpo sfugge al controllo dell’io per esprimere di noi
più di quanto vorremmo: è il corpo che parla malgrado noi. Nel caso della gestualità, la persona
parla affidando al corpo, quale ambasciatore verso gli altri, messaggi riconoscibili anche in quanto
propri della cultura in cui si è inseriti.
Mentre l’antropologia naturalista riconduce le emozioni e la loro espressione alla fisiologia,
quella culturalista o costruzionista ne fa un sistema originato dalla cultura e dalla necessità di
collocarsi in un certo punto dello spazio sociale.
10 2. Riso e pianto secondo Plessner
Ai fenomeni del riso e del pianto Plessner ha dedicato un famoso saggio del 1941. Secondo il
filosofo, gli esseri viventi si differenziano dai non viventi perché mentre l’inorganico semplicemente
c’è, il vivente si pone, prende posizione. L’animale è centrico, perché si trova in uno stretto
rapporto di reciprocità con l’ambiente. L’essere umano, come totalità unitaria di corpo, psiche e
spirito, si caratterizza per la sua posizione eccentrica: è capace di porsi di fronte all’ambiente,
abitandolo e trasformandolo, ma è anche consapevole della distanza tra sé e l’ambiente, e del
rapporto col proprio corpo. Plessner parla di immediatezza mediata, in cui l’uomo fa parte della
natura, ma è anche capace di una mediazione razionale che lo induce a riflettere su quella natura
e a fronteggiarla, anche modificandola. Rispetto all’animale, totalmente identificato col proprio
corpo, l’uomo è inferiore quanto a controllo del proprio corpo, ma superiore a capacità di
arrischiarsi in imprese che superano le sue doti motorie. “Per quanto esuberanti, gli asini non si
avventurano sul ghiaccio”, mentre l’uomo si azzarda a pattinare. Il comportamento umano,
dunque, non è costituito solo da azioni direttamente finalizzate alla sopravvivenza, come ad
esempio la mimica e la modulazione vocale ai fini del canto.
La natura eccentrica dell’uomo è la chiave interpretativa dell’analisi di Plessner: definiamo
trasparenti mimica e gestualità per il loro carattere spontaneo, mentre riso, pianto e rossore, per
il loro carattere eruttivo, appaiono all’esterno come risposte inadeguate, come se l’uomo perdesse
il controllo di sé, incaricando il proprio corpo di dare una risposta per sé. Cosa ne è allora
dell’immediatezza mediata se l’uomo può cadere a tal punto in balìa del proprio corpo? È
proprio questa disorganizzazione che prova ancora una volta l’umanità dell’uomo, è proprio la
perdita del controllo espressivo che riconferma l’idea dell’immediatezza mediata. Quando si
presentano delle situazioni limite, in cui è impossibile dare una risposta razionale adeguata
tramite i gesti o il linguaggio, ecco che questo disorientamento provoca riso o pianto. Il fatto che
l’uomo perda il controllo di sé e si lasci andare in una sorta di automatismo fisico, attesta la
situazione di un essere razionale che non riesce a intravedere alcuna risposta razionale possibile.
L’analisi di Plessner ha avuto il grande merito di aver inquadrato in una dimensione integrale la
questione del rapporto tra esistenza spirituale, vissuto psichico ed espressione corporea.
3. Quando le lacrime diventano simbolo
Le lacrime sono silenziosamente eloquenti: hanno il potere di segnalare uno stato d’animo di
commozione profonda, gioia e dolore, che reclamano dall’osservatore una presa di posizione.
Anche il pianto di un bambino appare una richiesta d’aiuto e suscita l’intervento di chi l’ascolta. Il
razionalismo, invece, le ha bandite come improprie di un’intelligenza lucida e padrona di sé.
La filosofia aristotelica considera le lacrime più proprie della fragilità femminile;
Seneca, nel De clementia, afferma che il saggio non può compatire, perché altrimenti in lui
albergherebbe la tristezza, che è un dolore dell’animo.
I poemi omerici, le lacrime esaltano la sensibilità e gli affetti: Omero narra di come Ulisse, tornato
in incognito in patria, mentre l’aedo racconta le peripezie del re di Itaca, scoppia in lacrime. Il
pianto diventa qui un processo catartico, uno sfogo liberatorio dal ricordo che appesantisce
l’animo.
Nella Bibbia, invece, le lacrime rivelano un ben più profondo significato spirituale e morale: le
lacrime dei giusti (Rachele, Isaia e Geremia) rappresentano la fine del potere del male e la
possibilità di riaffermare la priorità del bene, assegnando alla sofferenza un valore nuovo, sulla
scia di una forte alleanza tra l’uomo e Dio; Il libro del Qoèlet parla, infatti, di un tempo per ridere e
di un tempo per piangere, non come due tempi successivi l’uno all’altro alla cui fatale alternanza
bisogna rassegnarsi, bensì come due eventi concatenati e concomitanti che non sono separabili,
perché nel chiaroscuro dell’esistenza umana l’affermazione del bene non esclude dei momenti in
cui il male sembra trionfare. Salute/Malattia
Luoghi letterari del corpo malato: l’ospedale come metafora
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II filosofo Merleau-Ponty, nella sua opera “L'occhio e lo spirito”, critica una visione puramente
scientifica, che tende a trasformare il reale più che a comprenderlo. L'esistenza umana resta ai
margini, pertanto per comprendere l'uomo e coltivare l'umanità è necessario il contributo della
letteratura, dell'arte e della filosofia. La letteratura fornisce una visione globale della realtà, della
vita umana, perché fa suo il punto di vista del tempo biografico e, senza questa mediazione,
l'accesso al nostro io più autentico ci sarebbe negato perché ci sfuggirebbe la continuità
dell'esistenza.
Come ha notato Steiner, ogni lettura è un processo di accordo e di disaccordo, che non chiama
più in causa solo le emozioni, ma anche le proprie convinzioni. La narrativa fornisce supporti
perché la prospettiva morale non è semplicemente quella impersonale delle norme e dei doveri,
ma quella che si esprime in prima persona nella ricerca della vita buona e che trova eco proprio
nelle vicende dei vissuti della letteratura poetica, narrativa e drammatica.
Una parte considerevole della produzione letteraria del Novecento ha privilegiato la malattia come
soggetto della narrazione e ospedali e case di cura come ambientazioni. È divenuta, dunque, una
sorta di luogo letterario in cui confluiscono il male di vivere, il taedium vitae e il disagio di
un’epoca. D’altronde, è solo lo scrittore che può evocare e narrare ciò che la malattia significa per
il soggetto malato, mostrando che la realtà non si rinchiude nei limiti dell’oggettività e dell’analisi
razionale medica.
“Prigioniero di un mondo diverso”: una giornata al Cottolengo
Nelle narrazioni di Calvino, il soggiorno in ospedale diventa uno spunto narrativo di una narrazione
che non riguarda solo la realtà della malattia e della cura, ma soprattutto il valore dell’esistenza,
la dignità dell'essere umano e il senso della morte. Calvino impiegò 10 lunghi anni per scrivere
“La giornata di uno scrutatore”, ambientato in un particolare ospedale, il Cottolengo di Torino: il
racconto nasce da un'esperienza autobiografica, quella di due visite in quel luogo: la prima quando
l’autore assistette alle discussioni fra gli scrutatori di quel seggio sulla validità del voto tra i
malati; la seconda in occasione delle elezioni vere e proprie. Il motivo politico è, ovviamente, solo
un pretesto, poiché lo scrittore arriva ad approdare a ben altri interrogativi, circa il valore stesso
dell’esistenza umana. Nel protagonista, Amerigo, uno scrutatore comunista del seggio del
Cottolengo, è adombrato Calvino. Si tratta di una meditazione che manifesta il rimuginare del
protagonista di fronte a ciò che vede e sperimenta.
Il Cottolengo, per Amerigo, diventa un osservatorio privilegiato di un'altra umanità, e l'ottimismo
storico con cui entra nell'istituto, poi si