Elementi di Linguistica e Psicolinguistica
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Elementi di linguistica e psicolinguistica
Il giapponese è una lingua a isocronismo moraico: il ritmo è basato sulla mora, che è un’unità sub
sillabica.
Rasmus, Nespor & Mehler (1999) hanno mostrato che questa distinzione in classi ritmiche è il
risultato di differenze nell’organizzazione di consonanti e vocali. In particolare, la differenza è data
dalla percentuale di spazio vocalico (V) e da quanto varia lo spazio occupato da consonanti.
Rasmus, Nespor & Mehler (2005)
Inglese: distanza tra V e C irregolare, più lunga, meno spazio a V (45%)
Italiano: distanza abbastanza regolare tra V e C, più spazio a V (50%)
Giapponese: vocali molto vicine; maggior spazio alle vocali (55%)
Variazione prosodica
La variazione prosodica è data dal variare dell’intonazione (variazione di altezza dei suoni) e del
ritmo (dove cade l’accento) e cambia da lingua a lingua.
Le informazioni acustiche veicolate dalla variazione prosodica (altezza, ampiezza e durata dei
suoni linguistici) riescono a passare anche attraverso l’utero materno.
Visto che il sistema uditivo di un bambino si sviluppa intorno ai 7 mesi di gestazione, i bambini
sono in grado di percepire la variazione prosodica del parlato della madre dai 7 ai 9 mesi di
gestazione.
Jacques Mehler e collaboratori hanno dimostrato che bambini appena nati (di 4 giorni) sono in
grado di distinguere la loro lingua da un’altra lingua che abbia un ritmo diverso.
Mehler ha trovato che:
Bambini francesi di 4 giorni distinguono il russo dal francese e preferiscono ascoltare
discorsi in francese;
Bambini non francesi di 4 giorni non distinguono tra francese e russo e non mostrano
preferenza per il francese.
Visto che Mehler e collaboratori hanno filtrato anche i discorsi pronunciati nelle varie lingue per
eliminare ogni possibile riconoscimento di parole o particolari suoni linguistici, si può concludere
che i bambini riescono a riconoscere (e apprezzare maggiormente) la propria lingua solo
basandosi sulle proprietà prosodiche della lingua (intonazione e ritmo), che hanno sentito negli
ultimi mesi di gestazione.
Questa conclusione viene supportata da risultati ottenuti con ulteriori esperimenti.
DeCasper & Spence (1986)
I bambini appena nati non si comportano come ascoltatori passivi e neutrali. Preferiscono la voce
di loro madre a quella di altre donne; voci di donne a voci di uomini; e battiti cardiaci intrauterini a
voci di uomini; ma non preferiscono la voce di loro padre a quella di altri uomini.
Perché i bambini appena nati dovrebbero preferire alcuni suoni ad altri?
Un’ipotesi è che sia la loro esperienza con la voce della madre e i battiti cardiaci, ascoltati prima di
nascere, a influenzare ciò che preferiscono ascoltare.
Se quest’ipotesi è corretta, ci si aspetta che l’esperienza per - nascita con il suono del parlato della
madre porti a rinforzare in maniera differente alcune proprietà dei suoni dopo la nascita se i
bambini colgono alcune proprietà del parlato della madre prima di nascere, ci si aspetta che dopo
la nascita reagiranno in maniera diversa ad altri suoni: che “rinforzeranno” i suoni che hanno
proprietà acustiche compatibili con quanto hanno già “sentito”, e che invece non reagiranno a
quelli con proprietà diverse da quelle con cui hanno già avuto esperienza.
I suoni del parlato permettono di compiere due diversi tipi di discriminazione:
alcuni indizi del parlato permettono di discriminare/riconoscere suoni che sono rilevanti per
una lingua particolare, in quanto tale (proprietà generali di quella lingua) oppure quanto è
stato detto;
altri indizi permettono di discriminare il parlante o l’origine dei suoni del parlato.
Questa ipotesi comporta un’ulteriore conseguenza: bambini appena nati preferiranno le proprietà
acustiche di un particolare brano se le loro madri hanno ripetutamente recitato quel brano mentre
erano incinta.
C’è evidenza che nell’ultimo trimestre di gestazione il feto senta la voce della madre (ma non
quella del padre), e che questo permetta a bambini appena nati di: 16
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riconoscere e preferire la voce della madre ad altre voci di donna
riconoscere e preferire la propria lingua ad altre appartenenti a classi ritmiche diverse.
Domanda sperimentale: i bambini nell’ultimo trimestre di gravidanza sono in grado di
percepire anche “le proprietà acustiche di un particolare brano”, se lo hanno sentito
recitare da loro madre?
Abbiamo testato direttamente quest’ultima predizione in questa maniera.
Prima di tutto, abbiamo fatto registrare 3 brani a delle donne incinte.
Dopo, per ogni donna incinta è stato selezionato uno di questi brani, il brano target, e la donna lo
ha recitato a voce alta più volte al giorno durante le ultime 6 settimane di gravidanza.
Dopo la nascita, i bambini sono stati testati (con un compito di apprendimento operante):
presentando loro registrazioni del brano target e di un brano nuovo.
E si è controllato la loro efficacia relativa nel produrre comportamenti di rinforzo.
Predizioni: se l’esperienza prenatale con il brano target aumenta la sua funzione di rinforzo, allora:
le proprietà acustiche del brano target agiranno maggiormente da rinforzo rispetto a quelle
di un altro brano;
il valore differenziale di rinforzo del brano target dovrebbe essere veicolato da indizi
linguistici e, quindi, non dovrebbe richiedere la presenza degli indizi propri della voce della
madre;
il valore di rinforzo del brano target e del brano nuovo non dovrebbe differire per bambini
appena nati di controllo, che non sono stati precedentemente esposti a nessuno dei brani.
Procedura:
1. fare registrare a donne incinte tre brevi storie;
2. chiedere ad ogni donna di recitare a voce alta uno di questi brani (brano target) più volte al
giorno per le ultime 6 settimane di gravidanza;
3. presentare al bambino appena nato due brani: il brano target più un altro brano, entrambi
con voce della loro madre, e verificare se il bambino preferisce il brano che aveva sentito
durante la gravidanza.
4. Se è così, si può concludere che il bambino ha riconosciuto indizi prosodici di quel brano
prima di nascere.
5. Allora dovrebbe preferire quel brano ad altri brani, anche se recitati da un’altra persona.
6. Verificare che non ci sia preferenza “idiosincratica” per quella storia, verificando come
reagiscono a quei due brani mai sentiti prima di nascere.
Metodo: quando un bambino raggiungeva la baseline nel suo ritmo di suzione, cominciava la fase
di test.
Per 8 bambini, veniva inizialmente presentata la storia target ed era udibile durante la raffica di
ciucciata. Nel momento in cui finiva la prima raffica di ciucciata:
Se l’intervallo tra raffiche di ciucciata (IBI) era uguale o più lungo di quello del ritmo di
suzione della sua baseline, il bambino continuava a sentire la storia target;
Se l’intervallo tra raffiche di ciucciate (IBI) era più corto rispetto alla baseline, il bambino
sentiva l’altra storia.
Se il ritmo di suzione del bambino diminuiva rispetto a quello della sua baseline normale, il
bambino continuava a sentire la storia target; se invece il ritmo di suzione aumentava, sentiva
l’altra storia.
Per gli altri 8 bambini, succedeva l’inverso (se il ritmo aumentava, storia target; se diminuiva, altra
storia).
Si tratta di una procedura in cui è il bambino a modulare il proprio ritmo di succhiata per poter
sentire la storia che preferisce.
Controlli: 12 bambini appena nati, testati con la stessa procedura, ma questi bambini non avevano
mai sentito nessuna storia.
Per verificare se i bambini riescono a riconoscere le caratteristiche prosodiche della storia target, a
9 dei bambini del campione sperimentale sono state presentate storia target e altra storia lette
dalla loro stessa madre; ad altri 7 bambini sono state presentate storia target e altra storia lette da
un’altra donna. 17
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I bambini hanno adottato il loro ritmo di suzione (aumentandolo o diminuendolo) per poter
ascoltare la storia target (quella che avevano sentito nelle ultime 6 settimane di gravidanza)
piuttosto che la nuova storia non solo quando le storie erano lette dalla loro stessa madre, ma
anche quando erano lette da un’altra donna.
I controlli (quelli che non avevano sentito la storia target) non avevano preferenze.
I feti hanno imparato e ricordato qualcosa degli indizi acustici che caratterizzano quel particolare
brano che avevano ascoltato prima di nascere (ad esempio indizi prosodici come l’accento
sillabico, il VOT delle consonanti, la struttura armonica dei suoni vocalici allungati, e/o l’ordine
temporale di questi suoni).
Abbiamo visto che bambini molto piccoli (1 mese) sono in grado di discriminare in maniera
categoriale tra suoni linguistici che risultano fonemi nella loro lingua (Eimas et al. 1971 con [b] e
ʈ
[p]), ma anche in altre lingue (Werker et al. 1981 con [t] e [ ]) abilità questa che però perdono entro
la fine del I anno di vita.
Abbiamo anche visto che le informazioni prosodiche vengono colte anche nell’ultimo trimestre di
gravidanza, visto che bambini di pochi giorni preferiscono ascoltare una storia che hanno “sentito”
prima di nascere, anche se letta da una donna diversa da loro madre (DeCasper & Spence 1986).
↓
La questione di quali informazioni prosodiche possano essere colte e utilizzate dai bambini appena
nati diventa importante per capire come facciamo a individuare le parole nel flusso del parlato.
Gli studi precedenti hanno dimostrato che bambini molto piccoli sono in grado di distinguere alcuni
ʈ
“suoni linguistici” (ba vs da; ta vs a).
Ma non sono in grado di distinguere qualsiasi combinazione di suoni.
Bertoncini & Mehler (1981)
Domanda sperimentale: bambini piccoli sono in grado di riconoscere qualsiasi sequenza
diversa da un punto di vista fonetico, o solo quelle che sono in un certo senso “legittime”
in una lingua come unità percettive categoriali (ossia, che formano sillabe)?
Partecipanti: 50 bambini di 1 mese, divisi in 4 gruppi.
1. CVC: 15 bambini di 37.9 giorni
C VC tap C VC pat
1 2 2 1
Il primo gruppo di bambini viene testato nella fase di abitazione con una sequenza
Consonante1 - Vocale – Consonante2; e nella fase di test con una sequenza in cui si
invertono le due consonanti.
Si tratta di “sillabe” (con un nucleo vocalico), e sequenza legittima di suoni in una lingua.
2. CCC: 15 bambini di 38.6 giorni
C CC tsp C CC pst
1 2 2 1
Il secondo gruppo di bambini viene testato con una sequenza di tre consonanti: la prima e
l’ultima sono uguali a quella del gruppo 1 ([t] e [p]), ma questa volta in mezzo c’è una
consonante ([p]). Sempre, nella fase di test, si invertono la prima e l’ultima consonante.
I “suoni” invertiti sono gli stessi, ma questa volta le due sequenze non costituiscono una
sillaba, non possono occorrere legittimamente in isolamento.
3. VCCCV: 10 bambini di 29.2 giorni
VC CC V utspu VC CC V upstu
1 2 2 1
Il gruppo 3 viene testato con la stessa sequenza del gruppo 2 ma questa volta viene
aggiunta la vocale (u) sia all’inizio che alla fine.
Si tratta della stessa sequenza di “suoni”, ma questa volta l’inserimento delle vocali porta a
formare due sillabe, legittime dal punto di vista fonologico.
4. Control: 10 bambini di 31.7 giorni
C CC tsp C CC tsp
1 2 1 2
Il gruppo 4 è il gruppo di controllo: vengono familiarizzati con lo stesso materiale del gruppo
2, che non cambia nella fase di test.
Procedura: suzione non nutritiva. 18
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Predizioni: ci aspettiamo che i bambini del gruppo 1 riconoscano il cambio di suoni (da tap a pat)
ossia aumentino il ritmo di suzione quando avviene il cambio.
Ciò che interessa è che cosa faranno i bambini del secondo gruppo: riconosceranno il cambio
quando si invertono la prima e l’ultima consonante quando sono all’interno di una sequenza non
legittima (e quindi aumenteranno il ritmo di suzione come il gruppo 1) oppure non lo
riconosceranno (e quindi si comporteranno come il gruppo di controllo 4)?
E, nel caso non riconoscessero il cambio del gruppo 2, non lo riconoscono perché è una sequenza
“difficile”, o solo perché non costituisce una sequenza legittima? come si comporterà il gruppo 3,
al quale si presentano le stesse sequenze di consonanti del gruppo 2, ma questa volta con
l’aggiunta delle vocali, aggiunta che trasforma queste sequenze di suoni in sequenze legittime
(sillabe)?
Vengono usati due diversi indici per riportare i risultati:
In primo luogo, all’interno del gruppo di bambini, calcolano la media del ritmo di suzione
durante la presentazione del primo suono, e poi dopo il cambio con l’altro suono, indice che
ci dice se in generale il ritmo aumenta.
Poi usano un altro indice: per ogni singolo bambino calcolano la sua “dishabituation ratio”.
La differenza tra il ritmo di suzione prima e dopo il cambio, e stabiliscono di contare come
“bambini che si sono accorti del cambio” solo quelli per i quali l’incremento nel ritmo di
suzione è > 15% rispetto al ritmo precedente.
Se prendiamo come indicatore il cambio generale nel ritmo di suzione dal primo al secondo
stimolo, l’incremento maggiore si ha nel cambio tra tap e pat (+37,5%) e da utspu a upstu
(+36,8%); mentre l’incremento da tsp e pst (+13,5%) è paragonabile a quello della situazione di
controllo (senza cambio: +16,6%).
Se invece prendiamo come indicatore il numero di bambini nei vari gruppi che si accorgono del
cambio (i bambini per i quali il ritmo di suzione aumenta di più del 15% dopo il cambio), la
situazione è più “confusa”: 12/15 (80%) si accorgono del cambio da tap a pat; però solo 5/10
(50%) si accorgono del cambio da utspu a upstu, mentre 6/15 (40%) si accorgono del cambio tsp a
pst, stessa percentuale del gruppo di controllo.
In questo studio sono state testate sillabe ben formate (CVC), sequenze sillabiche impossibili
(CCC) e sequenze bisillabiche (VCCCV) che contengono al loro interno la sillaba impossibile.
In tutte le condizioni, le consonanti critiche (quelle che venivano invertite) sono sempre le
stesse: /p/ e /t/. Quindi il “cambio fisico” che intercorreva tra la fase di familiarizzazione e quella di
test era sempre lo stesso (invertire /p/ e /t/), almeno a livello di fonema individuale.
È stato trovato che:
I bambini riescono a discriminare due sillabe legittime come pat e tap.
I bambini non discriminano tra sequenze di consonanti CCC quando si invertono la prima e
l’ultima consonante.
Visto che entrambi i casi sono stati investiti gli stessi fonemi /p/ e /t/ è plausibile assumere che
questa avvenga perché sono solo le sillabe (alternanza di consonanti e vocali) a essere
rappresentate e riconosciute.
Al fine di testare questa ipotesi (è la sillaba l’unità fondamentale) è stata inclusa la condizione
VCCCV, quella in cui l’aggiunta di due vocali ha trasformato la sequenza non legittima CCC in due
sillabe possibili.
I risultati del gruppo di bambini esposti a questa condizione sono di difficile interpretazione: come
gruppo generale, c’è sicuramente un incremento nel ritmo di suzione nella fase di test, cosa che
suggerisce che il cambio è stato riconosciuto; tuttavia il numero di bambini che “si accorge” del
cambio (il cui ritmo di suzione è > 15%) è invece paragonabile al gruppo di controllo, in cui non è
avvenuto alcun cambio.
Si può comunque concludere che in generale i bambini si accorgono di un “cambio fisico”
(inversione di fonemi) quando questo avviene all’interno di una sillaba.
Questi risultati suggeriscono che i bambini sono in grado di processare unità linguistiche come la
sillaba già da molto piccoli.
Riconoscere le parole 19
Elementi di linguistica e psicolinguistica
Gli studi esaminati portano a concludere che bambini appena nati sono in grado di utilizzare le
informazioni prosodiche (legate al ritmo) di una lingua (visto che discriminano tra lingue che
appartengono a classi ritmiche diverse); e che sono in grado di applicare queste informazioni
prosodiche anche ad un particolare brano (visto che riconoscono un brano sentito durante la
gravidanza, anche se letto da un’altra donna); e che per loro l’unità fondamentale del parlato è la
sillaba (visto che discriminano tra combinazioni di segmenti fonetici diversi, pst e tsp, solo se
inseriti all’interno di sillabe).
Questo tipo di abilità possono spiegare come i bambini riescano a “crackare” il linguaggio.
Flusso del parlato e parole
È intuitivo pensare che per poter comprendere e poi parlare una lingua occorra partire dalle
“parole” è necessario comprendere a che cosa le parole si riferiscono, e poi come queste si
mettono insieme per formare le frasi.
Ma per poter iniziare a comprendere le prime parole, è prima necessario identificare le parole
all’interno del flusso del parlato.
Quando noi parliamo, emettiamo un flusso continuo di suoni, senza interruzioni tra una parola e
l’altra.
Motherese
È vero che le madri, e in generale i caregivers, si rivolgono ai bambini con una modalità
particolare, il cosiddetto motherese, caratterizzata da un’intonazione particolare, che mette
particolare enfasi su alcune parole, e da un lessico e sintassi semplificati.
Ma la percentuale di “single-word utterances” (di enunciati che consistono in una singola parola)
nel motherese è inferiore al 10%, quindi i bambini devono essere in grado di segmentare il parlato
per identificare le parole.
A che età riescono a individuare singole parole all’interno del flusso del parlato?
Jusczyk & Aslin (1995)
Hanno scoperto che all’età di 7 mesi e mezzo i bambini sono in grado di individuare una parola
all’interno del flusso del parlato. A 6 mesi non sembrano in grado di farlo.
Head-Turn Preference Paradigm (HPP): è un paradigma che può essere usato con bambini di 4
mesi e mezzo (prima non sono in grado di stare seduti e girare la testa) fino ai 18 mesi (età in cui
“si stufano”, e non riescono a stare seduti a lungo).
È un paradigma che si basa su due principi:
I bambini tendono a girare la testa in direzione di un suono
I bambini rimangono girati più a lungo verso un suono se lo ritengono interessante
Apparatus: il bambino siede in braccio a un genitore (che ha le cuffie per non influenzare il
comportamento del bambino).
Di fronte al bambino c’è una videocamera che riprende il viso del bambino per coglierne i motivi.
Sulla videocamera è montata una luce, in modo da orientare l’attenzione del bambino davanti a sé
quando serve (ogni volta che si vuole che il bambino parta dal guardare un punto “neutro” prima di
orientare la sua attenzione da altre parti).
Ai lati del bambino si trovano due altoparlanti che emettono gli stimoli sperimentali.
Procedura:
1. Fase di familiarizzazione: vengono presentati degli stimoli uditivi al bambino con i seguenti
scopi: Renderlo “familiare” con quegli stimoli
Insegnargli che ogni tanto gli stimoli provengono dall’altoparlante a sinistra, e ogni
tanto a destra
Per fargli associare il comportamento “gira la testa” con la comparsa di determinati
suoni: i suoni vengono emessi da un altoparlante finché il bambino continua a
guardare in quella direzione. Appena il bambino si ri-gira, il suono viene interrotto. In
questa maniera il bambino “sa”che per sentire un suono deve mantenere la testa
girata nella direzione da cui provare quello stimolo. 20
Elementi di linguistica e psicolinguistica
2. Fase di test: degli stimoli di tipo diverso vengono presentati dall’altoparlante destro o
dall’altoparlante sinistro, e si registra il comportamento del bambino: per quanto tempo
rimane a guardare da una parte, e per quanto tempo dall’altra parte.
Non vengono fatte assunzioni particolari; quello che importa è se il bambino si comporta in
maniera diversa con classi diverse di stimoli, ad esempio preferendo suoni familiari a quelli
non familiari o viceversa.
Jusczyk & Aslin hanno effettuato 4 esperimenti per verificare se e quando i bambini sono in grado
di individuare singole parole all’interno del flusso del parlato.
Esperimento 1: presentare nella fase di familiarizzazione una parola singola; presentare
nella fase di test frasi che contengono o non contengono al loro interno quella parola e
verificare se i bambini adottano un comportamento diverso (guardano più o meno a lungo),
a seconda che la frase contenga o meno quella parola.
Partecipanti: 24 bambini americani di 7 mesi e mezzo.
Stimoli: una donna ha registrato 4 brani diversi, ognuno dei quali comprendeva 6 frasi, che
avevano una parola in comune. Poi sono state registrate le 4 parole separatamente, ogni
parola pronunciata per 15 volte di seguito.
I 24 bambini sono stati divisi in due gruppi: un gruppo durante la fase di familiarizzazione
sentiva le parole “cup” e “dog”; l’altro gruppo sentiva “feet” e “bike”.
Fase di familiarizzazione: prima si attira l’attenzione (accendendo la luce della telecamera)
di fronte al bambino. Poi uno degli altoparlanti si illumina, e comincia la sequenza di 15
enunciazioni di una parola (cup/cup/cup…), audio che continua finché il bambino continua
a guardare nella direzione dell’altoparlante. Si continua così finché il bambino è stato
esposto ad almeno 30 secondi di ascolto per ciascuna parola.
Fase di test: dagli altoparlanti questa volta escono (uno alla volta) i 4 brani che contengono
le 6 frasi. I brani vengono fatti ascoltare solo finché il bambino rimane a guardare nella
direzione dell’altoparlante; quando si gira per più di due secondi la riproduzione viene
interrotta.
Risultati: sono stati registrati i tempi medi di ascolto per i 4 brani, dividi in due blocchi. I 2
brani che contenevano le parole presentate nella fase di familiarizzazione, e i 2 brani che
non contenevano parole familiari.
Dei 24 bambini, 19 avevano tempi medi di ascolto maggiori per il blocco di frasi che
conteneva parole familiari.
I tempi medi di ascolto di tutti i bambini erano di 8,29s per i brani con parole familiari, e di
7,04s per quelli con parole non familiari, differenza statisticamente significativa.
I risultati del I esperimento suggeriscono quindi che bambini di 7 mesi e mezzo sono in
grado di riconoscere, all’interno del flusso parlato (le 6 frasi), una parola che è stata loro
presentata in isolamento precedentemente.
Quando emerge questa abilità?
Esperimento 2: sono stati testati 24 bambini di 6 mesi con lo stesso materiale e la stessa
procedura, e solo 13 bambini su 24 avevano tempi di ascolto maggiori per i brani familiari.
In generale, la differenza nei tempi di ascolto tra brani con parole familiari (8,45s) e brani
con parole non familiari (7,49s) non è risultata significativa.
Confronto tra il 1° esperimento (con bambini di 7 mesi e mezzo) e 2° esperimento (con bambini di
6 mesi): solo a 7 anni e mezzo, ma non a 6 mesi, i bambini riconoscono una parola nel flusso del
parlato.
I risultati dei primi due esperimenti suggeriscono che a 7 mesi e mezzo, ma non a 6 mesi, i
bambini sono in grado di riconoscere, all’interno del flusso parlato, delle parole singole con cui
sono stati precedentemente familiarizzati.
Rimane però aperta la questione di quali sono le condizioni in cui i bambini sono in grado di
estrarre le informazioni rilevanti per poter poi riconoscere le parole niente assicura che abbiano
riconosciuto le parole, magari sono sensibili solo ad alcune loro proprietà (per esempio le loro
vocali, o altre caratteristiche, come la rima, ecc.)
Esperimento 3: verificare se i bambini riescono effettivamente a estrapolare dal flusso del
parlato una parola “nella sua interezza”, o se si limitano a riconoscerne solo alcune 21
Elementi di linguistica e psicolinguistica
proprietà fonologiche. L’esperimento 3 usa la stessa procedura del primo esperimento, ma
nei materiali si sostituiscono alle parole usate nella fase di familiarizzazione altre parole,
che costituiscono non-parole, e che hanno in comune con le parole target alcune proprietà
fonologiche:
cup tup; feet zeet; bike gike; dog bawg
Nella fase di familiarizzazione, i bambini vengono familiarizzati con queste nuove non-
parole; poi si presenta loro, nella fase di test, i blocchi di frasi originali, che invece
contengono le vere parole cup, feet, bike, dog.
Se i bambini sono sensibili a solo alcune delle proprietà fonologiche delle parole (stesse
vocali/stessa rima), allora dovrebbero continuare a mostrare preferenza per i brani che
contengono le parole fonologicamente simili; se invece riconoscono le parole nella loro
interezza, non dovrebbero mostrare preferenze.
Risultati: 11 bambini su 24 hanno mostrato di preferire i brani che contenevano parole
“pseudo-familiari” rispetto agli altri brano. Considerando le medie dei tempi d’ascolto
complessivi dei brani pseudo-familiari (6,93s) rispetto agli altri brani (6,51s) la differenza
non è significativa.
Visto che nel primo esperimento i bambini di 7 mesi e mezzo hanno mostrato preferenza per i
brani che contenevano le stesse parole con cui erano familiarizzati (mentre nel secondo
esperimento non lo facevano), e in questo esperimento i bambini non mostrano preferenze per i
brani che contengono parole fonologicamente simili, si può quindi concludere che bambini di 7
mesi e mezzo riescono a riconoscere una parola nella sua interezza all’interno del flusso parlato.
È stato quindi appurato che un bambino, se viene familiarizzato con una parola, che viene
presentata in isolamento, è poi in grado di riconoscerla all’interno del flusso del parlato.
Tuttavia abbiamo visto come solo raramente al bambino vengano ripetute (più volte) parole in
isolamento (10% di enunciati di una sola parola nel motherese).
La situazione “normale” è l’inversa: al bambino vengono presentate intere frasi, e lui/lei dovrebbe
estrarre da quelle frasi le parole rilevanti.
La questione di quando i bambini siano in grado di compiere questa operazione è rilevante per
capire lo sviluppo lessicale.
Esperimento 4: verificare a che età i bambini sono in grado di estrarre e riconoscere
parole dal flusso parlato.
Il disegno sperimentale è l’opposto di quelli precedenti: i bambini vengono familiarizzati con
frasi che contengono al loro interno una stessa parola target, e nella fase di test viene
presentata loro quella parola target e altre parole non sentite nelle frasi di familiarizzazione.
Se il bambino preferisce ascoltare la parola target, si può concludere che l’ha estrapolata
dal flusso del parlato, e poi riconosciuta.
Fase di familiarizzazione: un gruppo di 12 bambini viene familiarizzato con i due brani (da 6
frasi ciascuno) che contengono le parole target cup e do; il secondo gruppo con i brani che
contengono le parole target feet e bike.
Fase di test: vengono presentate 3 volte le ripetizioni di ognuna delle parole sperimentali
(12 trial in tutto), ossia blocchi delle due parole target contenute nelle frasi sentite nella
familiarizzazione, e blocchi delle due parole non sentite precedentemente, e si registrano i
tempi di ascolto.
Risultati: 18 bambini su 24 hanno preferito ascoltare la lista di parole target rispetto alle
liste di parole nuove. In generale, i tempi di ascolto delle parole target (10,43s) sono stati
maggiori dei tempi di ascolto delle parole non familiari (8,32s), differenza che è risultata
statisticamente significativa.
Da questi 4 esperimenti si può quindi concludere che a 7 mesi e mezzo (ma non a 6) i bambini
sono in grado di riconoscere (almeno alcune) parole all’interno del flusso del parlato, sia quando
sono già stati familiarizzati le riconoscono dal flusso; sia quando si presenta loro una frase sono in
grado di estrarre (almeno alcune) parole.
Inoltre possiamo concludere che le parole che “estraggono” sono parole complete, non solo alcune
loro proprietà fonologiche (ossia, non le confondono con parole che hanno le stesse vocali, o che
rimangono con loro).
Segmentare il flusso del parlato 22
Elementi di linguistica e psicolinguistica
Sebbene solo il 10% circa delle frasi rivolte ai bambini siano one-word-utterances, questo potrebbe
costituire la (prima) chiave per “crackare il codice”.
BANKIRITUBENDUDIFIN
Quali sono le parole che la compongono?
Se Kiri e Dudi sono familiari: BAN-KIRI-TUBEN-DUDI-FIN
Se si riconoscono “Kiri” e “Dudi” come parole, allora si può assumere che anche “BAN” e “FIN” lo
siano (mentre si possono avere dei dubbi su “TUBEN”, che potrebbe essere una parola bisillabica,
o due parole monosillabiche).
Con queste nuove assunzioni, di fronte alla sequenza:
TAMFINATBANKIRISAN
Si può ipotizzare una scomposizione in:
TAM-FIN-AT-BAN-KIRI-SAN
Il linea di principio, quindi, partendo da poche parole familiari, e riconoscendole all’interno del
flusso del parlato, si possono poi fare ulteriori ipotesi su quali siano altre parole, e usando queste
nuove parole si può poi procedere ad identificarne altre ancora … e via via si potrebbe quindi
riconoscere tutte le parole.
Bortfeld et al. (2005)
Hanno provato a familiarizzare bambini di 6 mesi con frasi in cui la parola target (ad esempio
“bike”) compariva appena dopo una parola sicuramente già nota al bambino (il loro nome, o la
parola “mommy”).
Essi hanno trovato che in questa condizione già a 6 mesi i bambini dimostravano nella fase di test
di riconoscere il nome target rispetto a un altro nome non menzionato, ma anche rispetto a un
nome con cui erano stati precedentemente familiarizzati, ma in frasi in cui non c’erano “ancore”
possibili. CALTUMKATEFRUNZILLAPPANZURI
È probabile che non tutti facciano le stesse ipotesi di parole, pero è altamente probabile vengano
proposte segmentazioni di questo tipo:
CA-LTU-MKATE-F-RUNZIL-LAPPA-NZURI
Perché quando segmentiamo il parlato, anche in una lingua straniera, assumiamo (implicitamente)
dei vincoli fonotattici, che ci dicono quali combinazioni di suoni possono o non possono stare
all’inizio o alla fine di parola.
Le “parole” LTU, MKATE e NZURI non sono “legittime” per l’italiano, perché in italiano nessuna
parola può iniziare con due consonanti come “MK” o “NZ”; mentre in altre lingue sì (come in Ceco
e Swahili).
Jusczyk e colleghi (1993) hanno dimostrato che i bambini americani di 9 mesi preferiscono
ascoltare delle parole le cui sillabe sono compatibili con i vincoli foto tattici della loro lingua,
piuttosto che parole olandesi che violano questi vincoli, mentre nei bambini olandesi la preferenza
è inversa.
Morfologia
Studio della struttura delle parole.
Abbiamo visto come i bambini riescono a riconoscere e individuale singole parole all’interno del
flusso del parlato. Dopo averle riconosciute, devono identificarne il significato.
Morfemi
L’unità minima dotata di significato è il morfema, il quale è composto da fonemi.
Proprietà della doppia articolazione di Hockett: dalla combinazione di un repertorio finito di fonemi,
che non hanno significato, si ottengono unità linguistiche (morfemi e parole) che hanno significato.
I morfemi possono essere:
Liberi: se occorrono da soli.
Esempi di morfemi liberi sono:
di caffè sempre ora (avverbio) 23
Elementi di linguistica e psicolinguistica
Legati: quando si uniscono ad altri morfemi per formare una parola.
Una parola come “bambino” è composta da due morfemi:
• bambin- è un morfema lessicale, che ci dà informazioni sul significato della parola.
• -o (come gli altri possibili morfemi –a, -i ed –e) è un morfema grammaticale, che ci
dà informazioni sul fatto che quella parola è un nome comune singolare maschile
(piuttosto che singolare femminile, ecc …).
Una parola come correvamo è composta da quattro morfemi:
• corr- è un morfema lessicale, che ci dà informazioni sul significato della parola.
• -e, -v e –amo sono morfemi grammaticali, che ci danno informazioni sul fatto che
quella parola è un verbo della seconda coniugazione (-e), al tempo imperfetto (-v),
prima persona plurale (-amo).
[le vocali –a, -e, -i, che servono solo per indicare a quale coniugazione appartiene il
verbo vengono chiamati morfemi vuoti perché non hanno alcun significato.]
In italiano, tutti i verbi sono necessariamente flessi (hanno dei morfemi grammaticali), così come
per la maggior parte dei nomi comuni, per cui costituiscono morfemi legati.
In inglese, invece, esistono molti morfemi liberi, visto che il morfema lessicale dei verbi può
comparire come infinito, e tutta la declinazione del presente (tranne la terza persona singolare) e i
nomi comuni vengono flessi solo per il plurale.
Morfemi grammaticali
Sono di due tipi:
Flessivi: danno informazioni sulla forma della parola (maschile/femminile, singolare/plurale,
tempi e persone verbali).
Derivazionali: portano a costruire nuove parola a partire da parole già esistenti.
Inattaccabile
• attacc- è il morfema lessicale
• -(a)bil è il morfema derivazionale: si attacca al verbo per trasformarlo in aggettivo.
• in- è un morfema derivazionale: si attacca a un aggettivo, e ne inverte
semanticamente il significato.
In + attaccabile inattaccabile
In + possibile impossibile
In + logico illogico
In + memore immemore
In + riducibile irriducibile
Il morfema derivazionale in (e anche con) va incontro a fenomeni di assimilazione
(parziale o totale) quando si combina con una parola che inizia con determinate
consonanti.
Morfemi per posizione
Prefissi: a sinistra della parola
In-valicabile s-fortunato ex-marito
In morfologia ex-marito è considerata come unica parola. In morfologia, una parola è un
morfema libero, o combinazione di morfemi legati, che rappresenta un’unità minima
isolabile all’interno di una frase. Essendo un’unità non è possibile frapporvi altre parole in
mezzo.
Infissi: in mezzo alla parola
Cant-icchi-are libr-ett-ino
Suffissi: a destra della parola
Spalma-bile riscalda-mento lavora-tore
Parole composte
Derivano dall’unione di due parole già esistenti. In un composto, la parola che “domina” viene
definita testa. Per identificare la testa, si usa il criterio “parola composta è un …”
Endocentriche: una testa.
Capostazione cassaforte
Composti incorporativi: due teste
Cassapanca agrodolce 24
Elementi di linguistica e psicolinguistica
Composti esocentrici: la testa è esterna al composto.
Cavatappi pellerossa
Costituenti “neoclassici”: classe ibrida. È possibile identificare due diversi morfemi lessicali,
che però non costituiscono vere e proprie parole dell’italiano. Sono morfemi che derivano
da parole greche o latine, e che hanno un significato, ma non possono essere usate da
sole in italiano.
Psicologia biochimica socioculturale
La morfologia studia la struttura delle parole, come queste si formano a partire dai morfemi.
All’interno di una parola, riveste un ruolo primario il morfema lessicale (radice) che ci dà le
informazioni sul significato della parola.
I morfemi grammaticali, invece, svolgono due funzioni distinte: i morfemi flessivi danno
informazioni sulle caratteristiche della parola ma non la cambiano; i morfemi derivazionali, invece,
operano un cambiamento della parola (di categoria e/o di significato).
L’identificazione dei morfemi grammaticali delle parole permette anche la classificazione delle
parole in base alla loro categoria sintattica.
In psicolinguistica, ricorreranno alcuni elementi legati alla morfologia delle parole:
Quali tipi di parole vengono acquisiti prima dai bambini?
Ci sono indizi morfologici che aiutano i bambini nella fase di identificazione del significato?
Come gli adulti “immagazzinano” le voci lessicali in memoria?
Come gli adulti processano i nomi (tutti interi, composti di morfemi, … )?
Semantica
Studio del significato delle parole e delle frasi. La semantica studia il legame di significazione che
intercorre tra gli elementi linguistici e ciò che significano.
L’assunto iniziale è che le parole abbiano un significato (proprietà della semanticità di Hockett),
ossia che ci sia un nesso, di tipo arbitrario, convenzionale, (proprietà dell’arbitrarietà) tra le parole
e gli oggetti/eventi del mondo esterno.
Abbiamo visto che il vero portatore di significato in linguistica è il morfema, e che le parole sono
morfemi liberi o combinazioni di morfemi legati, che costituiscono un’unità linguistica.
La proprietà della produttività di Hockett dice che noi, in quanto “utenti del linguaggio”, siamo in
grado di comprendere e produrre un numero potenzialmente infinito di frasi.
Per spiegare questa proprietà di assume che questo sia possibile perché:
Noi conosciamo il significato delle singole parole che compongono una frase.
Noi conosciamo le regole con cui queste parole vengono messe insieme.
La docente di Elementi di linguistica e psicolinguistica ha parcheggiato il suo trattore in doppia fila.
Questa è una frase mai sentita prima, ma si riesce a comprenderne senza problemi il significato.
Cosa vuol dire “comprendere il significato?”
Un individuo comprende il significato di un enunciato quando è in grado di riconoscere quali
situazioni lo rendono vero, e quali situazioni lo rendono falso.
Come “utenti della lingua”, ossia come individui che parlano una lingua, noi siamo in grado di
comprendere enunciati mai sentiti prima, e quindi un numero potenzialmente infinito di enunciati.
Com’è possibile comprendere un numero potenzialmente infinito di frasi?
Ovviamente, non possiamo aver “memorizzato” tutte le frasi e tutte le associazioni di enunciati a
situazioni, proprio perché la nostra capacità di comprensione si estende anche a frasi mai sentite
prima in quella specifica combinazione.
Noi conosciamo il significato delle singole parole che compongono gli enunciati, e poi “mettiamo
insieme” i significati di queste parole per ottenere il significato complessivo della frase.
La docente di Elementi di linguistica e psicolinguistica ha parcheggiato il suo trattore in doppia fila.
Per comprendere il significato di un enunciato, noi dobbiamo:
1. Conoscere il significato delle parole che lo compongono
La / docente / di / ELePL / ha / parcheggiato / il / suo / trattore / in / seconda / fila
2. Conoscere il modo con cui queste parole si combinano 25
Elementi di linguistica e psicolinguistica
La docente di ELePL ha parcheggiato il suo trattore in seconda fila.
Il trattore in seconda fila ha parcheggiato la docente di ELePL
Per derivare il significato delle frasi è necessario mettere insieme il significato delle parole
(significato lessicale) e il modo in cui queste si combinano (sintassi).
Significato delle singole parole
Le parole possono essere distinte in due macrocategorie:
Parole di classe aperta: sono nomi, aggettivi, verbi, avverbi; sono di classe aperta perché
ve ne possono aggiungere di nuove, ad esempio per riferirsi a oggetti di nuova invenzione.
Parole di classe chiusa: sono articoli, pronomi, congiunzioni, …, e costituiscono una classe
chiusa perché il loro insieme è (relativamente) fisso, e non soggetto a variazioni.
La semantica formale si focalizza principalmente sul significato delle parole di classe chiusa (i
connettivi e, o, se …., allora …; i quantificatori tutti, qualche, nessuno, gli articoli determinativi e
indeterminativi, …); le parole di classe aperta sono analizzate come classe (qual è il significato dei
nomi propri? Dei nomi propri di individui non esistenti? Dei nomi comuni? Dei nomi comuni di
genere naturale? Qual è il significato degli aggettivi gradabili relativi positivi? …).
Parole e categorie
I nomi comuni possono occorrere in posizione di soggetto, e di predicato, richiedono un
articolo, e possono essere al singolare o plurale.
Gli aggettivi possono occorrere in posizione predicativa e modificare un nome comune.
I determinanti modificano un nome comune e ne indicano la quantità.
Significato dei nomi comuni
Un nome comune significa (denota, si riferisce a) un insieme di oggetti, quegli oggetti che godono
della proprietà denotata dal nome.
Conoscere il significato di un nome comune equivale a sapere quali oggetti appartengono a
quell’insieme, e quali oggetti non vi appartengono.
Conoscere il significato di un nome comune comporta anche il sapere quali relazioni quel nome
intrattiene con altri nomi comuni.
Significato dei nomi propri
Un nome proprio significa (denota, si riferisce a) un singolo oggetto, quell’individuo che è il
portatore di quel nome.
Conoscere il significato di un nome proprio equivale a sapere qual è l’individuo che è il portatore di
quel nome.
Significato dei verbi
Alcuni verbi denotano eventi, mentre altri denotano stati.
Verbi intransitivi: coinvolgono un solo individuo (il soggetto)
Verbi transitivi: coinvolgono due individui (soggetto + oggetto)
Verbi irreversibili: non possono scambiare il soggetto con l’oggetto
Verbi reversibili: si possono scambiare il soggetto e l’oggetto
Verbi ditransitivi: coinvolgono tre individui.
Significato degli aggettivi
Gli aggettivi possono modificare un nome comune, o occorrere in posizione predicativa denotano
una proprietà.
Quando modificano il nome, portano a intersecare l’insieme di oggetti denotati dal nome con
l’insieme di oggetti che hanno la proprietà denotata dall’aggettivo.
Acquisire il linguaggio
Tappe nell’acquisizione del linguaggio:
2-6 mesi: vocalizzazione (turni)
6-7 mesi: lallazione canonica
9-12 mesi: lallazione variata
Dai 6 mesi: pointing, gesti deittici
12 mesi: produzione delle prime parole (grande variabilità)
18 mesi: produzione delle prima combinazioni di 2 parole
26
Elementi di linguistica e psicolinguistica
Tappe dello sviluppo del lessico:
12 mesi: circa 10 parole
↓ circa 40 parole in 6 mesi
18 mesi: circa 50 parole
↓ circa 250 parole in 6 mesi (da 10 fino a 40 parole a settimana) esplosione del
vocabolario
24 mesi: circa 300 parole
Tipologia delle prime parole
Le prime parole prodotte dal bambino sono:
Parole che si riferiscono a oggetti concreti (palla, biscotto, scarpe, ciuccio, …)
Parole sociali (ciao, mamma, basta, bua …)
Solo in seguito compaiono:
Verbi concreti (dare, dormire, mangiare, …)
Aggettivi (grande, …)
Alcuni avverbi, preposizioni (più, su/giù, …)
Questionario MacArthur per l’Italiano (Caselli, Casadio, Bates, 2001)
Scheda “Gesti e Parole” per bambini tra gli 8 e i 17 mesi
Scheda “Parole e Frasi” per bambini tra i 18 e i 30 mesi
Le prime parole
Come fanno i bambini ad associare una parola al suo significato?
Si potrebbe pensare che i bambini imparano il legame di significazione che intercorre tra una
parola e l’oggetto da questa denotata semplicemente per osservazione diretta: il caregiver mostra
l’oggetto al bambino e pronuncia la parole, e in questa maniera il bambino impara a che cosa la
parola si riferisce.
Questa visione incorre però in due problemi:
1. Identificare all’interno della scena visiva indicata dal caregiver l’oggetto che esso intende
mostrare, e talvolta questo non è semplice.
Per quanto riguarda questo problema sono di fondamentale importanza aspetti sociali
come l’attenzione condivisa, la condivisione dello sguardo, il gesto di indicare …
Secondo Woodward, i bambini riescono a capire a quale oggetto l’adulto intenda riferirsi
per mezzo di una parola perché sono consapevoli del tipo di azioni che si compiono mentre
si usa il linguaggio. Prima dei 9 mesi, i bambini distinguono tra l’atto di afferrare
(intenzionalmente) un oggetto, e il contatto manuale privo di scopi.
Tra i 9 e i 12 mesi, i bambini comprendono che il gesto di indicare, o di rivolgere lo sguardo
verso
qualcosa, è funzionale ad attirare l’attenzione, e a stabilire una relazione tra agente e
soggetto.
Tuttavia, è stato sostenuto che dopo i 18 mesi le competenze sociali del bambino diventino
meno importanti, e i maggiori predittori dell’ampiezza del vocabolario diventi il ruolo
dell’adulto, la sua prontezza nel rispondere alle verbalizzazioni del bambino, e la sua
capacità di individuare, e denominare, gli oggetti su cui il bambino focalizza l’attenzione, e
la complessità sintattica delle frasi prodotte dall’adulto.
2. Anche assumendo che il bambino riesca a focalizzare la sua attenzione sull’oggetto inteso
dal parlante come fa il bambino a capire a che cosa esattamente la parola si riferisca?
[“gavagai” di Quine per l’indeterminatezza della traduzione]
3. Una volta che il bambino abbia capito che una parola si riferisce a un oggetto come fa il
bambino a sapere a quali oggetti quel nome può essere correttamente esteso?
Per quanto riguarda il secondo problema è stato ipotizzato che i bambini siano guidati da una serie
di assunzioni nel processo di mappatura da nome a significato.
Assunzione dell’oggetto intero: quando sentono un’etichetta che si riferisce a un oggetto, i
bambini assumono che l’etichetta si riferisca all’oggetto nella sua interezza, e non a una
sua parte. 27
Elementi di linguistica e psicolinguistica
Hollich, G., Golinkoff, R. M., Hirsh-Pasek, K. (2007)
Una parola come biberon potrebbe riferirsi alla tettarella, alla base di plastica, o all’intera
bottiglia comprendendo entrambe le parti. Potrebbe inoltre riferirsi all’atto di succhiare o al
processo di nutrirsi. Nonostante questo, i bambini generalmente indovinano il corretto
significato Come?
Woodward (1993) presentò a bambini di 18 mesi una nuova parola con due possibili
riferimenti. Uno era un display visualmente attrattivo che rappresentava un evento mentre
l’altro era un nuovo oggetto statico. Nonostante la saliente preferenza per gli eventi, i
bambini guardavano di più l’oggetto quando sentivano il nome nuovo.
Ci sono alcuni problemi riguardi questa assunzione come soluzione al dilemma
dell’acquisizione del linguaggio. Primo, quest’evidenza era stata identificata con bambini di
18 mesi o oltre, si sa molto poco riguardo a come i bambini più piccoli interpretano i nuovi
nomi. Secondo, lavori precedenti avevano usato un set di stimoli ristretti per favorire
un’interpretazione completa, specialmente riguardo le parti. Gli stimoli precedenti erano
oggetti le cui parti non erano particolarmente salienti, e queste parti non erano
necessariamente distinte dall’oggetto.
Per questi oggetti le parti potrebbero sviare l’attenzione, hanno i lori nomi e possono
talvolta essere separati dall’intero e rappresentare un oggetto diverso.
Non si sa niente su come i bambini interpretano i nomi in presenza di nuovi oggetti
complessi o se l’assunzione dell’oggetto intero funzioni anche in questi casi.
Metodo: Intermodal preferintial looking paradigm. Gli stimoli sono presentati
acusticamente e i target sono presentati visivamente (filmati o immagini statiche), è adatto
anche a bambini di pochi mesi.
I bambini (anche molti piccoli) ascoltano delle frasi nella loro lingua madre e
contemporaneamente sullo schermo (o due schermi) vengono rappresentate due scene o
immagini statiche compatibili o NON compatibili con l’input uditivo. I soggetti tendono a
guardare di più le scene che corrispondono a quello che sentono.
Misura la proporzione delle fissazioni sulla scena/immagine target, comparandole alle
fissazioni sulla scena/immagine “competitor”.
Partecipanti: un totale di 48 bambini, bilanciati per genere (28 di 12 mesi e 20 di 19 mesi).
Materiali: 4 set di stimoli formati da più parti, due familiari e due nuovi. I set familiari erano
formati da due parti di oggetti distinti (possibilmente salienti) come ad esempio un telefono
con la cornetta, le scarpe con i lacci, una tazza con il tappo e un biberon con la tettarella.
I nuovi stimoli erano ritagli di pezzi di legno che potevano essere separati in due parti. I
pezzi potevano essere messi insieme come un puzzle (aiutati con il velcro) ed erano
abbastanza leggeri in modo che anche bambini di 12 mesi potessero stapparli facilmente.
La base dell’oggetto era pitturata di un colore e le parti erano decorate con lo stesso colore;
in modo da aumentare la salienza delle parti e far sì che i bambini associassero la parola
con esse. Procedura:
1. Fase di esplorazione: i bambini vedevano un paio di oggetti familiari e
venivano fatti giocare con essi in modo da familiarizzarli con le loro parti, che
potevano essere staccate o unite all’oggetto (26 s in cui i bambini potevano
prendere in mano gli oggetti,formati da entrambe le parti o uniti insieme).
2. Fase di test: i due oggetti venivano affissi a una parete, e lo sperimentatore
chiedeva al bambino per tre volte di cercare un oggetto familiare (6 s)
3. Fase di esplorazione: venivano introdotti i nuovi oggetti e chiamati con una
parola senza alcun significato (modi o dawnoo) per sette volte mentre venivano
scomposti e ricomposti.
4. Fase di test: al bambino viene chiesto di trovare l’oggetto chiamato modi.
Predizioni: se i bambini associano il nome all’intero oggetto guarderanno nella direzione
dell’oggetto intero mentre se il nome è attribuito alle parti guarderanno in maniera uguale
sia l’oggetto intero che le sue parti.
Vennero condotti altri due esperimenti di controllo per assicurarsi che i bambini avessero
compreso
veramente il significato della parola. 28
Elementi di linguistica e psicolinguistica
Venne chiesto di trovare un oggetto “glorp” dopo l’oggetto “modi”; se i bambini avevano
associato
il nome modi all’oggetto intero ci aspetteremmo che lo guardino di meno in questa fase
quando
viene richiesto un altro nome. Quando veniva chiesto di cercare l’oggetto “glorp” i bambini
non guardavano l’oggetto “modi” e questo conferma il fatto che i bambini avessero associato
all’oggetto “modi”un significato preciso.
Risultati:
Nella fase in cui venivano usati oggetti familiari bambini di 19 mesi ottenevano tempi di
fissazione di 3.58s per gli oggetti target e di 1.92s per oggetti non target; bambini 12 mesi
avevano tempi di fissazione di 3.09s per oggetti target e di 1.96s per oggetti non target.
Inoltre, 23 bambini su 28 di 12 mesi e 17 su 20 bambini di 19 mesi, guardavano di più
l’oggetto target.
Nella fase in cui venivano testati i nuovi oggetti entrambi i gruppi di bambini (12 e 19 mesi)
guardavano significativamente più a lungo l’oggetto intero.
Questo esperimento e altri suggeriscono che i bambini piccoli, già a partire da 12 mesi,
siano guidati naturalmente dall’assunzione che un nome si riferisca a un oggetto intero, e
non a una sua parte.
Quest’assunzione risponde al problema di Quine: sebbene in linea di principio ci siano
numerose ipotesi compatibili con il riferimento di un nome, questa assunzione le limita
fortemente.
Assumendo che i bambini siano guidati da questo principio, possiamo restringere la gamma
delle possibili descrizioni che possono essere predicate dell’oggetto inteso come referente
del nome, a solo quelle che corrispondono a un oggetto intero.
Abbiamo però eliminato alcune assunzioni ma non tutte. Non sono ancora escluse a priori
le ipotesi secondo cui una parola si riferisca al nome proprio di quell’oggetto, o sia invece
un termine che individua altri oggetto o altri concetti.
Ossia, una volta che il bambino ha capito che una parola si riferisce a un oggetto come fa a
sapere a quali altri oggetti quel nome può essere correttamente esteso?
Assunzione dell’estensione tassonomica: i bambini assumono che le etichette si riferiscono
agli oggetti della stessa categoria e non a oggetti nematicamente correlati.
Markman & Hutchinson (1984)
Su che basi i bambini concludono che una nuova parola, per esempio cane, si riferisca ai
cani? Che cosa li previene dall’ipotizzare che cane sia il nome proprio di quel cane? Che
cosa li previene dal concludere che cane significhi “animale a 4 zampe” o “animale nero”
….
E infine, che cosa li previene dal concludere che la parola cane, oltre a riferirsi a quel cane,
si riferisca anche all’osso che sta masticando, o all’albero sotto cui è steso?
Quest’ultima ipotesi, che una parola si riferisca a una serie di relazioni tematiche tra gli
oggetti, pone un problema particolare, perché i bambini sono di base molto interessati alle
relazioni tematiche tra gli oggetti, e le trovano più salienti rispetto alle relazioni categoriche.
Le relazioni categoriche sono quelle che raggruppano gli individui in base alla loro
categoria di appartenenza, secondo una classificazione di tipo tassonomico.
Le relazioni tematiche sono quelle che raggruppano gli individui/oggetti in base a
“comunanze” tra gli stessi.
In uno studio, si presentavano ai bambini diversi oggetti appartenenti a diverse categorie
(veicoli, animali, vestiti, persone …), glieli si faceva manipolare in assoluta libertà, e poi si
chiedeva loro di raggrupparli come meglio credevano (senza altri istruzioni).
Bambini di 7 li raggruppano in base a categorie tassonomiche (mezzi di
trasporto/abbigliamento/…).
Bambini più piccoli di 7 anni invece raggruppano gli oggetti in base ad altri criteri: possono
mettere insieme un uomo e una macchina (perché gli uomini guidano le macchine), oppure
un ragazzo, un cane e un cappello (perché il ragazzo si mette il cappello quando porta fuori
il cane).
Esperimento 1 29
Elementi di linguistica e psicolinguistica
Partecipanti: 41 bambini di 3 anni.
Procedura: mostrare un’immagine (barboncino) e poi mostrare altre due immagini (un
pastore tedesco e della pappa per cane) e chiedere di mostrare quello che è lo stesso.
Due condizioni:
1. Condizione no word: quando si presenta la prima immagine (il barboncino), lo
sperimentatore dice “Guarda attentamente! Vedi questo?”. E quando poi si presentano
le altre due immagini “Trova un altro che è lo stesso”.
2. Condizione novel word: viene introdotto un pupazzo, che parla nella lingua dei pupazzi.
Il pupazzo nomina la prima immagine: “Vedi questo? È un blico (pseudo parola)!” E
quando poi si presentano le altre due immagini: “Trova un altro blico”
Risultati:
1. Condizione no word: nessuna preferenza nella scelta dell’immagine, pastore tedesco
(scelta categoriale) e pappa per cani (scelta tematica) uguali (56% vs 44%)
2. Condizione novel word: i bambini preferiscono compiere la scelta categoriale (pastore
tedesco) rispetto alla scelta tematica (pappa per cani), 83% vs 17%.
Questo esperimento suggerisce che, quando a un oggetto viene data un etichetta, i
bambini tendono ad assumere che quel nome si estende ad altri oggetti che sono
categoricamente, tassonomicamente legati a quell’oggetto, e non ad altri oggetti che sono
nematicamente legati ad esso questo avviene solo in presenza di un etichetta linguistica.
Assumendo che i bambini siano guidati da queste due assunzioni nella fase iniziale del
processo di mappatura tra parole e oggetti, possiamo spiegare come riescano ad acquisire
“facilmente” il significato delle prime parole.
Ovviamente, i bambini fanno anche degli errori, ma è interessante analizzare il tipo di errori
che commettono nel processo di acquisizione del nesso di significazione tra parole e loro
referenti. Sovraestensione: tipico errore dei bambini nella fase di “esplosione” del
vocabolario. Il bambino usa lo stesso nome per riferirsi a un insieme di oggetti più esteso
dell’insieme di oggetti a cui il nome di fatto si riferisce
Sovraestensione categoriale: si ha quando una stessa parola è usata per diversi
membri della stessa categoria “allargata”.
Sovraestensione analogica: si ha quando una stessa parola è usata per oggetti
percettivamente simili all’oggetto a cui la parola si riferisce.
Sovraestensione relazionale: si ha quando una parola viene usata per denotare un
oggetto nematicamente legato a questa.
Questo tipo di errore avviene solo in produzione ma non in comprensione. Quindi, potrebbe
essere che il bambino crede veramente che quel nome sia riferito anche ad altri oggetti
diversi. Potrebbe invece indicare una richiesta di aiuto del bambino che non riesce a
recuperare o non conosce il nome corretto e quindi chiede all’adulto di correggerlo.
Ma, a un certo punto, i bambini devono acquisire il significato anche di altre parole, quelle
che denotano parti di oggetti e quelle che si riferiscono a proprietà degli oggetti.
Assunzione della mutua esclusività: i bambini assumono che le etichette si escludano a
vicenda, ossia, se conoscono già un nome-etichetta per un oggetto, e sentono un altro
nome, assumono che quel nuovo nome non si riferisca allo stesso oggetto di cui
conoscono il nome.
Mather & Plunkett (2008)
Materiali:
12 oggetti familiari (treno, palla, macchina …)
12 oggetti nuovi (fisarmonica, ancora …)
12 nomi degli oggetti familiari
4 nomi nuovi (pseudo: blick, gop, meb, wug)
Procedura: Intermodal preferential looking paradigm.
Vengono mostrate le immagini di un oggetto familiare e di un oggetto nuovo, in 3
condizioni:
Controllo: non viene dato nessun nome
Nuovo: viene pronunciato un nome nuovo
Familiare: viene pronunciato un nome familiare.
30
Elementi di linguistica e psicolinguistica
Risultati: nella condizione di controllo, i bambini non hanno preferenze nel guardare un
oggetto piuttosto che un altro; nella condizione “familiare”, i bambini guardano più a lungo
l’oggetto denotato dal nome. Nella condizione “nuovo nome”, i bambini guardano più a
lungo l’oggetto sconosciuto.
Perché dovrebbero guardare di più un oggetto sconosciuto sentendo un nome
sconosciuto?
Perché sanno che quell’altro oggetto ha un nome conosciuto e quindi assumono che il
nome nuovo si riferisca all’oggetto sconosciuto applicazione dell’assunzione della mutua
esclusività.
Questo significa che, una volta che hanno imparato il nome di un oggetto, quando i bambini
sentono un nuovo nome che si riferisce a quell’oggetto, grazie all’assunzione della mutua
esclusività assumeranno che il nuovo nome non sia un altro nome per quell’oggetto, ma
che dovrà riferirsi a qualcos’altro, ad una sua parte o a una sua proprietà. 31
Elementi di linguistica e psicolinguistica
Acquisire il significato di aggettivi e verbi
Acquisire il significato di aggettivi
Le parole sono formate da morfemi. In particolare, alcuni morfemi derivazionali trasformano la
categoria di una parola, facendola passare da nome ad aggettivo.
-os-: suffisso aggettivatore con valore di “generante N/caratterizzato da N”
La categoria degli aggettivi può essere identificata in base alla loro distribuzione. Gli aggettivi
possono occorrere in posizione predicativa (senza articolo) e modificare un nome comune.
Guarda che bella cosa fraposa che ho portato!
See the zavish thing over there?
Le pseudo - parole fraposa e zavish verrebbero classificate come aggettivi perché:
Modificano un nome [in italiano vengono dopo il nome, in inglese prima]
Hanno una desinenza (il morfema derivazionale os in italiano e ish in inglese) tipica degli
aggettivi.
Usando indici morfologici e distribuzionali un bambino può identificare particolari parole come
appartenenti alla categoria degli aggettivi.
Una volta individuate queste parole, però, il compito del bambino è stabilirne il significato.
Gli aggettivi possono modificare un nome comune, o occorrere in posizione predicativa denotano
una proprietà.
Quando modificano il nome, alcuni aggettivi portano a intersecare l’insieme di oggetti denotati dal
nome con l’insieme di oggetti che hanno la proprietà denotata dall’aggettivo.
Come fanno i bambini a capire a che cosa si riferisca un aggettivo?
Sono in grado di sfruttare gli indizi morfologici e distribuzionali per riconoscerli?
Quali situazioni rendono più facile la comprensione del significato degli aggettivi?
Waxman S.R., & Kilbanoff, R.S. (2000)
Locke aveva ipotizzato che i bambini riuscissero ad acquisire facilmente il significato di termini che
denotano “idee semplici”, ossia proprietà che sono direttamente osservabili percettivamente.
Osservando il colore del gesso, della neve, del latte diventerebbe immediatamente disponibile
l’idea di bianchezza (idea semplice), e quindi i bambini apprenderebbero subito l’associazione tra
parola bianco e quella proprietà, e sarebbero poi in grado di estenderla correttamente ad altri
oggetti che sono bianchi.
Locke quindi predirebbe che le parole che si riferiscono a questo tipo di proprietà sono tra le prime
ad essere imparate, e una volta imparate, sarebbero poi facilmente estese ad altri oggetti che
godono di quella proprietà.
Ma non è così. Nel primo vocabolario non ci sono termini che denotano proprietà (mentre ci sono
termini che denotano “idee complesse”); e inoltre, anche quando imparano nomi che denotano
proprietà i bambini faticano ad estenderli ad altri oggetti “diversi”.
Il “paradosso” è che (almeno) alcune proprietà degli oggetti sono percettivamente salienti, tuttavia
le parole che li indicano (gli aggettivi) non vengono acquisiti per primi, e i bambini hanno poi
problemi a “estenderli” correttamente o meglio, riescono a farlo in solo alcuni contesti.
Partecipanti: 32 bambini di 3 anni.
Procedura: viene introdotto un pupazzo, Gogi, che non parla la nostra lingua.
1. Fase di familiarizzazione: si presentano al bambino due oggetti, che appartengono alla
stessa categoria (within basic) o a categorie diverse (across basic).
Condizione “adjective”: Gogi dice che questo è molto blicoso (within basic) mentre
Gogi dice che questo non è blicoso (across basic).
Condizione “no word”: a Gogi piace questo (within basic) mentre a Gogi non piace
questo (across basic).
2. Fase di test: vengono di nuovi presentati due oggetti che appartengono allo stesso gruppo
e di questi due oggetti uno possiede la stessa caratteristica dell’oggetto indicato nella fase
di test e l’altro no. Si chiede al bambino:
Condizione “adjective”: Adesso Gogi vuole un altro oggetto blicoso, puoi dargliene
un altro blicoso?
Condizione “no word”: Adesso Gogi ne vuole un altro. Puoi dargliene un altro?
Risultati: nella condizione “no word”, i bambini di comportano a livello di chance. Non preferiscono
scegliere l’oggetto che ha la stessa caratteristica. 32
Elementi di linguistica e psicolinguistica
Nella condizione “adjective”, i bambini scelgono l’oggetto che ha la stessa caratteristica solo se
nella fase di familiarizzazione gli sono stati presentati due oggetti che appartengono alla stessa
categoria.
I bambini scelgono correttamente l’oggetto con la stessa caratteristica degli oggetti nella fase di
familiarizzazione ma:
Solo nel caso in cui veniva associata un’etichetta, visto che nella condizione no word non
avevano preferenza
Solo nel caso in cui nella fase di familiarizzazione venivano presentati due oggetti uguali
che differivano per la caratteristica rilevante
Quindi il bambino a 3 anni è in grado di estendere gli aggettivi non solo a oggetti della stessa
categoria di livello base, ma anche a oggetti di altre categorie ma solo se nella fase di
familiarizzazione gli sono stati presentati due oggetti che appartengono alla stessa categoria, e
non se familiarizzati con due oggetti diversi.
Perché?
Quando i bambini vedono due oggetti che appartengono alla stessa categoria (due piatti) e che
differiscono per solo una proprietà (il colore) è più facile focalizzarsi su una determinata proprietà
dell’oggetto e poi estenderla correttamente ad altri oggetti che appartengono a una categoria
diversa.
Tuttavia questo viene fatto solo se la proprietà in questione viene etichettata, ossia se viene usata
una parola visto che l’estensione viene fatta solo nella condizione adjective, mentre nella
condizione no word i bambini non mostrano preferenza nella fase di test.
Infine, si può sottolineare come il fatto che i bambini riescano ad acquisire il significato di una
parola solo quando questa viene usata per riferirsi a un oggetto che viene paragonato a un altro
della sua stessa categoria base può suggerire che gioca un ruolo importante anche il fatto che gli
aggettivi spesso modificano un nome, e quindi il fatto di presentare due oggetti della stessa
categoria può aver facilitato questo tipo di interpretazione.
Mintz T.H., & Gleitman, L.R. (2002)
Sebbene i bambini comincino a produrre spontaneamente gli aggettivi a partire dai due anni,
diversi studi hanno dimostrato che i bambini, ancora a tre anni, riescano a estendere
correttamente il significato di un aggettivi solo in situazioni limitate.
Materiali: nella fase di training si presentano ai bambini (di due e tre anni) tre oggetti familiari
diversi, accomunati da una stessa caratteristica.
1. Fase di training: tre oggetti familiari diversi, accomunati da una stessa caratteristica.
2. Fase di test: si presentano ai bambini 2 oggetti, uno della stessa categoria dell’ultimo degli
oggetti presentati ma con un’altra caratteristica, e un altro oggetto con la stessa
caratteristica dei tre oggetti della fase di familiarizzazione.
Procedura: ai bambini viene presentato un pupazzo, Titti, che parla la Titti - lingua.
Tre diverse condizioni (in 3 esperimenti diversi):
Adjective + noun
1. Training: “Guarda che elefante/cubo/palla stuffoso!” “Vedi, queste cose sono tutte
stuffose”
2. Test: “Dai a Titti quello stuffoso”
Se i bambini comprendono l’aggettivo, scelgono la stessa caratteristica.
Deictic
1. Training: “Guarda questo” “Wow! C’è qualcos’altro!” “Uh! Un’altra cosa!” “Guarda queste
cose”
2. Test: “Dai a Titti uno di questi”
Qui non ci sono etichette, quindi ci aspettiamo che i bambini scelgano a caso (chance).
Adjective + one/thing
1. Training: “Guarda che cosa stuffosa!” “Vedi, queste sono tutte cose stuffose!”
2. Test: “Dai a Titti quello stuffoso”
Se i bambini comprendono l’aggettivo, scelgono la stessa caratteristica.
Risultati: nella prima condizione i bambini scelgono l’oggetto con la stessa caratteristica; nella
seconda condizione invece non hanno preferenze così come nella terza condizione. 33
Elementi di linguistica e psicolinguistica
Concludendo, Mintz & Gleitman hanno mostrato che i bambini, già a 2 anni, sono in grado di
estendere correttamente una pseudo parola presentata come aggettivo a un oggetto con la stessa
caratteristica/proprietà di quella con cui sono stati familiarizzati, quando questa parola viene
presentata loro come modificazione del nome.
Se invece la nuova etichetta viene presentata non accompagnata a un nome, i bambini, anche a
tre anni, poi non la estendono a un oggetto che ha le stesse caratteristiche con cui sono stati
familiarizzati.
Sembra quindi necessario che i bambini vengano esposti alla combinazione sintattica “nome +
aggettivo” per comprendere appieno che la nuova parola indica una caratteristica dell’oggetto
denotato dal nome.
È stato ipotizzato che, per acquisire determinate categorie di parole i bambini si basino su indizi di
tipo sintattico, nel caso degli aggettivi, sul fatto che l’aggettivo modifica un nome.
Acquisire il significato dei verbi
Che tipo di indizi servono per imparare il significato di un verbo?
Gilette, J., Gleitman, H., Gleitman, L. & Lederer, A. (1999)
Ci sono più nomi che verbi nel primo vocabolario del bambino. È stato sostenuto che questo
accade perché nomi e verbi richiedono diversi requisiti concettuali: i verbi sarebbero
cognitivamente più difficili dei nomi. Quindi bisogna aspettare che il bambino raggiunga una certa
maturità mentale per impararne il significato.
Gilette e collaboratori invece vogliono esplorare un’altra ipotesi: l’ordine di acquisizione sarebbe
dovuto alle richieste informazionali del verbo.
Per imparare il significato dei verbi bisogna poter accedere a caratteristiche strutturali e per far ciò
bisogna aver preliminarmente acquisito il significato dei nomi.
Per testare questa ipotesi, Gilette e collaboratori hanno condotto diversi esperimenti.
1. Cercano di simulare l’acquisizione di novi e verbi, da parte di adulti.
Disegno sperimentale: mostrare a partecipanti adulti dei video di interazioni madre-
bambino durante le quali venivano pronunciati i 24 nomi e i 24 verbi più comuni.
Ai partecipanti viene mostrato un video in cui l’audio era stato tolto e, quando veniva
pronunciata la parola target, si sentiva un beep.
Compito del partecipante era di provare a capire quale parola fosse stata pronunciata:
Condizione nome: i partecipanti dovevano indovinare un nome.
Condizione verbo: la parola da indovinare era un verbo.
Nel caso dei nomi, gli adulti arrivano a indovinarne (dopo 6 video con la stessa parola) il
45% delle volte.
Nel caso dei verbi, gli adulti arrivano a indovinarne (dopo 6 video con la stessa parola) il
15% delle volte.
2. Presentare ai soggetti (sempre adulti) indizi diversi per cercare di imparare il significato dei
verbi, e verificare quale tipo di indizio è più utile.
Condizione 1: “Cross-situational observation”.
Presentare 6 video di interazioni mamma-bambino, in cui è stato effettivamente
pronunciato quel verbo, ma selezionando la parte in cui secondo altri osservatori si
poteva capire il significato del verbo simula l’idea che l’acquisizione del significato
avvenga per osservazione diretta.
Condizione 2: “noun co-occurrence”
Presentare ai partecipanti i nomi (o coppie di nomi) usati insieme al verbo da
indovinare, per ognuna delle 6 situazioni.
Condizione 3: “observation & noun-context”
Presentare ai partecipanti sia i 6 video che la lista dei nomi che compaiono insieme
al verbo (condizione 1 +2)
Condizione 4: “syntactic frame”
Presentare ai partecipanti i frame sintattici in cui compare il verbo da indovinare,
ossia la frase vera e propria, in cui le parole di classe aperta vere sono state
sostituite con pseudo parole.
Condizione 5: “syntax and selection”
34
Elementi di linguistica e psicolinguistica
Presentare ai partecipanti la vera frase e proprio in cui è stato pronunciato il verbo
da indovinare viene sostituito con una pseudo parola.
Condizione 6: “full information”
Presentare ai partecipanti la frase vera e proprio in cui è stato pronunciato il verbo
da indovinare + il video della scena in cui è stato pronunciato” (condizione 1 + 5).
Risultati: l’indizio migliore che permette l’identificazione del significato del verbo è quello in
cui si presenta ai soggetti il frame sintattico in cui il verbo da indovinare compare, non solo
quando compaiono i nomi usati ma anche se i nomi sono sostituiti da pseudo parole.
L’avere a disposizione indizi che provengono dall’osservazione della scena in cui il verbo è
usato invece non aiuta.
Per imparare il significato dei verbi, bisogna sfruttare l’indizio del frame sintattico, ossia capire quali
sono gli “attori” coinvolti nell’evento/stato denotato dal verbo.
Ipotesi dell’innesto sintattico: si ispira all’idea di Brown secondo cui i bambini usano il contesto
morfosintattico per stabilire se una parola è un nome o un verbo e se è un nome proprio o comune.
Lila Gleitman: la struttura sintattica funziona come uno zoom che mette a fuoco solo quella
porzione dell’evento extralinguistico compatibile con la frase pronunciata.
In questa prospettiva, la procedura che associa i verbi al loro significato è una procedura di
associazione tra frasi ed eventi del mondo.
Questa ipotesi si basa sul presupposto che esista una correlazione tra sintassi e semantica. I verbi
infatti si differenziano a seconda del loro significato, che può essere visto in relazione al numero di
argomenti che un verbo richiede e al modo in cui questi argomenti sono espressi.
È a partire dalla struttura argomentale del verbo e dal modo in cui sono espressi gli argomenti che
i bambini evincono alcuni aspetti del significato del verbo. Su questa base facciamo le prime
ipotesi sul significato del verbo (che andranno poi corroborate o falsificate nelle successive
occorrenze).
Naigles, L. (1990)
Partecipanti: 24 bambini di 2 anni.
Paradigma: Intermodal Preferential Looking Paradigm.
Materiale: video di due personaggi (A e B) che eseguono contemporaneamente due azioni:
Un’azione è di tipo causativo (A compie un’azione su B)
Un’azione è di tipo non causativo
Due condizioni:
Viene presentato un verbo in un frame sintattico di tipo transitivo
Viene presentato un verbo in un frame sintattico di tipo intransitivo
Procedura:
1. Fase di familiarizzazione: ai bambini viene presentato il video di due personaggi che
compiono queste due azioni (di tipo causativo e di tipo non causativo), mentre il video
compare ogni tanto sullo schermo sinistro, ogni tanto sullo schermo destro, ogni tanto in
entrambi gli schermi.
Intanto si sente l’audio che dice una delle due frasi (condizione transitiva o intransitiva).
2. Fase di test: vengono introdotti due nuovi video, uno nello schermo di destra e l’altro nello
schermo di sinistra. I video hanno entrambi gli stessi personaggi, ma in ogni video compare
una sola delle azioni con cui i bambini sono stati familiarizzati (in un video c’è l’azione
causativa mentre nell’altro quella non causativa). Viene quindi chiesto ai bambini di
individuare il verbo a cui si sta facendo riferimento.
Predizioni: se i bambini utilizzano le informazioni sintattiche, allora ci aspettiamo che quando
vengono familiarizzati con il verbo nella sua forma transitiva lo interpreteranno come verbo
causativo, e quindi guarderanno più a lungo il video in cui c’è solo l’azione causativa. Allo stesso
modo se utilizzano le informazioni sintattiche, ci aspettiamo che quando vengono familiarizzati con
il verbo nella sua forma intransitiva lo interpretino come verbo non causativo, e quindi guarderanno
più a lungo il video in cui c’è l’azione non causativa.
Se, invece, non utilizzano informazioni di tipo sintattico, non ci saranno differenze tra le due
condizioni di familiarizzazione transitivo/intransitivo (chance).
Risultati: 35
Elementi di linguistica e psicolinguistica
Condizione transitiva: quando i bambini sentivano il frame sintattico transitivo guardavano
più a lungo la condizione causativa.
Condizione intransitiva: quando i bambini sentivano il frame sintattico intransitivo
guardavano più a lungo la condizione non causativa.
Questi dati suggeriscono che i bambini possono estrarre informazioni sintattiche da ciò che
sentono già a 2 anni; e che lo fanno molto rapidamente, tanto da essere in grado di recuperare tali
informazioni per stabilire il significato di un verbo inventato nel corso di un breve esperimento.
E i verbi più difficili?
Finora abbiamo visto che i bambini sfruttano indizi sintattici per acquisire il significato dei verbi; ci
siamo limitati, però, a verbi il cui significato era comunque deducibile dall’osservazione della scena
visiva.
Il migliore predittore di quali saranno le prime parole acquisite dai bambini è la loro concretezza più
che l’appartenere a determinate categorie sintattiche. Ossia, è vero che in generale i nomi sono
acquisiti prima dei verbi, tuttavia il verbo colpire viene acquisito prima del nome idea, proprio
perché il primo è più concreto del secondo.
Ma come si fa ad acquisire il significato di verbi che sono concreti, ma che denotano un’azione che
potrebbe essere linguisticamente descritta in modi diversi?
In generale, quando si guarda una scena in cui ci sono due individui, e uno di questi è la source
dell’azione e l’altro è il goal dell’azione, c’è una tendenza naturale a pensare che anche il verbo
rifletta quest’ordine di salienza.
Già a tre anni i bambini sono in grado di trarre questo tipo di inferenze.
Fisher et al. (1994)
Condizione “no syntax”: vedo del gorpare.
“source”: scelte del significato del verbo come inseguire.
“goal”: scelte del significato del verbo come scappare.
Condizione “source syntax”: il coniglio gorpa l’elefante.
“source”: scelte del significato del verbo come inseguire.
“goal”: scelte del significato del verbo come scappare.
Condizione “goal syntax”: l’elefante sguanda il coniglio.
“source”: scelte del significato del verbo come inseguire.
“goal”: scelte del significato del verbo come scappare.
Verbi mentali
Ma come si fa ad acquisire il significato di verbi il cui significato non è immediatamente percepibile
con i sensi?
I bambini cominciano a produrre i primi verbi che denotano azioni o movimento già prima di due
anni. Mentre non producono verbi “mentali” prima dei due anni e mezzo.
E, in comprensione, riescono a distinguere esattamente il loro significato solo intorno ai 4 anni.
Nell’esperimento di Gillette sugli indizi che servono per identificare correttamente il significato dei
verbi abbiamo visto come la presentazione della scena visiva in cui la parola era stata pronunciata
risultasse un indizio debole, mentre era più utile fornire il frame sintattico in cui il verbo era stato
usato.
Il presentare le situazioni concrete in cui la parola era stata usata era utile per alcune parole, ad
esempio come il verbo andare, mentre totalmente inutile per altri verbi come sapere.
Dividendo i verbi che erano stati testati in due categorie, verbi di azione e i verbi mentali, si può
vedere come giochino ruoli diversi:
Per i verbi di azione, l’indizio migliore è proprio la scena visiva, seguita dall’elenco dei nomi
coinvolti dal verbo
Per i verbi mentali, l’unico indizio affidabile è la presentazione del frame sintattico in cui
compare.
All’interno della categoria dei verbi, si possono fare ulteriori distinzioni.
Un verbo di azione come mangiare o bere, oltre che dalla scena visiva in cui viene usato, sarà
reso di più facile comprensione dall’indizio dato dagli oggetti che sono coinvolti in quel verbo.
Infatti, gli oggetti di verbi come bere o mangiare sono necessariamente oggetti inanimati e
commestibili/potabili. 36
Elementi di linguistica e psicolinguistica
Per quanto riguarda verbi ancora più “difficili”si può notare come siano riscontrabili dei pattern di
distribuzione semantica generali per queste categorie di verbo.
Papafragou, Cassidy & Gleitman (2004)
Partecipanti: 34 bambini di 4,5 anni.
Procedura: mostrare dei video accompagnati da una storia. Alla fine del video, uno dei personaggi
della storia descrive cosa era successo, usando una frase in cui il verbo è stato sostituito con una
pseudo parola. Compito dei partecipanti è indovinare il significato di quella parola.
Alcuni video presentavano delle situazioni di”false belief”: situazioni in cui qualcuno ha una
falsa credenza sulla situazione.
Alcuni video presentavano delle situazioni di “true belief”: in cui le credenze sono il linea
con la realtà.
I verbi da indovinare vengono presentati o all’interno di uno schema “proposizionale” [soggetto
verbo che proposizione] oppure all’interno di uno schema transitivo [soggetto verbo oggetto].
Come filler sono usate delle scene in cui si vede una persona che cerca di fare qualcosa; dopo
queste scene è stata sempre usata la costruzione all’infinito: [io blippo di raggiungere
l’orsacchiotto].
Compito dei partecipanti è indovinare il significato del verbo usato. Le risposte sono state
codificate raggruppandole in tre categorie:
A Action
B Belief
D Desire
O Other
Risultati: in generale, i bambini danno più risposte con verbi concreti, di azione, che con verbi
mentali o di desiderio rispetto agli adulti. Ma il pattern di risposta riproduce esattamente quello
degli adulti: le risposte di tipo verbo mentale vengono proposte quando il verbo compare in un
frame sintattico in cui è seguito da una frase complemento, soprattutto quando il personaggio ha
una falsa credenza su quanto è successo.
Concludendo, per imparare il significato dei verbi mentali, è di fondamentale importanza
l’identificazione del frame sintattico in cui questi compaiono. E poi il fatto che la situazione presenti
una situazione in cui un personaggio ha una credenza falsa.
Accesso al lessico
A 16 mesi, i bambini producono circa 20 parole, e ne comprendono circa 175.
A 24 mesi, i bambini producono tra le 200 e le 300 parole (esplosione del vocabolario).
Quando capiscono il meccanismo che permette loro di imparare il significato di parole “difficili” e
astratte, il ritmo di acquisizione di nuovi vocaboli sale (20 parole al giorno).
A 5-6 anni, i bambini producono 2000 parole, e ne comprendono 20.000.
Negli anni scolastici, continua l’acquisizione di nuove parole, al ritmo di circa 10 parole nuove al
giorno.
Un adulto conosce tra le 60.000 e le 70.000 parole, e quando deve parlare, sceglie tra qualcosa
come 30.000 parole.
Esperimenti offline & online
Esperimenti offline: test in cui si misura la risposta data da un partecipante a un quesito.
Esperimenti online: compiti in cui vengono misurati indici di processazione di informazioni
come i tempi di reazione, le fissazioni dello sguardo o indici di attività celebrale.
La principale differenza tra i dati che vengono forniti da esperimenti offline e online è che i primi ci
danno indicazioni su decisioni prese più o meno coscientemente dai soggetti, e possono quindi
essere frutto di processo top-down, in cui interviene un controllo della risposta. I dati di esperimenti
online, invece, ci danno indicazioni (indirette) del processo di elaborazione e processazione del
linguaggio.
Ad esempio, posso avere un esperimento con due condizioni (A e B) in cui l’accuratezza è la
stessa, mentre gli indici online sono diversi (tempi di reazione per rispondere ad A e B diversi
maggior sforzo cognitivo nell’elaborazione delle informazioni).
Come sono organizzate le parole nel nostro cervello? 37
Elementi di linguistica e psicolinguistica
Per rispondere a questa domanda analizziamo cosa succede quando una persona sente (o legge
una parola).
Ossia, nel momento in cui un adulto entra in contatto con una parola, come fa a recuperarla dal
suo lessico mentale?
I vocabolari sono in ordine alfabetico, per cercare una parola dobbiamo individuare la prima lettera
che la compone e poi restringere la ricerca a quelle parole che indiziano con le prime di lettere, e
poi procedere fino a che si giunge alla parola target.
Le parola intorno alla parola che stiamo cercando nel vocabolario (quelle immediatamente
precedenti e seguenti in ordine alfabetico) diventano competitor della nostra parola target, nel
senso che anch’esse attirano, sviano la nostra attenzione durante il processo di ricerca.
Organizzazione del lessico
Ci sono altri modi possibili di organizzare le parole.
In lingue come il cinese, la grafia delle parole non riproduce il loro suono, il modo in cui sono
pronunciate, ma riproduce, mediante un sistema di caratteri, il loro significato.
Se si incontra un carattere che non si conosce non lo si può cercare “alfabeticamente” in un
vocabolario.
I vocabolari, quindi, sono anche organizzati ordinando i caratteri “base” e le loro possibili
combinazioni, e in questo modo si può individuare all’interno di un vocabolario un carattere che
non si conosce.
Un tipo di organizzazione del lessico di questo tipo è quindi fatta in base a criteri di tipo semantico,
concettuale.
Altre organizzazioni possibili delle parole sono in base alle loro rime.
Che cosa succede quando i nostri sensi entrano in contatto con una parola?
Noi possiamo udire una parola (canale uditivo) oppure leggere una parola (canale visivo).
Lettura
Noi non possiamo fare a meno di leggere le parole quando ce le troviamo davanti.
Effetto Stroop
“Dimmi di che colore è l’inchiostro della scritta che vedi”
Online test: si misura quanto tempo impiegano i soggetti a rispondere nelle varie condizioni.
1. Quando c’è congruenza tra il colore dell’inchiostro e la parola scritta.
2. Quando c’è incongruenza tra il colore dell’inchiostro e la parola scritta.
E si confrontano i tempi di reazione i tempi di reazione per rispondere alla condizione
incongruente sono significativamente più lunghi dei tempi di reazione per rispondere alla
situazione congruente. Condizione incongruente >> condizione congruente
Questo esperimento ci suggerisce che, anche se ci viene chiesto un compito in cui non dobbiamo
leggere, noi non possiamo fare a meno di farlo, e questo ci può portare a:
Rallentare i tempi di risposta quando lo stimolo è incongruente
Avere un tasso di accuratezza più basso (risposte sbagliate)
In questo compito, quando rileviamo che per svolgere lo stesso tipo di compito, i partecipanti
hanno delle performance diverse per quanto riguarda i tempi di reazione (misura online) e il tasso
di accuratezza (misura offline), si assume che questa differenza sia imputabile a un maggiore
sforzo cognitivo necessario per svolgere il compito in una delle due condizioni.
In particolare, in questo compito, il maggiore sforzo cognitivo deriva da un effetto di interferenza tra
il colore della scritta e la parola. L’interferenza avviene proprio perché per noi il processo di lettura
è automatico.
Questo semplice compito ci mostra il conflitto tra le operazioni top-down e bottom-up. Per svolgere
il compito noi dobbiamo svolgere un compito “monitorato”, top-down, ma subiamo l’interferenza di
un processo automatico di lettura, bottom-up, che non riusciamo facilmente a inibire.
Che cosa succede quando ascoltiamo una parola? Come facciamo a recuperarla dal nostro
lessico mentale?
Dobbiamo aspettare fino a che la parola è stata interamente pronunciata, o cominciamo prima a
cercarla?
E se cominciamo prima, che tipo di unità percettiva - uditiva utilizziamo, procediamo fonema-per-
fonema, o utilizziamo unità più ampie? 38
Elementi di linguistica e psicolinguistica
Abbiamo visto che i bambini sembrano essere sensibili alla nozione di sillaba a livello di
percezione del parlato, gli individui si appoggiano a questa nozione?
Lingue e classi ritmiche
Le lingue possono essere classificate in tre macrocategorie in base al loro ritmo, e la nozione di
ritmo linguistico si appoggia anche alla nozione del sillaba.
Lingue a mitragliatrice: l’accento tende a cadere su ogni sillaba, perché le vocali si
alternano in maniera regolare italiano
Lingue a codice morse: l’intervallo tra le vocali è meno regolare e quindi l’accento cade su
alcune sillabe, mentre altre vengono pronunciate in maniera ridotta inglese
Questo tipo di differenza nelle classi ritmiche, e nella importanza che riveste la sillaba all’interno
della lingua, si riflette anche sul ruolo che ricopre la sillaba come unità percettiva all’interno di una
lingua piuttosto che in un'altra in italiano e francese la sillaba ricopre un ruolo percettivamente più
importante rispetto a lingue come l’inglese.
Quindi, potrebbe essere che nelle strategie utilizzate per il recupero dell’informazione associata ad
una parola si trovino delle differenze tra lingue appartenenti a classi ritmiche diverse.
Mehler e collaboratori si sono chiesti se questo diverso ruolo giocato dalla nozione di sillabe in
lingue come il francese e l’inglese avesse conseguenze anche su come noi percepiamo le parole.
Mehler, J., Dommergues, J. Y., Frauenfelder, U., & Segui, J. (1981)
Hanno testato soggetti adulti francesi, chiedendo loro di premere un tasto non appena udivano una
parola che conteneva una determinata sequenza di fonemi target [ba o bal] e hanno misurato i loro
tempi di reazione.
[Le sequenze ba e bal compaiono entrambe nelle parole francesi balcon e balance, ma in un caso
oltre a comparire come sequenza, costituiscono anche una sillaba, mentre nell’altro caso, pur
comparendo come sequenza non costituiscono anche una sillaba]
Predizioni: se una sillaba costituisce effettivamente un’unità percettiva, ci aspettiamo che i soggetti
saranno più veloci a individuare la sequenza target quando questa coincide con la sillaba.
Se il compito è individua ba, ci aspettiamo che i soggetti siano più veloci a individuarla in
balance piuttosto che in balcon balance << balcon
Se il compito è individua bal, ci aspettiamo che siano più veloci a individuarla in balcon
piuttosto che in balance balcon << balance
Risultati: confermano le ipotesi.
Cutler, Mehler, Norris & Segui (1986)
Indagano che cosa succede in inglese, e trovano che i soggetti inglesi non vengono avvantaggiati
nella ricerca della sequenza ba/bal in parole in cui questi segmenti costituiscono sillabe.
Strategie di accesso al lessico
I due studi di Mehler e collaboratori sul francese e sull’inglese suggeriscono che possano esistere
differenze tra come gli adulti che parlano lingue che appartengono a classi ritmiche diverse usino
strategie diverse nella percezione delle parole.
Tornando al problema iniziale, questo potrebbe suggerire che esistano strategie diverse: i francesi
potrebbero basarsi sulla sillaba per recuperare le parole; gli inglesi potrebbero utilizzare altre
strategie di segmentazione.
Ma, non è detto che sia così. In inglese non è ovvia la divisione in sillabe di una parola come
balance per il fatto che non è chiaro se il fonema /l/ appartenga alla prima o alla seconda sillaba e
questo potrebbe riflettersi anche sul modo in cui viene pronunciato il segmento iniziale.
Ossia, visto che il flusso del parlato è continuo, quando viene dopo influenza il modo in cui noi
pronunciamo anche i fonemi precedenti.
Coarticolazione
Mentre noi pronunciamo una parola, l’apparato vocale cambia continuamente forma, in maniera
fluida, preparandosi a pronunciare il suono successivo.
In particolare, se il suono successivo appartiene alla stessa sillaba, l’anticipazione
(coarticolazione) sarà maggiore. 39
Elementi di linguistica e psicolinguistica
Per cui, in italiano, non pronunciamo nella stessa maniera il segmento ba in balcone e balano,
perché nel primo caso nel pronunciare ba coarti coliamo la /l/ che appartiene alla stessa sillaba;
mentre, nel secondo caso, non l’anticipiamo perché appartiene a una sillaba diversa.
In particolare, da un punto di vista percettivo, la pronuncia del segmento ba non è la stessa nelle
varie parole testate.
Se in una parola come balance in francese la divisione sillabica è più netta, e quindi la /l/
appartiene chiaramente alla sillaba successiva, probabilmente il modo in cui il segmento ba viene
pronunciato “ritarda” la pronuncia della /l/. invece, in inglese, in cui la /l/ appartiene a entrambe le
sillabe, già nella pronuncia della ba l’apparato vocalico si sta preparando a pronunciare la /l/.
Quindi, potrebbe essere che i parlanti siano sensibili a differenze così sottili e che per questo
motivo i soggetti inglesi e francesi ottengano prestazioni diverse nei tempi di reazione richiesti per
identificare il segmento ba nelle varie parole.
Diversi studi dimostrano che siamo sensibili alle informazioni legate alla coarticolazione di suoni.
Per esempio, nel pronunciare la parola /voce/ articoleremo la parte finale della /o/ sulla base del
ʧ
suono che la segue, cioè /c/ (o meglio / /).
L’informazione legata alla coarticolazione viene utilizzata anche da chi percepisce uditivamente la
parola. Sulla base di questo indizio, infatti, l’ascoltatore compie costantemente anticipazioni
(predizioni) rispetto alla prosecuzione attesa della parola che pensa seguirà, dato l’input fino a quel
momento.
Marslen-Wilson & Warren (1994)
Obiettivo dello studio: indagare se e come viene utilizzata l’informazione legata alla
coarticolazione da chi percepisce uditivamente la parola.
Compito di decisione lessicale: devo decidere se la parola che sento è una parola nella mia
lingua oppure no, e devo farlo il più velocemente possibile. È una metodologia sperimentale molto
diffusa in cui il soggetto deve decidere se quella che gli viene presentata è una parola oppure una
non-parola nella sua lingua. Le non-parole sono di due tipi:
Parole “illegali”: parole costruite con una combinazione di suoni illegittima per quella lingua
[*rmup]
Pseudo - parole: parole costruite con una combinazione di suoni legittima per quella lingua
[*ormo]
Preparazione degli stimoli
1. Dall’onda sonora di /voce/ eliminano la /c/ e la sostituiscono con il suono /g/ per ottenere la
non-parola /voge/ [l’articolazione della /o/ mantiene i tratti coarti colatori che preludono
una /c/]
2. Dall’onda sonora della non-parola “vobe” sostituiscono il suono /b/ con /g/ per ottenere la
non-parola /voge/.
Due condizioni sperimentali:
VOGE1: dalla parola voce sostituiscono C con G mantenendo la coarticolazione originale
con la vocale: VO + C (che corrisponde a una parola in italiano)
VOGE2: dalla non-parola vobe sostituiscono B con G mantenendo la coarticolazione
originale con la vocale VO + B (che corrisponde a una non-parola in italiano)
Il compito è di decisione lessicale: dire se quella che si sente è una parola realmente esistente
oppure no.
Le due versioni di VOGE sono entrambe non parole, per cui ci aspettiamo che i partecipanti
rispondano “no” in entrambe le condizioni.
Tuttavia, VOGE1 è stata ottenuta mettendo insieme i pezzi di VOCE (la prima sillaba VO è stata
pronunciata come se dopo seguisse una c dolce) + GE mentre VOGE2 è stata ottenuta mettendo
insieme i pezzi di VOBE (quindi la prima sillaba VO è stata pronunciata come se dopo seguisse
una b) + GE.
Risultati: i soggetti ci mettono più tempo a decidere che VOGE1 è una non-parola rispetto a quanto
ci mettono a decidere che VOGE2 è una non-parola quando sentiamo VOGE1 pensiamo che
questa sia una parola e quindi ci mettiamo di più a rispondere no. Al contrario, quando sentiamo
VOGE2 ci accorgiamo subito che questa non può essere una parola reale dell’italiano e quindi ci
mettiamo meno tempo a rispondere no. 40
Elementi di linguistica e psicolinguistica
Questo esperimento dimostra che quando processiamo l’input acustico usiamo tutti i dettagli
disponibili nell’input per velocizzare la nostra ricerca di parole compatibili con esso e lo facciamo
immediatamente, appena il dettaglio è disponibile.
Se l’informazione è fuorviante, allora veniamo rallentati perché dobbiamo renderci conto che
“abbiamo sbagliato” ipotesi, pensando di ascoltare VOCE e incontrando poi invece VOGE.
Percezione uditiva
Ma quanto siamo sensibili alle informazioni acustiche mentre processiamo gli stimoli uditivi?
Avevamo visto che noi percepiamo i fonemi in maniera categoriale, anche se variano lungo un
continuo.
Adulti riconoscono in maniera categoriale i suoni /b/ e /p/, anche se il loro VOT viene variato in
modo continuo: fino a una certa soglia percepiamo /b/, dopo quella soglia, percepiamo /p/.
Gli esperimenti erano fatti con sillabe (/ba/ e /pa/), ed erano di tipo comportamentale: per gli adulti
il compito era di dire che suono sentivano.
Che cosa succede quando questi suoni sono presentati non all’interno di una sillaba ma all’interno
di una parola?
Ossia, se facciamo sentire due parole che variano solo perché la prima inizia con /b/ e la seconda
inizia con /p/, e variano il VOT di /b/ in maniera continua, aumentando il suo VOT fino a che il
suono si trasforma in /p/ cosa succede?
McMurray, B., Tanenhaus, M. K., & Aslin, R. N. (2002)
Materiali: coppie di parole la cui iniziale differisce solo per sonorità (bear/pear, beach/peach …),
variare il VOT del fonema iniziale /b/ di intervalli di 5 ms, partendo da 0 ms fino ad arrivare a 40
ms.
Metodo: ai partecipanti vengono presentate su uno schermo 4 immagini, e loro devono indicare
quella che corrisponde al nome che scelgono misura offline, di tipo comportamentale.
Mentre i partecipanti eseguono il compito, sono anche monitorati il loro movimenti oculari misura
online.
Eye tracking: è un dispositivo che rileva i movimenti compiuti dagli occhi mentre si svolgono dei
compiti. Quando si guarda qualcosa, gli occhi si spostano almeno 3/4 volte al secondo tramite
movimenti detti saccadi. Le saccadi durano circa un decimo di secondo, mentre le fissazioni
durano da 2 a 4 decimi di secondo. Questi movimenti continui sono alla base dei meccanismi del
sistema visivo solo la fovea riesce a ricevere un’immagine nitida; il resto dell’occhio riceve
immagini sfocate tanto più la parte in questione si allontana dalla fovea. È per questo motivo che
gli occhi si muovono continuamente all’interno del campo visivo. Il tempo necessario per
programmare una saccade è di 200 ms.
L’eye tracking viene usato per diversi scopi (psicolinguistica, linguistica, psicologia, economia
cognitiva, marketing …).
Nel momento in cui (in uno studio di psicolinguistica) si presentano, nella scena visiva, più
immagini, monitorare i movimenti oculari che compie un soggetto nell’eseguire un compito ci dà
indicazioni su quali immagini il soggetto prende in considerazione prima di raggiungere l’immagine
target.
Visual World Paradigm: un paradigm in cui a un soggetto viene presentata una scena visiva
(tipicamente, immagini sullo schermo di un computer) e gli si chiede di eseguire un compito,
espresso in forma verbale. Vengono misurati i movimenti oculari che il soggetto compie durante
l’esecuzione del compito.
Nello studio di McMurray, Tanenhaus & Aslin vengono registrati i movimenti oculari che i soggetti
compiono durante l’esecuzione del compito, in particolare prima di selezionare l’immagine
corrispondente al nome che hanno sentito.
Se la parola presentata è bear, le 4 immagini che vengono presentate al soggetto sono:
Immagine di bear Target
Immagine di pear Competitor
Immagine di ship Distractor
Immagine di lamp Distractor
Gli audio presentati sono
/bear/ VOT 0 ms /bear/ VOT 5 ms 41
Elementi di linguistica e psicolinguistica
/bear/ VOT 10 ms /pear/ VOT 30 ms
/bear/ VOT 15 ms /pear/ VOT 35 ms
/b/pear/ VOT 20 ms /pear/ VOT 40 ms
/pear/ VOT 25 ms
Noi sappiamo che, nel caso di sillabe ba/pa, gli adulti percepiscono ba fino a circa 20 ms; e
percepiscono pa dopo 20 ms, in maniera categoriale
Domanda sperimentale: anche per la percezione delle parole, si verifica il fenomeno della
percezione categoriale?
1. Dal punto di vista comportamentale, gli adulti scelgono consistentemente bear fino a VOT
di 20 ms, e poi consistentemente pear dopo i 20 ms? un altro gruppo di soggetti sentiva le
sillabe ba/pa con i 9 diversi VOT, e dovevano dire se hanno sentito ba e pa, i dati
(percezione di sillabe ba/pa e di parole bear/pear) vengono confrontati.
2. Prima di convergere sul target (bear o pear), gli adulti prendono in considerazione anche il
competitor fonetico (pear o bear)? E, in particolare, gli sguardi sul competitor aumentano
proporzionalmente al variare del VOT?
Risultati comportamentali: confermano la percezione categoriale; quando l’input uditivo varia lungo
un continuum, gli adulti percepiscono i suoni o come b o come p, sia se si tratta di sillabe, sia se si
tratta di parole vere e proprie selezionano fino ai 20 ms bear, e dopo i 20 ms selezionano pear.
Risultati movimenti oculari: si misurano le fissazioni compiute dal soggetto verso l’immagine target,
il competitor e i distractor, a partire dall’onset del nome (bear/pear).
Se la percezione è di tipo categorico, ci aspettiamo che le fissazioni verso il competitor siano
“uguali” per variazioni di VOT all’interno della categoria fonemica; se la percezione è di tipo
continuo, ci aspettiamo un effetto gradient, con le fissazioni verso il competitor che aumentano
all’avvicinarsi del VOT verso il competitor.
Visto che lo stimolo uditivo è stato presentato sotto forma di continuum, i risultati vengono
presentati separatamente:
Quando i soggetti sentono bear con VOT 0ms e pear con VOT 40ms, spostano lo sguardo
verso il target, anche se ci sono più sguardi al competitor che ai distractor.
Le fissazioni verso il competitor aumentano man mano che il VOT cambia: nel caso di bear,
più il VOT aumenta, da 0ms a 15ms, più a lungo i soggetti guardano verso il competitor
pear. Si tratta poi di un effetto di lunga durata, anche molto tempo dopo l’onset del nome.
Lo studio di McMurray, Tanenhaus & Aslin (2002) mostra che:
dal punto di vista comportamentale, la percezione delle parole avviene in maniera
categoriale; le persone indicano come target della parola sentita in base al confine
categoriale dei fonemi.
Il monitoraggio dei movimenti oculari, però, suggerisce che, a livello inconscio, il variare del
VOT venga percepito in maniera continua, gradiente, visto che più il VOT si avvicina al
confine categoriale, più i soggetti dirigono lo sguardo verso l’immagine competitor, e inoltre
questo effetto dura a lungo, suggerendo che la parola competitor rimanga attiva.
Ritornando alla questione della proprietà della discretezza del linguaggio, e della percezione
categoriale, questi risultati suggeriscono che variazioni continue nel VOT siano effettivamente
percepite dai soggetti.
E ci sono altri dati che vanno in questa direzione: Pisoni e Task (1974) hanno chiesto ai soggetti di
dire se due sillabe erano uguali o diverse; le sillabe testate, tra le altre, erano coppie di /ba/. E,
quando il VOT delle due sillabe /ba/ era diverso, i soggetti erano più lenti a rispondere (RT più
lunghi) rispetto a quando le due sillabe avevano lo stesso VOT.
Che cosa dicono questi risultati relativamente al problema di partenza, ossia come fanno le
persone a recuperare una parola dal lessico mentale?
I risultati qui presentati suggeriscono che: le persone cominciano a elaborare l’informazione
acustica immediatamente, appena sentono la b iniziale e inoltre che i movimenti oculari indicano
che ci sono delle fissazioni anche sull’immagine competitor e quindi che anche la parola associata
a pear venga in qualche modo attivata.
Se questo quadro è corretto, però, ne consegue che durante il processo che porta al recupero di
una parola, noi avremo attivati dei circuiti neurali che non c’entrano con la parola specifica che
stiamo ascoltando. 42
Elementi di linguistica e psicolinguistica
Come facciamo a sapere che l’ascolto di una parola porta all’attivazione anche di altre parole?
E come facciamo a sapere che tipo di parole vengono attivate, ossia quale tipo di relazioni
intercorre tra la parola target e le altre parole che attiviamo?
Il tipo di evidenza che abbiamo per assumere che esistano queste attivazioni è indiretto e deriva
ancora una volta da metodologie che misurano indici di comportamento online.
Compito di decisione lessicale diversi studi hanno dato indicazioni importanti su quali sono i
fattori che facilitano o ritardano questo compito.
È più facile (RT minori) riconoscere come non-parole sequenze illegittime di parole rispetto a
pseudoparole: fgtrusz < spangio
Fattori che influenzano RT
Concentrandosi adesso sulle parole realmente esistenti sono stati individuati molti altri fattori che
influenzano i tempi di reazione.
1. Frequenza parole più frequenti < parole meno frequenti
2. Età di acquisizione
parole imparate da piccoli < parole imparate successivamente
3. Lunghezza (tra 5-12 caratteri) parole corte < parole lunghe
4. Numero di vicini ortografici = il numero di parole di uguale lunghezza generabili da una
certa parola modificando una delle lettere che la compongono.
parole con tanti vicini ortografici > parole con pochi vicini ortografici
5. Contesto: una parola è riconosciuta più velocemente se inserita in un contesto che rende
tale parola “saliente” o “attesa”.
Contesto A: per rispettare la dieta, Anna dovette eliminare il burro [GRASSO]
Contesto B: dentro la pentola, la cuoca mise a scaldare un pezzo di burro [GRASSO]
contesto A < contesto B
Il recuperare una parola consiste nell’attivazione del corretto circuito neurale corrispondente. In
questo processo di recupero, vengono attivati anche altri circuiti neurali, che corrispondono a
parole che hanno una qualche somiglianza con la parola che si sta cercando.
Gli studi di psicolinguistica mirano a indagare quali siano le parole che sono simili alla parola che si
sta cercando, per avere una qualche evidenza di come è organizzato il nostro lessico mentale.
Per comprendere quali parole siano simili, vengono svolti degli studi per verificare appunto quali
fattori facilitino o ritardino dei compiti.
L’idea alla base è che quando si trovano dei fattori facilitanti, allora la parola da cercare è stata
pre-attivata; se si trovano dei fattori che ritardano il processo di recupero, allora qualche cosa ha
interferito nel processo. I dati sui fattori che facilitano o interferiscono nel compito di decisione
lessicale suggeriscono quindi che:
Se si tratta di non-parole, è più facile eseguire il compito quando queste contengono
sequenze illegittime per la propria lingua. Questo suggerisce che la nostra ricerca della
parola avviene basandosi linearmente su quanto ascoltiamo: appena incontriamo una
sequenza illegittima, possiamo interrompere la nostra ricerca; nel caso di pseudo parole,
invece, continuiamo la ricerca finchè non riusciamo a escludere che esistano parole che
hanno quella particolare combinazione di fonemi/grafemi.
Nel caso la parola target invece sia una parola, abbiamo visto che i fattori che influenzano i
tempi di risposta sono:
Frequenza: più una parola è frequente, più è facile recuperarla. Questo suggerisce
che i circuiti neurali corrispondenti a parole frequenti siano più facili da attivare; e,
conversamente, i circuiti neurali corrispondenti a parole più rare siano difficili da
attivare.
Età di acquisizione: se una parola è stata imparata da piccoli, è più facile
recuperarla, rispetto a una parola imparata in età più avanzata. Questo suggerisce
che i circuiti neurali corrispondenti a parole imparate da piccoli siano più facili da
attivare. 43
Elementi di linguistica e psicolinguistica
Lunghezza: le parole più corte sono più facili da recuperare rispetto a quelle più
lunghe. Questo suggerisce che la ricerca della parola proceda in modo
incrementale, e quindi più una parola è lunga più tempo ci si mette a recuperarla.
Numero di vicini ortografici: le parole che hanno tanti vicini ortografici sono più
difficili da recuperare rispetto a quelle che hanno pochi vicini ortografici. Nel
processo di recupero della parola target, noi siamo ritardati se ci sono tante parole
“simili” alla parola target, e questo suggerisce che le parole simili vengano
anch’esse attivate e ci sviano.
Contesto: una parola è riconosciuta più velocemente se inserita in un contesto che
rende tale parola “saliente” o “attesa”. Questo suggerisce che quando sentiamo una
frase vengono pre-attivate anche parole che sono nematicamente legate.
Concretezza: più una parola è concreta (più facile da immaginare) più è facile da
recuperare dal lessico, e quindi i tempi di reazione in un compito di decisione
lessicale sono più veloci rispetto a una parola che denota un concetto astratto. Il
fattore della concretezza/immaginabilità è ovviamente strettamente connesso con il
fattore della frequenza e al fattore dell’età di acquisizione.
Priming
Oltre che in semplici compiti di decisione lessicale, altre indicazioni importanti sull’organizzazione
del lessico provengono da compiti in cui si utilizza la tecnica del priming.
Il priming è un effetto (di solito di facilitazione, ma che può essere anche di interferenza) che si
ottiene sul tempo di risposta a uno stimolo (target) in conseguenza alla presentazione di un altro
stimolo (prime) ad esso precedente. L’effetto di priming si registra soprattutto in compiti di
decisione lessicale.
Tale effetto si può ottenere modulando diversi aspetti della parola prime (vicinanza semantica,
ortografica, fonologica, ecc …)
Il compito è di decisione lessicale, bisogna semplicemente dire se la parola target è una parola
vera o no. L’idea è che i soggetti siano più veloci a rispondere (RT minori) se quella parola è già
stata attivata, e quindi è più facile da riconoscere.
Per vedere quali parole attivino quali parole, si presentano prime diversi e di misura se c’è
facilitazione (o meno) nel compito di decisione lessicale a seconda dei vari tipi di prime presentati.
In un compito di decisione lessicale con presentazione preliminare di un prime si misura quale tipo
di prime rende i tempi di risposta per una parola target più veloci.
Se la presentazione di un prime rende i tempi di risposta per un target più veloci, assumiamo che
quel prime abbia pre-attivato il target; se la presentazione di un prime non facilita i tempi di
reazione, allora assumiamo che il prime non abbia pre-attivato il target.
L’effetto di priming si può ottenere modulando diversi aspetti della parola prime.
1. Vicinanza semantica: se la parola target è collegata semanticamente al prime che
presento, il compito di decisione lessicale è facilitato rispetto a un prime che non ha
relazione semantica.
2. Vicinanza ortografica: se la parola target è collegata per grafia o suono al prime che
presento, il compito di decisione lessicale è facilitato rispetto a un prime che non ha
relazione ortografica/fonologica.
Ma l’idea generale di base di questo tipo di compito è che se ottengo un effetto di facilitazione,
allora il prime ha pre-attivato la parola target; e, se l’ha attivata, significa che c’è una qualche
relazione tra prime e target, ossia le connessioni neurali tra prime e target sono in qualche modo
connesse.
Si tratta, quindi, di cercare di capire come è organizzato il nostro lessico mentale indirettamente,
ossia verificando quali parole attivano quali parole.
La tecnica del priming nella decisione lessicale può essere presentata visivamente oppure come
priming cross modale: il soggetto sente la parola prime appena prima che compaia sullo
schermo del computer la parola target su cui deve compiere la decisione lessicale.
Il primed può essere masse: il prime viene presentato per una durata infinitesimale (circa 50 ms, e
comunque al di sotto della soglia percettiva “cosciente” del soggetto) sovraimposto a una
“maschera” costituita da una serie di simboli.
Modelli di accesso lessicale 44
Elementi di linguistica e psicolinguistica
Le considerazioni su quali fattori facilitino o inibiscano compiti che richiedono il recupero di parole
hanno portato a formulare diversi modelli di accesso lessicale.
La differenza principale tra i vari modelli proposti riguarda la questione se gli individui procedono in
modo seriale o in modo parallelo nella ricerca della parola.
I modelli di tipo seriale assumono che, quando incontriamo una parola, cerchiamo tra le
entrate lessicale per determinare se la parola incontrata è effettivamente una parola o no,
se la troviamo, recuperiamo poi tutte le informazioni connesse con quella parola. L’assunto
fondamentale è che l’accesso lessicale richieda la ricerca di una parola per volta Modello
della Ricerca Autonoma.
I modelli di tipo parallelo assumono che l’input percettivo legato alla parola che si deve
cercare porti all’attivazione di più entrate lessicali: vengono attivati potenziali candidati
simultaneamente, e la parola effettiva che si seleziona è quella che condivide il maggior
numero di caratteristiche con la parola che si sente (o legge) Modello della Coorte di
Marslen-Wilson, modello connessionista di McClelland & Seidenberg e il modello di
Logogen di Morton.
Modello della Ricerca Autonoma
L’idea di Foster è che il lessico mentale corrisponda a una sorta di archivio centrale, che contiene
le parole più le informazioni ad esse collegate. Per accedere a questo archivio (e quindi identificare
la parola che si sta cercando, e recuperarne le informazioni associate) si possono utilizzare diversi
canali di accesso.
Metafora della biblioteca: i libri sono negli scaffali di una biblioteca. In una biblioteca, per trovare la
collocazione di un particolare libro posso utilizzare diversi canali. L’idea di Foster è che per trovare
una determinata parola, si possano utilizzare diversi canali ci si possa basare sulla ortografia,
fonologia, sintassi/semantica.
Tramite questi sistemi di accesso periferici, si riesce ad accedere all’entrata lessicale
corrispondente nel lessico mentale.
Gli archivi periferici sono insiemi ordinati di elementi che rimandano all’archivio centrale; ad
esempio, l’archivio fonologico contiene rappresentazioni fonologiche che permettono di recuperare
la parola che si cerca nell’archivio centrale; l’archivio ortografico contiene rappresentazioni
grafiche.
Gli archivi periferici sono a loro volta organizzati in bins (contenitori): per l’archivio ortografico, un
bin è un sottoinsieme di rappresentazioni ortografiche che cominciano con le prime 2/3 lettere, per
l’archivio fonologico, un bin è un sottoinsieme di rappresentazioni fonologiche che cominciano con
le stesse sillabe.
Nel Modello della Ricerca Autonoma di Foster l’accesso al lessico avviene in 3 fasi:
1. Ricerca negli archivi periferici: la rappresentazione percettiva completa dello stimolo che
viene percepito viene confrontata con rappresentazioni presenti negli archivi periferici.
2. Localizzazione: una volta identificata la forma nell’archivio periferico, questa “dirige”
(attraverso un meccanismo definito “puntatore”) verso l’entrata nell’archivio centrale, il
“master file” o lessico mentale.
3. Accesso all’entrata lessicale corrispondente all’input nel master file: gli elementi
nell’archivio centrale sono tra loro associati. Quando viene trovata una rappresentazione e
l’entrata corrispondente nell’archivio centrale, le rappresentazioni unite alle entrate
associate a quell’entrata vengono raggruppate in un bin.
Per spiegare gli effetti di facilitazione visti precedentemente, Foster assume che:
Negli archivi periferici, gli elementi di ogni bin sono ordinati in base alla loro frequenza (le
parole più frequenti sono quelle più facilmente accessibili);
Più una parola è lunga, più tempo ci si metterà a identificarla nel bin dell’archivio periferico.
Per spiegare gli effetti di priming semantico, Foster ricorre all’organizzazione dell’archivio centrale,
dove le entrate semanticamente collegate sono associate, e quando si accede a una di queste,
quelle collegate vengono raggruppate in un bin.
Non sono invece previsti effetti di facilitazione del contesto, che non gioca alcun ruolo in questo
modello. Inoltre, questo modello è seriale, per cui assume che vanga recuperata una parola per
volta (e quindi non sono previste attivazioni multiple di parole).
Modello della Coorte 45
Elementi di linguistica e psicolinguistica
Il Modello della Coorte è specifico per il riconoscimento di parole presentate uditivamente; presta
attenzione al corso temporale del processo di riconoscimento delle parole. Il tempo necessario per
riconoscere una parola è in stretta correlazione con la porzione di parola che si deve ascoltare
prima che diventi distinguibile in modo inequivocabile.
Quando si sente una parola si attivano tutte le parole che iniziano con lo stesso segmento
acustico, cioè che sono consistenti con l’input fonologico in entrata questo insieme è la coorte di
candidati al riconoscimento.
Man mano che una nuova informazione viene presentata vengono abbandonati i candidati che non
sono più compatibili con l’informazione acustica in entrata, fino a che si rimane con un unico
candidato che corrisponde a quella data sequenza di suoni.
Il processo di riconoscimento della parola si articola in 3 fasi:
1. Fase di accesso: l’input fonologico attiva il set di candidati compatibili (coorte) con la
parola.
2. Fase di selezione: si identifica l’unico candidato compatibile con l’input fonologico. In
questa fase è anche prevista una certa influenza del contesto, nonché una certa attivazione
di entrate lessicalmente simili, sempre per spiegare gli effetti di facilitazione o inibizione.
3. Fase di integrazione: la parola scelta viene integrata nella rappresentazione complessiva
della frase, considerando anche le sue caratteristiche sintattiche e/o semantiche.
Le maggiori differenze tra il Modello della Ricerca Autonoma e il Modello della Coorte sono che:
Secondo il Modello della Ricerca Autonoma la ricerca di una parola nel lessico è seriale
mentre secondo il Modello della Coorte, man mano che si procede, vengono attivati tutti i
candidati possibili, la coorte di alternative.
Secondo il Modello della Ricerca Autonoma il contesto non gioca alcun ruolo nella
identificazione delle parole; mentre secondo il Modello della Coorte il contesto può influire
nel processo di selezione del candidato “giusto” all’interno della coorte.
Per verificare quale modello facesse predizioni più accurate su come funziona effettivamente il
processo di recupero di una parola dal lessico sono stati condotti vari esperimenti.
Zwitserlood (1989)
Ha condotto un esperimento per testare in particolare due predizioni che derivano dal modello
della coorte:
1. Nel momento in cui si sente uditivamente una parola, le alternative che appartengono alla
sua coorte vengono effettivamente pre-attivate?
2. Se presentiamo un contesto che favorisce un’interpretazione, gli individui sfruttano questi
inizio? E in aule punto?
Per testare la prima ipotesi ha utilizzato la tecnica del priming cross-modale in un compito di
decisione lessicale: ha presentato uditivamente un prime, e ha presentato visivamente un target
(la parola da riconoscere come parola o non parola). Sappiamo che la presentazione di un prime
semanticamente collegato alla parola target facilita il compito di decisione lessicale, ossia le
persone sono più veloci a rispondere. Questo dato è stato interpretato come evidenza del fatto che
la parola da riconoscere venga “pre-attivata” dal target.
Ma la Zwitserlood voleva testare le predizioni del Modello della Coorte, ossia verificare se nel
momento in cui si sente una parola, vengono man mano attivate anche le parole possibili
compatibili con quanto ascoltato fino a quel momento.
Per farlo, per ogni prime effettivo ha scelto due diverse parole target: una parola target legata con
il prime effettivo; l’altra parola target legata semanticamente con’un alternativa della coorte della
parola prime.
Ad esempio, per il prime CAPITANO è stata presentata la parola target NAVE per un gruppo di
soggetti; e la parola target SOLDI per un altro gruppo. Infatti, una delle alternative della coorte di
capitano è CAPITALE (legata semanticamente a soldi).
E quindi, se gli individui mentre ascoltano la parola CAPITANO attivano anche le alternative della
sua coorte, tra cui CAPITALE se il modello della coorte è corretto ci aspettiamo una facilitazione
anche nel riconoscimento della parola target SOLDI (oltre che per NAVE).
L’idea quindi è quella di presentare uditivamente la parola prime CAPITANO, e i due target sono
stati presentati visivamente in 4 momenti distinti:
1. Quando veniva pronunciata solo la prima sillaba CA- 46
I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Giu1603 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Elementi di Linguistica e Psicolinguistica e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Milano Bicocca - Unimib o del prof Panzeri Francesca.
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