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Il meccanismo di controllo e di approvazione della legge di bilancio e delle singole leggi di spesa definisce un
sistema di pesi e contrappesi in equilibrio. Le limitazioni alla spesa e all’indebitamento si inscrivono in un
circuito informativo e decisionale in grado di assicurare l’allocazione efficiente delle risorse disponibili in un
contraddittorio parlamentare sulle alternative di impiego possibili. Con il divieto di introdurre nuovi tributi e
nuove spese con l’approvazione della legge di bilancio si vuole che tali decisioni vengano prese in modo
puntuale consentendo una comparazione precisa tra i costi e i benefici attesi. Il bilancio dello Stato deve essere
in pareggio sostanziale, e non è consentito l’indebitamento per far fronte alle nuove spese (che devono essere
coperte con entrate reali).
Nel 1958 con l'adesione dell'Italia al Trattato di Roma le disposizioni della costituzione economica vengono ad
integrarsi con quelle del nuovo ordinamento giuridico sopranazionale. Man mano che si procede nella sua
costruzione, l'ordinamento comunitario passa da una iniziale posizione agnostica ad una netta e chiara
opzione per il modello di costituzione economica democratico-liberale. È utile ricordare che l'impianto
originario del 1957 è rimasto immutato fino alla revisione del 1986 con l'Atto Unico Europeo che ha rilanciato
il processo di integrazione economica, che si conclude con la messa a regime del Trattato di Maastricht. Ai fini
della costruzione si distinguono i seguenti periodi.
Costruzione del mercato comune delle merci (1958-70)
Stasi per shock petrolifero e dei cambi, con politiche protezionistiche nazionali (1970-80)
Recupero stabilità con introduzione del sistema monetario europeo (1980-86)
Completamento mercato interno dei servizi finanziari e dei capitali (1986-92)
Coordinamento delle politiche di bilancio, unione monetaria (1992-2002)
Globalizzazione finanziaria e destrutturazione del mercato interno (2002-oggi)
Con la liberalizzazione dei movimenti e servizi finanziari, la concorrenza che si genera nel mercato dei capitali
vincola maggiormente le politiche dei singoli Stati alla tutela del risparmio e al rispetto dei macroequilibri
finanziari interni. L'integrazione dell'ordinamento comunitario con quello degli Stati membri, e quindi il suo
impatto sulla costituzione economica nazionale, poggia su due principi: il primato del diritto comunitario e la
sua immediata applicazione negli Stati membri, ponendosi dunque come una costruzione giuridico-
istituzionale del tutto originale e autonoma e sovrana nel proprio ambito di applicazione. Nonostante ciò,
l'impatto originario del diritto comunitario sulle costituzioni economiche degli Stati membri è stato piuttosto
contenuto: nel periodo iniziale, avendo un impatto limitato alle merci, non accresce la libertà economica già
riconosciuta ai singoli cittadini degli Stati membri ma si limita ad espandere territorialmente il mercato.
L’agnosticismo del diritto comunitario rispetto ai modelli di costituzione economica è dimostrato dal fatto che,
al termine del periodo transitorio nel 1970, l’assetto del mercato comune delle merci appare un modulo
organizzativo interconnettibile con i diversi modelli di costituzione economica vigenti negli Stati membri..
L’impatto economico è invece assai rilevante, ed è lo stimolo principale per proseguire nel processo di
integrazione. In questa prima fase il diritto comunitario impone l'abolizione delle dogane, delle imposte
doganali e dei monopoli commerciali. Il Trattato struttura il principio di libertà di commercio come un diritto
fondamentale limitabile esclusivamente per contrasto con altri diritti fondamentali della persona o con
esigenze di rilevante interesse generale (sentenza Cassis de Dijon, che afferma anche il principio del mutuo
riconoscimento delle normative tecniche tra gli Stati membri, per superare l'impasse dell'uniformazione
tenendo conto delle diverse normative nazionali).
La politica della Commissione in questa fase è poco propensa a contrastare l’intervento pubblico
nell’economia, tranne per la riduzione e ristrutturazione dei monopoli pubblici di natura commerciale e fiscale.
È sostanzialmente assente nella fase di avvio una qualsiasi politica diretta o indiretta di contenimento del ruolo
dello Stato programmatore e finanziatore del sistema imprenditoriale nazionale. La libertà di circolazione e di
stabilimento delle persone è riconosciuta pienamente solo ai lavoratori subordinati, con la piena garanzia della
non discriminazione di trattamento giuridico ed economico negli altri Stati membri. Per lo svolgimento delle
attività professionali non si sono fatti passi avanti alla fine del periodo transitorio, in quanto il riconoscimento
dei titoli di studio e professionali appare di difficile attuazione. Anche per le persone giuridiche il diritto di
stabilimento in qualsiasi Stato membro è ostacolato dalla diversità di normativa a livello nazionale. La libertà
di circolazione dei capitali rimane una norma meramente programmatica fino al 1986: non ci sono fasi di
realizzazione e neanche scadenze finali. Questa cautela deriva dalla volontà degli Stati membri di
salvaguardare l’autonomia nelle decisioni di politica economica e monetaria: tale liberalizzazione avrebbe
potuto causare improvvisi squilibri nelle bilance dei pagamenti con una tendenza migratoria dei capitali verso
il Paese con differenziale più conveniente tra inflazione e tasso d’interesse. Nell’originaria visione del Trattato
il principio del coordinamento debole prevedeva che i governi nazionali, prendendo atto della progressiva
integrazione dei mercati, realizzassero gradualmente un ravvicinamento e un coordinamento delle loro
politiche economiche, in modo da passare senza traumi alla liberalizzazione dei movimenti di capitali, anche
quelli puramente speculativi. La crisi di Bretton Woods determinerà un brusco risveglio dalla visione di una
naturale progressiva integrazione dei mercati a partire da quella delle merci, determinato dalla fluttuazione
reciproca delle monete europee, determinando rischi di cambio negli scambi commerciali e minando il
mercato delle merci. La consapevolezza di non poter realizzare la stabilità dei cambi senza il coordinamento
delle politiche di bilancio e di controllo della spesa pubblica porta al ribaltamento con l’Atto Unico delle fasi
previste dal Trattato (rivoluzione copernicana) e sblocca una liberalizzazione rimasta ferma per venticinque
anni, innescando processi di adattamento spesso traumatici.
La Carta costituzionale del 1948, innestandosi nella continuità giuridico-istituzionale dello Stato italiano in
modo non traumatico, subisce il contraccolpo del pregresso ordinamento. La continuità dello Stato è in primo
luogo continuità dell’ordinamento giuridico, il che significa che il diritto vigente nel periodo precedente
continua ad avere applicazione anche nel nuovo ordinamento. In secondo luogo la continuità dello Stato è
continuità sia di rapporti giuridici interni allo Stato, sia di rapporti verso i cittadini anche nei rapporti economici
in corso e nelle obbligazioni. Si realizzò, in altri termini, una specie di successione a titolo universale della
Repubblica alla monarchia, con la conseguenza che la lettura della costituzione formale va integrata e in
notevole misura adattata tenendo presente la curvatura deformante che la sua interpretazione ha subito per
effetto della continuità istituzionale. Lo spazio delle libertà costituzionali è, da questo punto di vista,
immediatamente sotto pressione: mentre le libertà personali e politiche sono protette con la doppia riserva
di legislazione e di giurisdizione, quelle economiche subiscono un sostanziale arretramento. Il colpo di coda
del pregresso ordinamento è stato sicuramente aggravato dalla ritardata operatività della Corte
Costituzionale, che entrerà in funzione solo nel 1956. Nel corso di questi 8 anni, stante l’impossibilità del
giudice ordinario di disapplicare la legge ritenuta in contrasto con la Costituzione, la sua lettura è stata
depotenziata dall’affermarsi di una concezione programmatica, secondo cui leggi ordinarie contrastanti con
norme di rango costituzionale fossero insindacabile il giudice e dunque pienamente vigenti. La forte spinta del
vecchio ordinamento è destinata a ridurre la portata innovativa della Costituzione repubblicana, la cui lettura
verrà piegata alla logica della continuità con effetti che si devono considerare ormai assimilati anche nella
successiva interpretazione della Corte Costituzionale. La continuità istituzionale fa sentire il suo peso in
particolare nell’insieme dei diritti economici, che continuano ad essere indistintamente qualificati come
interessi legittimi. Questo ha posto le basi per la negazione del diritto di accesso al mercato e per la potenziale
limitazione dell’attività economica privata per azione dello Stato. Il legislatore ha disciplinato l’accesso al
mercato ben oltre i limiti previsti dall’art. 41, sottoponendo l’iniziativa economica privata a forme di esclusione
oltre che di programmazione dell’accesso. In un sistema come quello italiano, ad alto tasso di legislazione,
questa degradazione dei diritti economici consentirà un’espansione della legislazione ordinaria economica
ispirata diverse finalità sociali e interessi pubblici, sottoponendo le attività economiche a controlli e ingerenze
invasivi della libertà d’impresa, subordinando di fatto le scelte imprenditoriali al beneplacito burocratico.
Ugualmente, l’assimilazione dei diritti sociali alla categoria degli interessi legittimi ha comportato la loro
degradazione a situazioni giuridiche non risarcibili dallo Stato, finendo per ledere anche qui i significativi casi
in cui, in base al dettato costituzionale, sarebbe doveroso il riconoscimento di una prestazione obbligatoria a
carico dello Stato. Il costituente, consapevole del rischio di questa degradazione, aveva espressamente
equiparato interessi legittimi e diritti soggettivi ai fini della tutela contro gli atti della PA (art. 113), disposizione
completamente ignorata. Per questo si affermano duplice qualificazione della libertà di iniziativa economica e
del diritto di proprietà: diritti soggettivi nei rapporti tra privati, ma semplici interessi legittimi nei rapporti con
i pubblici poteri. Tale concezione depotenziata dei diritti economici nei confronti dello Stato è durata,
costantemente ribadita in giurisprudenza e dottrina, fino al suo abbandono ad opera della sentenza n.
500/2000 della Corte di Cassazione, che a Costituzione invariata ha riconosciuto il diritto risarcimento anche
per gli interessi legittimi. Al fine di assicurare la piena tutela dei cittadini, il costituente aveva chiaramente
affermato la responsabilità civile dei funzionari dipendent