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Una responsabilità ex lege Aquilia sia per i danni previsti nel capo I sia per quelli contemplati nel III, in tanto poteva
sussistere in quanto l’occidere, l’urere, il frangere, il rumpere fossero stati realizzati iniuria.
Le fonti hanno cura di specificare che qui iniuria non va inteso nel senso, proprio dell’actio iniuriarum, di contumelia, ma
nel significato di non iure e quindi di contra ius, con un richiamo cioè all’antigiuridicità dell’azione. A questo proposito va
osservato come l’obiettivo della legge non fosse quello di sanzionare un comportamento in quanto causa di un danno
ingiusto, ma piuttosto quello di colpire un atto che, indipendentemente dall’intenzione del soggetto che l’ha posto in
essere, entrava direttamente, fisicamente, in collisione con l’oggetto leso che è qualificato come altrui. Il comportamento
legislativo della sfera altrui era non iure dal momento che chi lo aveva tenuto non aveva diritto di agire in quel modo e
quindi era non iure ogniqualvolta non trovasse nel ius una propria giustificazione.
Una causa di giustificazione, verosimilmente tra le più antiche, era la legittima difesa alla cui base si ravvisava addirittura
una naturalis ratio. Essa era consentita sia per difendere la propria persona, sia per difendere i propri beni. Nel caso di
attentato all’integrità del patrimonio, la liceità dell’uccisione dell’aggressore era peraltro limitata. Occorreva infatti che non
fosse possibile catturare l’aggressore senza pericolo per l’incolumità fisica dell’aggredito.
Anche lo stato di necessità era già considerato dai giuristi romani come causa di giustificazione di un comportamento
dannoso. Lo stato di necessità viene rappresentato nell’esemplificazione contenuta nelle fonti come una situazione di
pericolo per sé o per i propri beni, non determinata però da un’aggressione altrui. Vengono fatti al riguardo gli esempi
dell’incendio sviluppatosi nelle case vicine che minacciava la casa di colui che ha agito, della nave incagliatasi nelle funi
di un’altra imbarcazione o nelle reti dei pescatori, del carro sospinto per una salita che improvvisamente si è messo a
retrocedere e che, non più sostenuto da coloro che rischiavano di essere travolti, ha investito il carro che seguiva,
contribuendo così a schiacciare coloro che si trovavano dietro di questo.
Di una situazione di necessità che legittimava la distruzione di un bene altrui per salvare il proprio si era già occupato
Servio. È lecito chiedersi se nell’ottica di questo giureconsulto lo stato di necessità possa configurarsi come una vera e
propria causa di giustificazione. Perché ricorra quest’ultima figura, non solo secondo i moderni ordinamenti, ma come già
risulta implicitamente dalle esemplificazioni contenute nelle fonti romane, era necessario che ci fosse un soggetto
patrimonialmente danneggiato dall’atto che si vuole giustificare. Per Servio parrebbe invece non solo che il giudizio sulla
liceità del comportamento dovesse essere dato ex post, una volta accertato cioè che effettivamente che il fuoco era
pervenuto alla casa del vicino, ma che la liceità stessa dell’atto fosse condizionata dal fatto che, sulla base di quel
giudizio ex post, la casa sarebbe comunque andata distrutta dal fuoco.
Requisito indispensabile per l’esistenza della causa di giustificazione era poi che non vi fossero alternative per salvare i
propri beni. La minaccia doveva essere effettiva, secondo canoni obiettivi da valutarsi, almeno secondo Celso ed
Ulpiano, ma verosimilmente già secondo Labeone, al momento del fatto e non con giudizio ex post. È il caso di notare
come dagli esempi ricordati nel Digesto sembrerebbe che il bene distrutto dovrebbe avere un valore uguale o minore di
quello salvato.
Pure il legittimo esercizio delle proprie ragioni che configurasse un atto di autotutela escludeva l’esistenza di un damnum
iniuria datum. Così secondo un rescritto di Alessandro Severo commentato da Ulpiano, non era perseguibile l’atto di
colui che avesse parzialmente demolito l’altrui acquedotto, purché la condotta fosse stata prolungata sul proprio terreno
al di là dei limiti della servitù.
Anche un atto della pubblica autorità esimeva da responsabilità il magistrato che con esso avesse cagionato un danno
ad un terzo: era tuttavia necessario che l’atto fosse stato compiuto nel rispetto delle condizioni previste per il legittimo
esercizio di potersi astrattamente conferitigli. Inoltre l’esonero da responsabilità era strettamente limitato a quegli atti
necessari per il compimento della pubblica funzione; così, ancora non poteva essere convenuto con l’azione aquiliana il
magistrato cui spettava la cura della pubblica viabilità, che avesse distrutto iure masserizie poste sulla pubblica via. Era
invece convenibile un magistrato che, dopo aver legittimato pignorato dei beni, li avesse lasciati deperire o li avesse
successivamente danneggiati.
L’esonero da responsabilità è sinteticamente riassunto da Alfeno Varo in base al fatto che mancherebbe qui la
colpevolezza e l’evento di danno è avvenuto casu. Al di sotto di questa espressione è però implicita la concezione per
cui l’ipotesi del ferimento appare come una conseguenza possibile implicata dalla natura stessa dello sport.
Correlativamente è anche implicito il giudizio di liceità del gioco e quindi della condotta pericolosa insita in esso,
pericolosità di cui gli stessi giocatori sono consapevoli nel momento in cui prendono parte alla contesa e di cui dunque
accettano pure i rischi.
Sempre con riferimento alla causa di giustificazione consistente nell’esercizio di un’attività sportiva, vi è da rilevare
tuttavia come non risulti conosciuto dall’esperienza romana un temperamento all’esonero da responsabilità ricollegabile
al mancato rispetto delle regole del gioco. È peraltro possibile che ciò dipenda dall’assenza di prescrizioni sportive
vincolanti. La culpa.
Nella tarda età repubblicana, nell’ambito dell’interpretatio giurisprudenziale, si precisò il concetto di iniuria, passandosi
da una considerazione puramente oggettiva a considerazioni di carattere soggettivo con l’emersione del concetto di
culpa. In questo contesto, si ritiene sia esatto sostenere che culpa riassuma il profilo dell’illiceità propria dell’iniuria,
determinandola in un ambito più limitao, della riprovevolezza soggettiva. Culpa non allude dunque al mero rapporto di
causalità tra l’atto dannoso e la persona che lo ha compiuto; si giunge piuttosto ad affermare che il comportamento non
è giustificato quando si è verificata la causazione di un danno mediante una condotta riprovevole. Rientrano in questo
contesto sia quei casi in cui il soggetto pur avendo alternative al suo comportamento non le abbia volutamente scelte per
danneggiare consapevolmente un bene altrui, sia quelli in cui non abbia tenuto il comportamento alternativo per
trascuratezza od incapacità, sia infine quelle ipotesi in cui l’autore del danno si è trovato nella fattispecie concreta senza
una reale alternativa e la sua culpa risiede appunto nel fatto di non avere alternative, come può avvenire nel caso del
soggetto che si comportò come se avesse una particolare perizia nell’ambito dell’attività intrapresa. In altre parole culpa
esprime la riprovevolezza della condotta che, in quanto riprovevole, appare ingiustificata e proprio per ciò la nozione di
culpa rientra nel concetto di iniuria.
A proposito di questa innovazione interpretativa si è anche pensato che mentre in origine l’onere della prova sarebbe
spettato al convenuto, che doveva provare di avere diritto a tenere quel comportamento dannoso, successivamente,
introdottosi il criterio della culpa, l’onere della prova si sarebbe spostato sull’attore a cui spettava di dimostrare che il
convenuto si era comportato con dolo o colpa.
È anche probabile che diversi siano stati i motivi che conducessero a questo affinamento interpretativo. Innanzitutto è
verosimile che su di esso abbia influito la precisazione delle cause di giustificazione che subirono un processo di
limitazione e di tipicizzazione; diventava così difficile provare concretamente di avere diritto a tenere un certo
comportamento che non ricadesse in alcuna di quelle scriminanti; inoltre il ricorso al criterio della culpa consentiva di
tener conto in modo più soddisfacente di alcune circostanze individuali come stato mentale, abilità e perizia del soggetto
danneggiante, sue condizioni fisiche. In questo contesto la culpa appare come una riflessione ed un approfondimento
del concetto di iniuria o meglio, come un mezzo per verificare, laddove non si sia in presenza di una causa di
giustificazione ormai tipizzatasi, se la condotta possa ritenersi giustificata oppure se il comportamento debba ritenersi
non iure.
Le fonti, seppur in età tardo classica, giungono talvolta a parlare di damnum culpa datum, anziché di damnum iniuria
datum.
Nel contesto così delineato, culpa coincide dunque genericamente con un concetto di colpevolezza che presuppone una
capacitas iniuriae e consente quindi di escludere da ogni responsabilità colui che suae mentis non sit, cioè il pazzo, il cui
danno è paragonato, sotto questo aspetto, a quello dell’animale; analogamente è esente da responsabilità l’infans,
mentre l’impubes infantia maior sarebbe sempre responsabile per Labeone, per Ulpiano lo sarebbe invece solo se
dotato della capacitas iniuriae, da accertarsi caso per caso.
All’interno di questa nozione di culpa avente carattere generale, la giurisprudenza ebbe cura di specificare due diversi e
più specifici elementi soggettivi: il dolo e la colpa, intesa quest’ultima in senso distinto da quello appena esaminato di
colpevolezza.
Dolus non implica problemi. Esso allude alla premeditazione e quindi alla volizione del danno che deriva dalla propria
azione, non bastando invece a configurarlo la semplice volizione del solo comportamento dannoso; dolus si riferisce
quindi all’intenzione cattiva. Diversamente culpa allude alla circostanza che il danno è stato cagionato perché l’autore di
esso non ha tenuto un comportamento conforme a criteri oggettivi di diligenza tipici del bonus pater familias. La condotta
diventa quindi riprovevole proprio in quanto ci si è scostati da un modello di comportamento alternativo che il soggetto
poteva tenere o che comunque si era in diritto di attendere da lui.
Nell’ambito del contesto così delineato, pure la infirmitas, e cioè l’idoneità fisica, o l’imperitia, la capacità tecnica,
potranno dar luogo a culpa anche qualora il sogget