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Noi vediamo solo l’ultima tappa, nel mare. Le persone che sono morte in mare sono comunque
tantissime, più di 23.000 dall’inizio dell’anno. Comunque un altro gran numero non lo vediamo, e sono
dispersi nel deserto. Altro più gran numero sono le persone in carcere in Somalia od in Eritrea, o dispersi
nel Darfour.
Non vediamo tutte le persone morte o disperse in Siria, Giordania, in Libano.
È stato aperto un canale umanitario si richiesta dell’Onu per 12.000 persone, ma non è sufficiente.
Quando si chiudono le vie legali, si cerca una via illegale.
È un business diventato molto redditizio.
I gommoni utilizzati dai trafficanti di migranti sono importati dalla Cina. Sono arrivati ora in Libia container
pieni di gommoni dalla Cina. Ovviamente i viaggi si sono fatti più pericolosi.
I trafficanti, per paura della polizia libica, lasciano i migranti a circa 50 km dal confine ed indicano la
strada per Kufra. Ma nel viaggio verso la città, molte persone muoiono nel deserto.
Roland Barthes dice che la violenza è tale perché è insignificabile, nell’ordine del non senso totale. È un
fotografo ed intellettuale che riflette sulle foto shock, perché il XXI secolo ci ha lanciato un’infinità di
immagini che tolgono il fiato, che obbligano ad una posizione ambivalente: la foto shock è una foto che
non vorremmo guardare ma che in realtà continuiamo a guardare, non riusciamo a distogliere lo sguardo
e mentre guardiamo ci diciamo che non possiamo vedere queste cose. C’è una dimensione della violenza,
dell’orrore e dell’atrocità che va conosciuta. C’è una dimensione vueristica.
Iniziamo a dire qualcosa sulla responsabilità del sistema occidentale, ma anche della responsabilità di un
sistema interno. La prima questione che si pone forte e che assume la dimensione del trauma è che qui la
violenza deriva da un connazionale, da un libico che fino a qualche anno prima era un “vicino”. La
violenza arriva dall’interno.
Ci sono immagini altrettanto shoccanti che fanno vedere come in Libia si eserciti su questi corpi migranti
che sono riusciti ad arrivare vivi in Libia e che stanno aspettando di salire sui barconi forme di violenza
arbitraria. Ciò che va detto con forza è che questa non è una violenza che arriva da un nemico lontano, è
una violenza che può arrivare da qualcuno con cui si condivide la lingua, la religione, fino a qualche
attimo prima ci aveva aiutato e poi passa dall’altra parte, magari perché non ha i soldi per il viaggio e
quindi decide di diventare piccolo scafista per pagarsi il viaggio per l’Europa. Quindi è una violenza a tutti
i livelli.
Con un parallelismo storico un po’ forzato, è una violenza alla quale le popolazioni dell’Africa
Subsahariana sono esposte da tempo. Quando noi paragoniamo queste migrazioni forzate alla schiavitù di
qualche secolo fa, stiamo sicuramente facendo un errore storico, ma in un punto c’è qualcosa che deve
farci riflettere: se la schiavitù ci ha insegnato qualcosa è che certamente la violenza veniva portata da un
sistema che era quello europeo di espansione imperialistica che aveva bisogno di schiavi dall’altra parte
dell’Atlantico, ma chi esercitava la violenza di villaggio in villaggio e di città in città erano senegalesi, le
popolazioni del Golfo di Guinea. Era una violenza che veniva esercitata dall’interno: i capi villaggio si
liberavano delle persone indesiderate facendole prendere ai portoghesi, un padre che aveva tanti figli e
non sapeva come distribuire le terre ai figli più piccoli, dava i cadetti in schiavitù.
La violenza con cui siamo costretti a confrontarci è contemporaneamente la violenza che arriva
dall’esterno e dall’interno: il nemico diventa intimo, dice qualche autore, il nemico diventa qualcuno che
fino a poco prima era il vicino di casa con cui si andava a lavorare nei campi.
Queste persone stavano scappando da un sistema di violenza politica interna al loro Paese, si
sottopongono ad un sistema di violenza interno gestito da connazionali o da persone legate ad un’area “di
famiglia”, e poi si espongono alla violenza del sistema asilo in Europa.
È in questa cornice che va poi collocato il trauma: abbiamo un accumulo e sovrapposizione di esperienze
violente, straordinarie, non attese, ed allora il primo punto da mettere è che il trauma di cui parlano gli
psicologi è spesso una categoria semantica riduttiva, perché noi siamo alla ricerca di una sola esperienza
traumatica, di una esperienza che ha sconvolto l’esistenza, quando queste persone in realtà si ritrovano a
dover vivere una sommatoria di esperienze traumatiche, e quando si aspettano che quella che sia l’ultima
e poi sia finito, in realtà il sistema continua a produrre violenza.
Il trauma a cui si deve pensare in questi scenari è un trauma che si fa plurale e soprattutto dobbiamo
guardarlo nella sua complessità, non pensare che il trauma sia solo quello del Paese d’origine, di qualcosa
che è accaduto nel Paese d’origine, ma dal Paese di origine guardare il viaggio e poi guardare come
funziona il sistema di accoglienza.
Quando una giovane ragazza etiope, alla domanda un po’ ingenua e banale, nel primo colloquio con lo
psicologo, “Parla di quello che adesso non ti fa dormire e non ti fa star bene”, racconta che il tuo
problema è stato, quando è arrivata nel centro CARA di Crotone, l’aver ricevuto un solo pezzo di sapone
per lavarsi, lavare i panni sporchi, le parti intime, per due settimane. Per lei quello era diventato la
violenza massima. È credibile? Contando che era partita dall’Etiopia, era stata nel centro di detenzione di
Kufra, costruito grazie ai finanziamenti europei, è passata da Tripoli, ha raccontato due esperienze di
stupro da parte di connazionali, poi è arrivata in Italia, poi a Torino è stata nuovamente oggetto di stupro
da parte di un altro connazionale (ecco la violenza interna quando pensava di essere arrivata). Dove si
colloca questa risposta, che pure è autentica e sincera? Sembra che non voglia dire la verità? O forse sta
insegnando qualcosa del trauma? O forse sta insegnando che alcune esperienze le aveva messe in conto
prima di partire, in quanto donna, sola. Ed allora, quello che fa trauma per lei non è la violenza in sé. Ma
la violenza che arriva e che non ti aspetti. Perché quella che ti aspetti e metti in conto è un’altra cosa. La
violenza, per lei, è quando arrivi in Italia e pensi che tutto sia finito e ritrovarsi in un centro, detenuta, a
lavarsi con un pezzo di sapone.
È stato uno storico italiano che ha lavorato in Etiopia che ha detto che, anche se non è la regola, in
Etiopia, il momento di lavarsi è molto importante: non si usa lo stesso sapone per lavare le cose sporche,
parti intime ed altre parti del corpo e non si usano neanche le stesse mani per mangiare e lavarsi.
Quindi, forse, questa donna sta cercando di raccogliere l’esperienza di lei che ha dovuto lavarsi i panni, il
corpo, non sappiamo quanto si senta sporca, e non sappiamo quanto quell’unico pezzo di sapone per lei
diventa il simbolo di qualcosa che non poteva essere cancellato.
Un docente di letteratura inglese dice, in un lavoro molto prezioso sul trauma, che il trauma introduce una
nuova ignoranza tra di noi. Noi del trauma non sappiamo assolutamente nulla, non sappiamo che cosa fa
trauma per le persone, non sappiamo neanche che cosa fa trauma per noi, figuriamoci se sappiamo che
cosa fa trauma per gli altri. C’è una nuova ignoranza, e per imparare qualcosa di questa nuova ignoranza,
e per imparare qualcosa di questa nuova ignoranza, noi possiamo solo affinare l’ascolto: sarà l’altro che,
provando a trovare parole per qualcosa che è insignificabile, ci darà quelle parole che per l’altro sono
preziose per spiegare qualcosa che per l’altro ha un senso. I sommersi ed i salvati
Primo Levi diceva che il trauma è qualcosa che “prende ad ora incerta”, nel libro :
c’è una schiera di esperti che si sta scervellando per capire che cosa è successo agli internati nei campi di
concentramento nazisti, ma non capiscono nulla. Il trauma è qualcosa che prende ad ora incerta: tu puoi
vivere un’intera vita pensando di aver fatto i conti con quel passato, ti rialzi, costruisci la tua vita, non sai
quando arriva il trauma, ma quando arriva la sofferenza ti prende in pieno.
C’è un caso da cui si è imparato molto: alla fine degli anni ’90 un ragazzo argentino, arrivato in Italia alla
fine degli anni ’70, torturato, il quale si era rialzato in piedi in Italia, aveva ricostruito tutta la sua vita, e
ce l’aveva fatta. Un banale intervento chirurgico al menisco, ha fatto riemergere tutto. Perché per lui la
questione era: il suo corpo, sotto anestesia totale, era di nuovo nelle mani di qualcuno e lui non aveva più
il potere di controllare quello che gli venisse fatto. Quindi un banale intervento chirurgico era
insostenibile: non riusciva ad affrontare l’idea di potersi rimettere in una posizione di totale passività dove
il suo corpo era sotto il totale controllo di qualcun altro. Quindi, a 15 anni dall’evento violento, ha bisogno
di un sostegno psicologico perché la sua vita va in frantumi perché non riesce ad affrontare un intervento
chirurgico.
Noi oggi abbiamo la possibilità di avvicinarci e toccare quelle esperienze di violenza. Stiamo attenti a
pensare autenticamente che quello che sia un trauma: noi del trauma delle persone non sappiamo nulla,
dobbiamo ascoltare e vedere le parole di un sopravvissuto.
Se voglio avere diritto all’asilo politico, quindi il permesso di soggiorno, devo raccontare qualcosa di
traumatico accaduto durante il viaggio, in quanto solo così gli psicologi scriveranno nelle loro relazioni che
sono affetto da disturbo post traumatico da stress. Questa è la violenza del sistema asilo in Europa:
costringere i rifugiati ad un unico racconto, ad omologare le loro esperienze ad un unico canovaccio.
Mosaico, negli incontri con le donne, prova a far condividere le varie esperienze. Quando i migranti
lasciano i loro Paesi hanno tante esperienze, perché hanno un’idea che qui è un paradiso. Ma in realtà
trovano un contesto molto diverso. La prima cosa che è donne si chiedono è “dove siamo?”. Se durante
l’accoglienza possiamo mangiare solo minestrone per 1 mese, rimangono stupiti, perché non possono
immaginare di mangiare minestrone per 1 mese in un Paese civile. Quindi fanno un paragone tra quello
che hanno lasciato nel loro Paese e quello che vivono in Italia.
Dobbiamo partire anche dal fatto che una donna si se