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I rifugiati vengono dall’Eritrea, dove c’è una dittatura feroce, dall’Etiopia, dalla Somalia, dove c’è l’anarchia totale. La
maggior parte dei rifugiati non arrivano in Europa, ma si fermano in Africa: in Ciad c’è un grande campo profughi, con
milioni di persone; oppure si fermano nel Darfour. C’è 1 milione di somali rifugiati in quelle zone.
Perché arrivano i giovani? Perché sono forti e perché i giovani sono destinati a combattere, e ciò non è una scelta.
Questi giovani scelgono di non far parte di questa guerra, e quindi i loro familiari li invitano ad andarsene per paura di
ritorsioni.
Dalla Somalia e dall’Etiopia entrano in Sudan, attraversano il deserto libico, arrivano a Bengasi e prendono i barconi, che
noi vediamo.
Il gran numero delle persone che arrivano adesso sono pochi in proporzione al totale dei migranti (sono pochi quelli che
arrivano rispetto a quelli che partono), perché comunque il viaggio costa. Chi ha soldi può partire, chi non ne ha è
destinato a morire o vivere una situazione molto difficile.
Noi vediamo solo l’ultima tappa, nel mare. Le persone che sono morte in mare sono comunque tantissime, più di 23.000
dall’inizio dell’anno. Comunque un altro gran numero non lo vediamo, e sono i dispersi nel deserto. Altro più gran
numero sono le persone in carcere in Somalia od in Eritrea, o dispersi nel Darfour.
Non vediamo tutte le persone morte o disperse in Siria, Giordania, in Libano.
È stato aperto un canale umanitario su richiesta dell’ONU per 12.000 persone, ma non è sufficiente. Quando si chiudono
le vie legali, si cerca una via illegale.
È un business diventato molto redditizio.
I gommoni utilizzati dai trafficanti di migranti sono importati dalla Cina. Sono arrivati ora in Libia container pieni di
gommoni dalla Cina. Ovviamente i viaggi si sono fatti più pericolosi.
I trafficanti per paura della polizia libica, lasciano i migranti a circa 50 km dal confine ed indicano la strada per Kufra. Ma
nel viaggio verso la città, molte persone muoiono nel deserto.
Roland Barthes dice che la violenza è tale perché è insignificabile, nell’ordine del non senso totale. È un fotografo ed
intellettuale che riflette sulle foto shock, perché il XXI secolo ci ha lasciato un’infinità di immagini che tolgono il fiato, che
obbligano ad una posizione ambivalente: la foto shock è una foto che non vorremmo guardare ma che in realtà
continuiamo a guardare, non riusciamo a distogliere lo sguardo e mentre guardiamo ci diciamo che non possiamo
vedere queste cose. C’è una dimensione della violenza, dell’orrore e dell’atrocità che va conosciuta. C’è una dimensione
vueristica.
Iniziamo a dire qualcosa sulla responsabilità del sistema occidentale, ma anche delle responsabilità di un sistema
interno. La prima questione che si pone forte e che assume la dimensione del trauma è che qui la violenza deriva da un
connazionale, da un libico che fino a qualche anno prima era un “vicino”. La violenza arriva dall’interno.
Ci sono immagini altrettanto shoccanti che fanno vedere come in Libia si eserciti su questi corpi migranti che sono
riusciti ad arrivare vivi in Libia e che stanno aspettando di salire sui barconi forme di violenza arbitraria. Ciò che va detto
con forza è che questa non è una violenza che arriva da un nemico lontano, è una violenza che può arrivare da
qualcuno con cui si condivide la lingua, la religione, fino a qualche attimo prima ci aveva aiutato e poi passa dall’altra
parte, magari perché non ha i soldi per il viaggio e quindi decide di diventare piccolo scafista per pagarsi il viaggio per
l’Europa. Quindi è una violenza a tanti livelli.
Con un parallelismo storico un po’ forzato, è una violenza alla quale le popolazioni dell’Africa subsahariana sono esposte
da tempo. Quando noi paragoniamo queste migrazioni forzate alla schiavitù di qualche secolo fa, stiamo sicuramente
facendo un errore storico, ma in un punto c’è qualcosa che deve farci riflettere: se la schiavitù ci ha insegnato qualcosa è
che certamente la violenza veniva portata da un sistema che era quello europeo di espansione imperialistica che aveva
bisogno di schiavi dall’altra parte dell’Atlantico, ma chi esercitava la violenza di villaggio in villaggio e di città in città
erano senegalesi, le popolazioni del Golfo di Guinea. Era una violenza che veniva esercitata dall’interno: i capi villaggio
si liberavano delle persone indesiderate facendole prendere ai portoghesi, un padre che aveva tanti figli e non sapeva
come distribuire le terre ai figli più piccoli, dava i cadetti in schiavitù.
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La violenza con cui siamo costretti a confrontarci è contemporaneamente la violenza che arriva dall’esterno e
dall’interno: il nemico diventa intimo, dice qualche autore, il nemico diventa qualcuno che fino a poco prima era il vicino
di casa con si andava a lavorare nei campi.
Queste persone stavano scappando da un sistema di violenza politica interna al loro Paese, si sottopongono ad un
sistema di violenza interno gestito da connazionali o da persone legate ad un’area “di famiglia”, e poi si espongono alla
violenza del sistema asilo in Europa.
È in questa cornice che poi va collocato il trauma: abbiamo un accumulo e sovrapposizione di esperienze violente,
straordinarie, non attese, ed allora il primo punto da mettere è che il trauma di cui parlano gli psicologi è spesso una
categoria semantica riduttiva, perché noi siamo alla ricerca di una sola esperienza traumatica, di una esperienza che ha
sconvolto l’esistenza, quando queste persone in realtà si ritrovano a dover vivere una sommatoria di esperienze
traumatiche, e quando si aspettano che quella sia l’ultima e poi sia finito, in realtà il sistema continua a produrre
violenza.
Il trauma a cui si deve pensare in questi scenari è un trauma che si fa plurale e soprattutto dobbiamo guardarlo nella sua
complessività, non pensare che il trauma sia solo quello del Paese d’origine, di qualcosa che è accaduto nel Paese di
origine, ma dal Paese di origine guardare il viaggio e poi guardare come funziona il sistema di accoglienza.
Quando una giovane ragazza etiope, alla domanda un po’ ingenua e banale, nel primo colloquio con lo psicologo, “Parla
di quello che adesso non ti fa dormire e non ti fa star bene”, racconta che il suo problema è stato, quando è arrivata nel
Centro CARA di Crotone, l’aver ricevuto un solo pezzo di sapone per lavarsi, lavare i panni sporchi, le parti intime, per 2
settimane. Per lei quello era diventato la violenza massima. È credibile? Contando che era partita dall’Etiopia, era stata
nel centro di detenzione di Kufra, costruito grazie a finanziamenti europei, è passata da Tripoli, ha raccontato due
esperienze di stupro da parte di connazionali, poi è salita sul barcone, ha visto morire delle persone, poi è arrivata in
Italia, poi a Torino è stata nuovamente oggetto di stupro da parte di un altro connazionale (ecco la violenza interna
quando pensava di essere arrivata). Dove si colloca questa risposta, che pure è autentica e sincera? Sembra che non
voglia dire la verità? O forse sta insegnando qualcosa del trauma? O forse sta insegnando che alcune esperienze le
aveva messe in conto prima di partire, in quanto donna, sola. E allora, quello che fa trauma per lei non è la violenza in
sé, ma la violenza che arriva e che non ti aspetti. Perché quella che ti aspetti e metti in conto è un’altra cosa. La
violenza, per lei, è quando arrivi in Italia e pensi che tutto sia finito e ritrovarsi in un centro, detenuta, a lavarsi con un
pezzo di sapone.
È stato uno storico italiano che ha lavorato in Etiopia che ha detto che, anche se non è la regola, in Etiopia, il momento
di lavarsi è molto importante: non si usa lo stesso sapone per lavare cose sporche, parti intime ed altre parti del corpo e
non si usano neanche le stesse mani per mangiare e lavarsi.
Quindi, forse, questa donna sta cercando di raccontare l’esperienza di lei che ha dovuto lavarsi i panni, il corpo, non
sappiamo quanto si senta sporca, e non sappiamo quanto quell’unico pezzo di sapone per lei diventava il simbolo di
qualcosa che non poteva essere cancellato.
Una docente di letteratura inglese dice, in un lavoro molto prezioso sul trauma, che il trauma introduce una nuova
ignoranza tra di noi. Noi del trauma non sappiamo assolutamente nulla, non sappiamo che cosa fa trauma per le
persone, non sappiamo neanche che cosa fa trauma per noi, figuriamoci se sappiamo cosa fa trauma per gli altri. C’è
una nuova ignoranza, e per imparare qualcosa di questa nuova ignoranza, noi possiamo solo affinare l’ascolto: sarà
l’altro che, provando a trovare parole per qualcosa che è insignificabile, ci darà quelle parole che per l’altro sono
preziose per spiegare qualcosa che per l’altro ha un senso.
Primo Levi diceva che il trauma è qualcosa che prende ad ora incerta, nel libro I sommersi ed i salvati: c’è una schiera di
esperti che si sta scervellando per capire che cosa è successo agli internati nei campi di concentramento nazisti, ma non
capiscono niente. il trauma è qualcosa che prende ad ora incerta: tu puoi vivere un’intera vita pensando di aver fatto i
conti con quel passato, ti rialzi, costruisci la tua, non sai quando arriva il trauma, ma quando arriva la sofferenza ti
prende in pieno.
C’è un caso da cui si è imparato molto: alla fine degli anni ’90 un ragazzo argentino, arrivato in Italia alla fine degli anni
’70, torturato, il quale si era rialzato in piedi in Italia, aveva ricostruito tutta la sua vita, e ce l’aveva fatta. Un banale, nel
senso che i medici lo tranquillizzavano, intervento chirurgico al menisco, ha fatto riemergere tutto. Perché per lui la
questione era: il suo corpo, sotto anestesia totale, era di nuovo nelle mani di qualcuno e lui non aveva più il potere di
controllare quello che gli venisse fatto. Quindi un banale intervento chirurgico era insostenibile: non riusciva ad affrontare
l’idea di potersi rimettere in una posizione di totale passività dove il suo corpo era sotto il totale controllo di qualcun altro.
Quindi, a 15 anni dall’evento violento, ha bisogno di un sostegno psicologico perché la sua vita va in frantumi perché non
riesce ad affrontare un intervento chirurgico.
Noi oggi abbiamo la possibilità di avvicinarci e toccare quelle esperienze di violenza. Stiamo attenti a pensare
automaticamente che quello sia un trauma: noi del trauma delle persone non sappiamo nulla, dobbiamo ascoltare e
vedere le parole di un so