vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
X W Y
via di questi limiti, gli esseri umani hanno cercato di trovare una soluzione, arrivando ad
identificare la terza famiglia dei codici semiologici: i codici di raggruppamento o
combinazione. A spiegare i raggruppamenti combinatori furono Pascal e Leibniz, ma già
molto tempo prima gli uomini avevano iniziato ad utilizzare i raggruppamenti combinatori.
Basta infatti pensare alle serie numeriche: per i numeri ci serviamo infatti di nomi che vengono
costituiti tramite il raggruppamento in vario ordine degli stessi nomi, cioè delle unità, delle
decine, delle centinaia, delle migliaia, ecc. Con una manciata di parole siamo in grado di
mettere ordine e scambiarci notizie su miliardi di milioni di numeri e cose diverse.
7. Il gioco delle parti
Quei linguaggi che sfruttano il diverso ordine dei segni e le diverse loro combinazioni sono
detti linguaggi combinatori. I segni di questi linguaggi, di questi codici di terzo tipo, sono
articolati, fatti di parti la cui diversità può essere significativa. Le parti dei segni articolati sono
definite unità o monemi (dal greco mónos, unico). I bambini inizialmente utilizzano codici di
primo tipo, codici della certezza, ripetendo le parole degli adulti come un gioco. Intorno ai due
anni però iniziano a capire che con due parole, ordinate in modo differente, è possibile dare
luogo a sei diverse frasi. Scoprono quindi le virtù dell’articolazione e della combinazione e
giocano con essa. 4
8. I linguaggi dell’infinito
Dato un numero qualunque, è sempre possibile aggiungere un’unita e passare al numero a lui
successivo. Questo perché i numeri sono non finiti, il numero dei numeri è infinito. Non è
ovviamente possibile arrivare all’infinito, l’infinito non è mai attuale, è sempre qualcosa in
potenza. Ogni volta che ci si avvicina all’infinito questo continua ad allontanarsi in quanto è
solo possibile, mai reale. Due sono le regole da rispettare perché un codice sia potenzialmente
infinito:
1. deve valere la regola per cui la ripetizione della stessa cifra dà luogo a segni diversi (es.: 1, 11,
111, ecc.)
2. deve valere la regola per cui è sempre possibile, data una cifra lunga, scriverne una più lunga
aggiungendo un elemento a desta o a sinistra, all’inizio o alla fine del segno.
Questo discorso apparentemente sembra molto distante dalla semiotica, ma non è così. Infatti,
i numeri sono, per prima cosa, nomi di numero, parole. I numeri non sono altro che uno
speciale sottogruppo di parole. I più semplici linguaggi dell’infinito sono quindi codici semiologici
a segni articolati, di numero infinito, senza sinonimia, ordinabili in modi infiniti. Dal momento che i
numeri sono infiniti e che anche i numeri in realtà sono un sottogruppo delle parole, ne
conviene che anche le parole siano potenzialmente infinite e, in particolar modo, le frasi, le
combinazioni delle parole. Questo ragionamento potrebbe però portare ad un errore: cioè al
pensare che solamente le lingue delle popolazioni che abbiano una numerazione
potenzialmente infinita siano, a loro volta, potenzialmente infinite. Questo ovviamente non è
vero e per provarlo basta applicare le due regole. Le frasi di una lingua rispettano la prima
regola, poiché se ripetiamo due volte lo stesso elemento all’interno della frase il significato di
questa cambia (es.: “ho invitato degli amici” “ho invitato degli amici degli amici”). Inoltre,
→
rispettano anche la seconda regola in quanto, anche di fronte alla frase più lunga che ci sia mai
capitata davanti, saremo sempre in grado di aggiungere elementi all’inizio o alla fine di questa.
9. I linguaggi per risolvere problemi
Questi linguaggi a segni articolati di numero infinito conservano la proprietà della certezza,
sono linguaggi certi. Infatti, se un senso appartiene ad un significato di un segno, non
appartiene a nessun altro significato. (ad esempio, se il numero di penne che ho nell’astuccio è
indicato dal numero /12/, non può essere indicato da nessun altro numero). Chi utilizza questi
codici non ha dubbi su quale segno usare, c’è quindi un rapporto biunivoco tra significato e
significante (gli inglese direbbero un rapporto one-to-one): ad un valore numerico, tra le infinite
cifre, corrisponde una ed una sola cifra. Dal punto di vista della comunicazione, i segni
matematici stabiliscono dei rapporti di sinonimia. Fare un’addizione significa andare alla
ricerca di quel segno che esprime nel modo più semplice una quantità. L’aritmetica elementare
è quindi un linguaggio, della famiglia dei calcoli, con il quale possiamo comodamente
rappresentare un numero infinito di operazioni per individuare le possibili sinonimie tra i
numeri.(definizione linguaggio dei calcoli codici semiologici a segni articolati, di numero illimitato,
→
ordinabili in modi infiniti, con sinonimia). In questi codici semiologici la certezza non è più
immediata, non è il punto di partenza, ma il punto di arrivo. La soluzione di un problema è
infatti certa, e l’aritmetica regola il modo in cui noi possiamo giungere a tale soluzione. A
questa famiglia dei calcoli appartengono tutti i linguaggi costituiti dalla matematica, dai più
semplici ai più complessi. Anche la notazione musicale, la notazione delle reazioni chimiche ed
i segnali stradali appartengono a questi codici semiologici. Vi troviamo infatti parecchi rapporti
di sinonimia. Basti pensare ai cartelli stradali: noi capiamo di non poter svoltare a destra se
troviamo un cartello che indica la svolta a destra sbarrato, o un obbligo di andare a dritto, 5
piuttosto che a sinistra. Che relazione c’è tra questi codici dei calcoli e la lingua parlata? Per
prima cosa ci sono parentele storiche. Gli essere umani hanno costituito questi linguaggi
proprio perché erano in grado si nominare i numeri o le note ecc.: il linguaggio dei calcoli trae
quindi la sua origine dalle parole di ogni giorno. Inoltre, ci sono ulteriori relazioni in quanto le
stesse frasi di una lingua stabiliscono sinonimie (es.: un disoccupato è una persona iscritta alle
liste di collocamento, ma non ha lavoro). Ci sono poi altre analogie, come congiunzioni che
svolgono la stessa funzione delle operazioni di aritmetica (la congiunzione e equivale
all’addizione matematica). La lingua somiglia quindi a un calcolo.
10. Il filosofo e Pulcinella
Ma la lingua… è un calcolo? L’ingegnere e filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein (1889-1951),
durante la prima parte del 1900, ha cercato di capire il funzionamento dei linguaggi. Da
giovane scrisse il Trattato logico-filosofico, nel quale sosteneva che la lingua fosse un calcolo. Era
infatti convinto che le frasi fossero come operazioni aritmetiche dove le congiunzioni e le
proposizioni fungono da simboli aritmetici, mentre le parole da numero. Ancora giovane, si
trasferì all’Università di Cambridge, in Inghilterra, dove studiò ed insegnò. Qui conobbe
l’italiano Piero Sraffa, andato via dal suo paese perché antifascista e amico di Gramsci. Nelle
loro lunghe conversazioni, Ludwing cercò di convincere Sraffa su come le parole funzionassero
da operazioni e su come le frasi fossero in realtà file ordinate di simboli, espressioni
aritmetiche. Si dice che durante una conversazione tra i due Sraffa fece un gesto di origine
napoletana. Si accarezzò il mento da sinistra verso destra, più volte, con la mano destra.
Secondo l’aneddoto questo gesto fece capire a Ludwing che fino a quel momento si era
sbagliato. Quel gesto era sicuramente un segno in quanto esprimeva qualcosa, comunicava
un’esperienza. Capì quindi che un segno, per essere considerato tale, non deve per forza avere
una struttura analoga ad una formula matematica, l’importante è che esprima un significato,
che si inserisca tra due esseri che interagiscono. Da questo momento Ludwig iniziò a riflettere
sulle differenze che esistono tra i calcoli e la lingua, fino a scrivere Ricerche filosofiche, un libro
edito postumo nel 1953. Probabilmente, però, le cose non andarono proprio così. Non fu
solamente il gesto dell’amico a far cambiare idea al grande studioso. Da alcuni anni Ludwing
stava infatti insegnando nelle scuole elementari di alcuni paesini di montagna in Austria.
Sebbene parlasse con un tedesco cólto ed erudito, i ragazzini, che parlavano un tedesco povero
e smozzicato, riuscivano comunque a capirlo. Ognuno di noi infatti conosce vocaboli che ad
altri sono sconosciuti, molto spesso per il campo in cui ognuno si specializza. Ad esempio, il
dottore conoscerà alcuni termini che sono ignoti al filosofo e viceversa. Ogni mestiere porta
con sé un vocabolario. La stessa cosa avviene in Italia o in altri paesi, dove esistono ancora
molte espressioni dialettali legate alle origini della famiglia: Natalia Ginzburg, nel suo Lessico
familiare, parla appunto dei vocaboli che la sua famiglia, di origine Veneta ed ebraica, aveva
portato a Torino. Nonostante ognuno di noi abbia un suo personale vocabolario, utilizziamo,
nella comunicazione, parole che pensiamo possano essere còlte da tutti, in quanto lo scopo del
parlare o dello scrivere è farsi capire, trasmettere un messaggio. Se la lingua fosse stata davvero
un calcolo, come da giovane sosteneva Ludwing, egli non sarebbe riuscito a comunicare con i
piccoli austriaci a cui insegnava, in quanto in un calcolo tutte le espressioni devono essere fatte
di simboli o segni già noti, o comunque riconducibili a numeri noti: nella lingua non è così.
11. Il linguaggio creativo
Tra gli alunni dei paesi montanari, quindi, Ludwing capì di non poter classificare la lingua come
un codice di calcolo. Nei codici di calcolo aritmetico infatti tutte le cifre sono note o,
comunque, sono calcolabili applicando le regole aritmetiche. Se in una espressione aritmetica 6
troviamo simboli che non sono le 4 operazioni o il simbolo dell’uguale, quell’operazione non è
risolvibile, non è “ben formata”: questa asserzione viene detta assioma della non-creatività,
cioè le regole fondamentali e le unità di base non devono cambiare mentre si esegue una operazione, devono
essere sempre le stesse. Le lingue non rispettano tale assioma in quanto ogni giorno possono
comparire nuove parole, scomparirne delle vecchie e rientrare in uso parole ormai dimenticate.
Ad esempio, molte delle parole utilizzate da Manzoni nei suoi Promessi sposi non sono più di
uno corrente mentre altre sono poi tornate di monda. Ne è un esempio la parola velivolo,
tornata in auge grazie a Gabriele D’Annunzio. Questa caratteristica della lingua, i suoi continui
cambiamenti, erano conosciuti anche dagli antichi. Orazio, ad esempio, nell’Ars poet