Antigone e la legge nel pensiero aristotelico
Antigone si pone come un tiranno, senza potere, ponendosi sopra la legge statuita da chi ha legittimamente il kratos sulla città. Poi c'è un problema: quando parliamo di una produzione del diritto ateniese o di altre poleis, ci riferiamo solo alle norme vigenti in quella polis o in qualche modo a un comune patrimonio nomico? Ci sono fonti giuridiche valevoli non solo per una città, ma per un complesso di città greche?
Aristotele e le distinzioni del nomos
Qui bisogna introdurre la contrapposizione enunciata da Aristotele fra due coppie. Aristotele nella Retorica sta sempre parlando del nomos e non contrappone lo stesso a qualcosa di diverso del nomos, ma all'interno del nomos introduce due diverse polarità:
- Koinos e idios, cioè nomos comune a più città e nomos particolare alla singola città, in particolare ad Atene.
- Contrappone sempre il nomos tra agraphos nomos e gegrammenos nomos, cioè nomos scritto e nomos non scritto.
Qualche volta si tende a considerare queste due distinzioni di Aristotele sovrapponibili, dicendo che il nomos comune è il nomos non scritto e il nomos particolare è il nomos scritto, ma non è assolutamente vero.
La legge nelle città greche
“Intendo per legge sia la legge particolare sia quella comune, per particolare intendo quella che per ciascun popolo è stata definita in rapporto ad esso ed essa può essere sia non scritta che scritta, per legge comune quella che è secondo natura.” Qui c'è la prima di due citazioni che Aristotele fa dall'Antigone, dichiarando: “Vi è infatti un giusto e ingiusto per natura di cui tutti hanno come un'intuizione”. Il discorso dalla legge si sposta al dikaion, c'è un giusto 'fusei' e 'koinon', un giusto comune secondo natura anche se non vi è nessuna comunanza degli uni con gli altri e neppure un accordo.
Aristotele attrae il discorso dell’Antigone nella contrapposizione tra giusto per natura e giusto secondo la legge, ma introduce un elemento che non c’era nell’Antigone: l’appello alla natura. Qui si dimostra come queste due distinzioni non sono affatto sovrapponibili: koinos nomos è la legge comune a più di una comunità, poi può essere scritta o non scritta, e così anche l'idios nomos. Il nomos scritto di una comunità è tendenzialmente scritto, ma non è detto.
Il ruolo della natura in Aristotele
Qui semplicemente si dice che è diverso il nomos che si trova in una sola città e il nomos che si trova in più città perché corrispondente a un senso del giusto che è comune a tutti i greci, per natura. La natura è la ragione umana propria dei greci, tutti gli appelli alla natura sono sempre molto da contestualizzare. La natura gioca in Aristotele un ruolo fondamentale, in molti passaggi, la contrapposizione tra nomos e physeis. Quando Aristotele scrive nella prima metà del IV secolo a.C., ha alle spalle una storia abbastanza lunga, è stato un grande tema del dibattito del V secolo.
Il convenzionalismo nei sofisti e in Socrate
La prima apparizione è stata particolare nel corpo ippocratico dove si contrappongono nel senso del nomos come convenzione e della natura come dinamiche imposte dalla struttura fisica. Poi diventa un grande tema del dibattito sofistico dove i sofisti si incuneano in quella scissione tra sfera umana e quella divina e quindi criticano anche la trascendenza del nomos perché ne vedono un puro frutto di convenzione non rispondente a dei dettami necessari di natura.
Il motivo del carattere puramente formale del nomos è anche un motivo importante, ovviamente contrastante con l'immagine del nomos con il fondo di trascendenza che ha alle spalle la trascendenza divina. È molto diversa l'immagine del convenzionalismo nei sofisti rispetto all'immagine del convenzionalismo in Socrate: nel Critone il convenzionalismo non è una risposta speculare ai sofisti, Socrate dice che le leggi gli rimproverano di non stare ai patti, “non ti sembra che noi e te abbiamo concluso un accordo” -le leggi con Socrate si immaginano di essere parte attiva della convenzione, anzi di essere il soggetto forte della convenzione le leggi dicono prima di essere inventate dagli uomini e stipulano col singolo cittadino un accordo, vivere secondo le leggi.
Il convenzionalismo socratico è profondamente diverso dal convenzionalismo aristotelico, non è semplicemente una risposta, a volte è stato detto che i sofisti screditano la legge perché prodotto di un accordo, non è basato sulla physeis. E Socrate replicherebbe a questo dicendo “proprio perché le leggi sono il prodotto di un accordo bisogna rispettare l'accordo” -ma non è vero, Socrate non raffigura le leggi come il frutto dell'accordo, ma queste preesistono all’accordo, padrone degli uomini. Socrate è stato nutrito dalle leggi e quindi il prodotto dell’accordo non sono le leggi, ma l’obbedienza a queste. Vi è una simmetria tra la syntheke, atto scritto vincolante tra le parti, e il nomos, vincolante verso tutti coloro che abitano in quella città, perché è l'accordo di tutta la città.
La retorica di Aristotele sul nomos
Quando Aristotele passa a trattare di questa seconda polarità (tra nomos scritto e non scritto) lo fa in una prospettiva che è ancora più spiccatamente retorica. C'è un'immagine nella Retorica di Aristotele che va sempre tenuta presente, Aristotele all'inizio dell'opera spiega sempre quello che ha voluto fare, affermando di essere il primo a scrivere un trattato di retorica, non dà nella Retorica uno strumento di elementi utilizzabili, spiega come costruirsi gli elementi.
Stiamo parlando dunque delle prove, delle pisteis e dice “cosa devo fare se contro il mio assistito viene prodotta una certa prova” Se ci fosse una legge scritta a favore del mio assistito, devo dire che conta solo la legge scritta, perché le leggi furono scritte per togliere ai giudici la possibilità di appellarsi ad altre soluzioni quindi conta solo la legge scritta. Nel modo inverso in cui la legge scritta è contro gli interessi della parte allora Aristotele dice che bisogna andare a screditare la legge scritta, dimostrando che la legge scritta è contraria ad un'altra legge, la legge non scritta rispondente al giusto secondo natura. La legge ingiusta non merita neanche di essere chiamata legge, è tutto un artificio retorico.
Il concetto di equità in Aristotele
Aristotele dimostra con questo passaggio nella Retorica che all'interno del nomos stesso ci può essere qualcosa di altro distinto e contrapposto, ma siamo sempre all'interno del nomos. Un sentimento del giusto, del dikaion. Dunque esistono ordini nomici diversi, dunque per nomos possono intendersi non solo le nostre leggi, ma qualcosa di più: un miscuglio di morale, etica e legalismo.
Un grande tema aristotelico è l'equo, To epieikés. Aristotele non dice mai che l'equo è la giustizia del caso singolo, per Aristotele l’equo è una forma del giusto. Non è il giusto in riferimento al caso singolo, è la disciplina giuridica del caso singolo. Il tema dell'equità è un tema importante perché la tradizione greca qui è più importante di quella romana: aequum romano vuol dire uguale, non equo; mentre l’equo greco crea la norma per il caso, l’aequum romano non crea la norma al caso, ma adatta la norma al caso, cioè nell’aequum romano non si crea un nomos nuovo per una nuova situazione, ma si prende una disciplina generale preesistente e la si modifica, la si modella sull’esigenza del caso.
Per noi il mondo dell'equità è contrapposto al mondo delle leggi. Per noi la valutazione di equità, si pone fuori della produzione del diritto, riguarda solo il momento applicativo, riguarda organi che non sono politici, sta fuori dalla produzione politica del diritto. Nell’esperienza greca invece il momento della creazione equitativa del diritto non è tanto l’emanazione della sentenza, cioè il momento del giudizio, ma è un momento integralmente politico quale l’emanazione dello psephismata, il decreto dell’assemblea. Infatti il decreto, mancando del necessario carattere generale e perpetuo, esprime l’equo, esprime la valutazione puntuale del caso.
L’equo è come il regolo di Lesbo, materiale flessibile dell’isola che usato dai muratori si adattava alla superficie degli oggetti, alla configurazione della pietra. Dunque l’equità è questo: adattare la norma giuridica alle caratteristiche delle situazioni. Aristotele lo dice non per i giudici, ma per i cittadini che emanano lo psephismata. Questa tradizione che è diversa da quella romana, ha due anime e non è una elaborazione che guarda all'equo come qualcosa di riferibile ad arbitri e giudici, come qualcosa che si colloca in uno spazio extrapolitico, come è per noi.
Equità e giustizia nella visione aristotelica
“Dunque queste pressappoco sono le considerazioni da cui nasce l'aporia che concerne la nozione di equo, e in un certo senso sono tutte corrette e per nulla in contraddizione tra di loro”. Aristotele afferma che epieikes è un’altra cosa rispetto al giusto ed è migliore del giusto, però non sono di genere diverso. “In effetti l’equo, pur essendo superiore ad un certo tipo di giusto, è esso stesso giusto, ed è superiore al giusto pur non costituendo un altro genere”. Dunque non è che l’equo è superiore a ogni forma del giusto, è che l’equo è una forma del giusto. Il giusto secondo l’equo è una specie del genere giusto ed è superiore a ciò che sta fuori, al giusto non secondo l’equo. Giusto ed equo sono la stessa cosa, e, pur essendo entrambi buoni, l’equo ha più valore. L’equo è sì giusto, ma non è il giusto secondo la legge, non è il dika kata nomon. Il giusto secondo l’equo è più buono, più giusto del giusto secondo la legge. Equo è un correttivo del giusto secondo il nomos. Epanortoma vuol dire il correttivo, qui si dice che l'equo è correttivo della legge, la valutazione di equità corregge la legge. Nella sua applicazione si è tenuti a cambiare la legge in linea con l’epieikes.