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Cavalcava un palafreno scuro come una bacca di cipresso.
V. 208-271 Frate
C’era anche un cercatore, un fratacchiotto svelto e d’umore allegro, il quale viveva
d’elemosina: l’avresti detto un sant’uomo. In tutti e quattro gli ordini di quei frati non
c’era un altro che sapesse scherzare e chiacchierare come lui. Più di una volta aveva
combinato, a spese sue, il matrimonio di qualche bella ragazza. Tra i frati del suo
ordine era un pezzo grosso. Ben veduto da tutti, bazzicava dappertutto, ed era accolto
famigliarmente dai signorotti di campagna, non solo, ma anche dalle signore più
cospicue della città: perchè, com’egli stesso diceva, avendo la licenza del suo ordine,
egli poteva confessare meglio di un curato. Ascoltava con molto amore la confessione,
ed era molto indulgente nel dare l’assoluzione. Quando sapeva che c’era da buscare
qualche cosa andava molto adagio con la penitenza: chi era pronto a fare un po’ di
elemosina a un povero ordine di frati, non poteva avere macchia nella coscienza, e
l’assoluzione l’aveva in saccoccia prima di confessarsi. Uno che fa l’elemosina, diceva
egli, quasi vantandosi della scoperta, è già pentito dei suoi peccati. Non c’è mica
bisogno di piangere: c’è della gente che ha il cuore così duro, che non sa tirare una
lacrima neppure se è ferita a sangue. Quindi fa molto meglio chi senza tanti piagnistei
e senza tanti paternostri, lascia guadagnare qualche cosa ai poveri frati.
Dentro il cappuccio portava sempre una quantità di piccoli coltelli[18] e di spilli, per
offrirli alle belle donne che ne avessero bisogno. Aveva un bel timbro di voce, e sapeva
cantare e suonare a memoria. C’era una specie di canto, poi, nella quale era
insuperabile.[19] Il suo viso era bianco come un giglio. Da valoroso campione
conosceva a menadito le bettole di tutte le città dove era stato, ed era amico di tutti gli
osti e di tutti i più allegri cantinieri, come un lazzarone o uno straccione qualunque. Se
non che, ad una persona come lui non stava bene, almeno fin dove gli era possibile
farne a meno, trattare con simile canaglia. Quella non era davvero una compagnia che
gli facesse onore, e potesse giovargli; perciò era meglio accompagnarsi con chi aveva
soldi, e grazia di Dio da vendere. Quando sapeva che c’era da beccare qualche cosa,
correva subito, tutto gentilezza, e pronto a rendere qualunque servizio. Non c’era al
mondo un uomo che avesse le sue virtù: in tutta la confraternita non era possibile
trovare un altro frate più bravo di lui per domandare l’elemosina[20]. Poichè anche se
andava da una povera vedova, che non avesse da dargli, per modo di dire, un paio di
scarpe rotte[21], qualche cosina, prima di andar via, buscava sempre; con tanta dolcezza
sapeva dire il suo: In principio. Era, poi, così accorto nel comprare e rivendere, che
rimediava più col suo piccolo commercio che con la tonaca. Quando una cosa non
andava a modo suo, abbaiava come un cane cucciolo; perciò quando c’era da comporre
qualche questione poteva prestare un valido aiuto. Non credete che avesse l’aria di uno
di quei poveri diavoli, che vanno in giro con una tonaca frusta frusta: pareva un
canonico, anzi un papa addirittura. Portava una mezza cappa di lana filata a doppio,
tonda e tutta d’un pezzo come una campana[22]. Quando parlava, faceva sentire, per
vezzo, un po’ di lisca, affinchè la lingua inglese in bocca sua suonasse più dolce.
Allorchè, finito il canto, toccava l’arpa, gli occhi gli brillavano come due stelle in una
serena notte d’inverno. Questo rispettabile frate si chiamava Uberto.
V.272-286 Mercante
C’era anche un mercante con la barba forcuta e il vestito di vari colori, il quale se
ne stava sul suo cavallo, con un gran cappello di castoro in capo. Aveva un bel paio di
stivali elegantemente affibbiati. Diceva le sue ragioni con molto calore, e in ogni
occasione tastava accortamente il terreno, per vedere se c’era modo di guadagnare
qualche cosa. Avrebbe desiderato che il tratto di mare fra Middelburg e Orewel fosse,
per ogni buon fine, guardato e reso sicuro dai pirati. Era molto abile a cambiare, ad
interesse, gli scudi con le altre monete. Questo bravo mercante sapeva valersi molto
bene della sua abilità: e con tanta accortezza faceva gli affari, stringeva contratti,
prendeva denari in prestito, che non c’era mai caso di sentir dire che avesse qualche
debito. Era, in somma, una persona veramente degna; ma se devo dire la verità, non so
come si chiamasse.
V. 287-310 Chierico di Oxford
C’era anche un chierico di Oxford, che da un gran pezzo almanaccava con la
logica. Aveva un cavallo che reggeva l’anima coi denti, ed anche lui, per dire la verità,
del grasso non ne aveva da buttar via, ma era smunto e malandato. Portava un mantello
tutto logoro, e non poteva comprarsene un altro, perchè ancora non godeva nessun
beneficio, e non era adatto a un altro impiego qualunque. Era più contento di avere a
capo del letto una ventina di volumi delle opere di Aristotile, ben rilegati in pelle nera
e rossa, che dei begli abiti, o un violino, o un altro strumento a corda, per divertirsi a
suonare[23]. Con tutta la sua filosofia, era sempre al verde; perchè tutto quello che
poteva raccapezzare dagli amici, lo spendeva in libri o per imparare qualche cosa. E
pregava giorno e notte per l’anima di coloro, che contribuivano, in qualche modo, a
procurargli i mezzi di studiare, non avendo egli al mondo altro pensiero, altro desiderio
che lo studio. Non diceva mai una parola più del necessario: e parlava sempre
correttamente, e con modestia, in poche parole, e sempre con molto criterio. I suoi
discorsi erano pieni di virtù e di morale, e con ugual piacere era sempre disposto a
imparare e ad insegnare.
V.311- 332 Impiegato del tribunale
C’era, con noi, anche un impiegato del tribunale,[24] colta e intelligente persona, il
quale aveva passeggiato più di una volta su e giù per il portico di Westminster[25]. Era
un uomo che aveva realmente delle ottime qualità; sempre prudente e pieno di buon
senso, ispirava a tutti un certo rispetto. Godeva tale stima, ed erano così apprezzati i
suoi savî discorsi, che molto spesso era invitato a sedere giudice in tribunale, a nome di
una intera commissione[26]. Con la sua dottrina, e col nome che s’era fatto, guadagnava
quanto voleva, e d’ogni parte gli piovevano regali. Era difficile trovare un altro che
sapesse fare i propri interessi come lui. I suoi beni erano tutti libera proprietà; e non si
poteva fare sospetti su quel ch’egli comprava. Era un uomo d’affari, senza dubbio, ma
aveva un po’ la smania di darsi da fare anche più del bisogno. In tribunale citava tutti i
momenti casi e giudizi che risalivano, nientemeno, al tempo del re Guglielmo[27].
Aveva l’abilità di redigere e presentare un verbale in modo, che nessuno vi trovava mai
da ridire; e sapeva a mente tutti gli articoli del codice. Cavalcava alla meglio, con una
veste di stoffa a vari colori, stretta alla vita da una cintura di seta a striscie. Ma basta
del suo vestiario.
V.333- 380 Proprietario terriero
Faceva parte della brigata anche un possidente[28], con la barba bianca come un
fiore di margherita e col viso molto colorito. La mattina, appena alzato, cominciava
sempre con una buona zuppa nel vino. Da vero figlio di Epicuro era solito passarsela
allegramente, e pensava che la vera felicità è riposta nel pieno godimento del piacere.
Proprietario di case, ed uno di quelli grossi, era il S. Giuliano del suo paese[29]. Pane e
birra, alla sua tavola, erano sempre della migliore qualità[30]; nessuno aveva in cantina
le botti di vino che aveva lui, e in casa sua c’era sempre pronto, a tutte l’ore, qualche
buon piatto, cotto al forno, di pesce o di carne, e in grande abbondanza. Da mangiare e
da bere gli pioveva in casa d’ogni parte, con tutto ciò che di più squisito si può
desiderare. Il suo pranzo e la sua cena variavano col variare delle stagioni. Teneva ad
ingrassare in gabbia molte buone pernici, nel vivaio nuotavano a dozzine le regine e i
lucci: e guai al cuoco, se la salsa non era piccante e saporita, se in cucina non andava
tutto come un orologio. Nel suo salotto da pranzo c’era sempre la tavola apparecchiata,
dalla mattina alla sera.
In consiglio la faceva sempre da padrone, come quegli che era stato, non so quante
volte, deputato della provincia. Alla cintola, che era bianca come latte appena munto
gli pendeva una daga e una borsa di seta. Aveva fatto anche il pretore e il
ragioniere[31]; insomma un proprietario bravo come lui non s’era mai visto.
Erano venuti con noi anche un merciaio, un legnaiuolo, un tessitore, un tintore e un
tappezziere, vestiti nell’uniforme della importante e numerosa società alla quale
appartenevano; ed era tutta roba nuova e pulita. Il pugnale non aveva il manico di
rame, ma tutto ben lavorato in argento, e d’argento erano anche la cintura e la borsa.
Avevano tutti e cinque l’aria di persone per bene, e ognuno di loro avrebbe potuto
sedere benissimo, in una sala dorata, alla tavola d’onore[32]. Per senno, poi, sarebbero
stati ottimi consiglieri municipali; molto più che avevano tutti qualche cosa al sole. Le
loro mogli naturalmente sarebbero state contentissime, ed avrebbero fatto male a non
essere: sentirsi chiamare «signora» e la sera, andando ai ritrovi festivi in chiesa con
una elegante mantiglia, prendere, senza tante cerimonie, i primi posti, è una bella
soddisfazione.
V.381-389 Cuoco
Insieme con loro c’era un cuoco, che avevano portato apposta, per fargli cucinare,
all’occorrenza, un buon pollo lesso con la gelatina, e una torta di farina e di
galanga[33]. Costui era un famoso bevitore di birra, e un bicchiere di quella di Londra
lo sapeva giudicare senza sbagliare. Era molto bravo per cuocere l’arrosto allo spiede e
sulla gratella, per il bollito, pel fritto, per fare brodi di carne battuta, e per la torta al
forno. Peccato però, pensavo, che avesse il cancro ad una gamba: cucinava così bene il
cappone in galantina[34]!
V390-412 Marinaio
C’era anche un marinaro, che veniva dal lontano Occidente, ed era, per quello che
potei capire, di Dartmouth. Cavalcava, alla meglio, un ronzino preso a nolo, e
indossava una veste grossolana, che gli arrivava giù fino al ginocchio. A tracolla,
appesa a un cordone, portava una daga; i cocenti calori dell’estate gli avevano
abbronzato il viso. In fondo era davvero un buon diavolo, sebbene nel suo viaggio a
Bordeaux, mentre il mercante se la dormiva tranquillamente sulla nave, spillasse ogni
tanto, dalla botte, qualche bicchiere di vino, senza tanti scrupoli di coscienza
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