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Un’altra categoria è quella della vegetazione naturale, che ha un valore medio di

assorbimento intorno ai 2,93 t/ha/anno. In questa categoria rientrano ambienti

eterogenei, rendendo difficile una valutazione precisa. Le aree sterili o urbanizzate, come

è ovvio, non assorbono nulla, dato che non contengono vegetazione significativa. Per

quanto riguarda le aree idriche, invece, vi è un certo assorbimento, dovuto sia alla

presenza di alghe che all’assorbimento diretto da parte dell’acqua.

A questo proposito, è interessante citare una curiosità emersa: sembrerebbe che una

parte rilevante dell’assorbimento totale di CO₂ da parte della vegetazione derivi dalle

alghe, in particolare in alcune aree come quelle del Cilento o delle zone umide costiere.

Ma quanto contribuiscono effettivamente? La risposta non è semplice. In generale, si

stima che per ogni grammo di biomassa algale prodotta, vengano assorbiti circa 2

grammi di CO₂. Tuttavia, questa stima è da prendere con estrema cautela.

Innanzitutto, si tratta di dati raccolti in laboratorio, dove le condizioni sono controllate.

Traslare questi dati a scala reale è complesso, perché gli ambienti acquatici naturali sono

altamente variabili. Inoltre, non tutte le “alghe” sono uguali: nel linguaggio comune si

tende a includere sotto lo stesso termine anche le macrofite acquatiche (piante superiori

che vivono in acqua), mentre le vere alghe sono le microalghe. A queste si aggiungono i

cianobatteri, che dal punto di vista biologico sono ancora differenti, ma rientrano spesso

nella categoria delle microalghe.

I cianobatteri, ad esempio, possiedono la straordinaria capacità di utilizzare anche

bicarbonati e carbonati come fonti di carbonio, cosa che né le piante superiori né la

maggior parte delle microalghe riescono a fare. Quindi è evidente che stiamo parlando di

gruppi biologici molto diversi tra loro, con meccanismi fisiologici specifici. Negli ultimi

anni c’è stato un grande interesse per la coltivazione delle microalghe, anche a fini

energetici o nutraceutici, ma i dati che circolano a riguardo sono spesso eccessivamente

ottimistici. Si parla di efficienze fotosintetiche straordinarie, di una produzione di

biomassa superiore rispetto alle piante terrestri, e di un ruolo predominante

nell’assorbimento globale di CO₂. Alcuni di questi dati sono plausibili, ma spesso vanno

presi con senso critico, soprattutto quando vengono proposti senza considerare la scala o

il contesto ambientale. L’oceano, ad esempio, ha una profondità variabile e un contenuto

di nutrienti che può diluire molto l’effettiva capacità fotosintetica della colonna d’acqua.

Non è semplice fare confronti diretti.

In ogni caso, ciò che è evidente è che le aree urbanizzate, come anche le zone sterili, non

contribuiscono all’assorbimento di CO₂, ma anzi rappresentano spesso sorgenti emissive.

Il contributo delle piante ornamentali o da appartamento, per quanto ci piaccia pensare il

contrario, è irrilevante in termini quantitativi.

Per analizzare le emissioni di CO₂ e di altri gas inquinanti, esistono strumenti ufficiali

come la banca dati INEMAR, acronimo di INventario EMissioni ARia. Questo progetto è

nato attorno agli anni 1999-2000 dalla collaborazione tra le regioni Lombardia e

Piemonte, ed è stato sviluppato da ARPA Lombardia. Attualmente è utilizzato anche da

altre regioni, tra cui Emilia-Romagna, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Puglia e le province

autonome di Trento e Bolzano. Queste ultime, pur essendo province, svolgono le funzioni

di una regione autonoma e redigono piani e programmi a livello regionale.

macrosettori,

In INEMAR le emissioni sono suddivise per che rappresentano le principali

categorie di fonti emissive. Alcuni esempi: produzione di energia, combustione non

industriale (cioè il riscaldamento domestico), combustione industriale, processi

produttivi, trasporti, uso di solventi, gestione dei rifiuti, e ovviamente l’agricoltura.

Sempre presente è la voce “altro”, che raccoglie tutte le fonti non classificate altrove.

Particolarmente interessante è la categoria dell’agricoltura, che rappresenta un insieme

molto eterogeneo. Include infatti aspetti positivi (come l’assorbimento di CO₂ da parte

delle piante coltivate) ma anche negativi, specialmente quando si tratta di agricoltura

intensiva, che può comportare notevoli emissioni di gas serra e degrado del suolo. Un

campo coltivato è certamente meglio di un’area urbanizzata in termini ecologici, ma

resta comunque molto diverso da un ecosistema naturale complesso. Inoltre, mentre le

colture assorbono CO₂ durante la fotosintesi, le lavorazioni agricole, l’uso di fertilizzanti,

l’irrigazione e altri input energetici comportano emissioni consistenti.

La zootecnia, in particolare, è uno dei settori agricoli con il maggiore impatto in termini di

emissioni. Le emissioni dirette di metano e protossido di azoto legate agli allevamenti

intensivi sono significative, ed è ormai opinione comune che la zootecnia intensiva sia tra

le principali fonti di gas serra in ambito agricolo. Naturalmente esistono pratiche agricole

più sostenibili, come l’agricoltura biologica o di precisione, che possono ridurre

sensibilmente l’impatto ambientale.

INEMAR consente di visualizzare le emissioni anche in forma grafica, ad esempio tramite

istogrammi che mostrano la ripartizione percentuale delle sorgenti per ogni tipo di

inquinante. Si può osservare, ad esempio, che la quasi totalità dell’anidride solforosa

proviene dalla combustione industriale, mentre il monossido di carbonio deriva in larga

misura dal trasporto su strada. I dati sono disponibili anche in forma assoluta (tonnellate

o chilogrammi di emissioni per anno) e possono essere suddivisi per vettore energetico

(gasolio, benzina, ecc.). È anche possibile scaricare dati specifici, ad esempio per una

città come Milano, oppure focalizzarsi su un singolo tipo di inquinante o su una specifica

categoria di sorgente.

Ma come vengono raccolti questi dati? Le emissioni vengono stimate a partire da una

rete di monitoraggio ambientale, costituita da stazioni fisse dotate di campionatori e

analizzatori automatici. Alcune misure vengono effettuate direttamente in loco, altre su

campioni prelevati e poi analizzati in laboratorio. Le stazioni sono distribuite

strategicamente per rappresentare diverse situazioni ambientali.

Esistono, ad esempio, le stazioni T (traffico), poste vicino a strade molto trafficate, le

stazioni B (background), che rappresentano una situazione media e non influenzata da

fonti predominanti, e le stazioni I (industriali), situate nei pressi di insediamenti

produttivi. Altre distinzioni vengono fatte in base alla localizzazione urbana: stazioni

urbane, suburbane, rurali e rurali remote (queste ultime collocate a oltre 50 km da fonti

emissive significative).

I dati raccolti vengono poi utilizzati dalle regioni per elaborare strategie di tutela della

qualità dell’aria, un compito previsto dalla normativa ambientale.

Inquinanti atmosferici: limiti, soglie e piani

di gestione

Nel campo del monitoraggio e della gestione della qualità dell’aria,

esistono dei limiti stabiliti per i principali inquinanti atmosferici, quelli più

comuni e meglio conosciuti. Tra questi rientrano l’anidride solforosa (SO₂),

il biossido di azoto (NO₂), gli ossidi di azoto totali (NOx), il particolato

atmosferico (PM) di varie dimensioni, il benzene, l’ozono (O₃) e il

monossido di carbonio (CO).

È utile precisare che la sigla NOx comprende sia l’ossido di azoto (NO) che

il biossido di azoto (NO₂). Spesso si fa riferimento direttamente ai NOx

perché sono più semplici da rilevare rispetto al solo NO₂. Questo avviene

anche perché, una volta emessi, gli NOx tendono a convertirsi in NO₂, che

è la componente più pericolosa per la salute umana. Per questo motivo, il

monitoraggio dei NOx rappresenta un indicatore importante della qualità

dell’aria, anche se ciò che realmente ci interessa, dal punto di vista

sanitario, è la concentrazione di NO₂.

Per ognuno di questi inquinanti vengono stabiliti dei valori limite, ossia

delle soglie di concentrazione da non superare per garantire la tutela della

salute umana e dell’ambiente. Le misurazioni effettuate nei vari punti di

rilevamento vengono confrontate con questi valori per valutare quanto le

concentrazioni reali si discostino dai limiti normativi. A tal fine, viene

anche previsto un margine di tolleranza, ovvero una certa percentuale

di sforamento accettata. In genere, si considera che vi sia un

superamento significativo del limite quando il valore normativo viene

oltrepassato per tre anni su cinque.

Accanto ai valori limite esistono altre soglie significative. Una di queste è il

livello critico, che rappresenta la concentrazione oltre la quale si

verificano effetti negativi diretti sugli organismi viventi, come

alberi, piante ed ecosistemi nel loro complesso. Questo livello non

riguarda necessariamente la salute umana, ma piuttosto l’impatto

ambientale.

Quando invece ci si concentra sui rischi per la salute umana, entrano in

gioco due ulteriori soglie: la soglia di informazione e la soglia di

allarme.

La soglia di informazione è il valore oltre il quale esiste un

 rischio potenziale per soggetti particolarmente sensibili,

come bambini, anziani e donne in gravidanza. In caso di

superamento, è necessario informare tempestivamente la

popolazione affinché vengano adottate precauzioni adeguate.

La soglia di allarme indica una concentrazione tale da

 rappresentare un pericolo concreto e immediato per la salute

pubblica, anche in caso di esposizione di breve durata. Superata

questa soglia, è obbligatorio adottare misure urgenti e incisive per

ridurre l’esposizione.

Quando vengono oltrepassate queste soglie – sia quella critica

ambientale, sia le soglie sanitarie – scattano i piani di gestione della

qualità dell’aria. Questi piani sono strumenti operativi e strategici, pensati

per riportare le concentrazioni di inquinanti entro limiti accettabili.

Piani di gestione: obiettivi e articolazione

I piani si articolano su diversi livelli:

In primo luogo, si interviene con piani d’azione (che in precedenza

 venivano chiamati “piani di emergenza”), i quali mirano al

raggiungimento immediato di un valore obiettivo. Questo

valore rappresenta la soglia da raggiungere in tempi rapidi per

scongiurare effetti sanitari gravi.

Parallelamente, si definiscono obiettivi a lungo termine, più

 ambiziosi, che si pongono come traguardo per una riduzione

strutturale e stabile delle concentrazioni inquinant

Dettagli
A.A. 2024-2025
8 pagine
SSD Scienze biologiche BIO/07 Ecologia

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher leonardoflorio di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Ecologia applicata e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Milano - Bicocca o del prof Mezzanotte Valeria Federica Maria.