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La stabilità nei muri di pietra a secco è data dall’uso di blocchi di grandi dimensioni e di forma regolare;
ciottoli marini e fluviali abbisognano quindi di una malta di terra o comunque d’argilla.
Lo sfruttamento delle cave in superficie è detto coltivazione a giorno o a cielo aperto (va eliminato lo strato
più esterno, alterato da intemperie e vegetazione); il cavapietre sfrutterà strati e fessure naturali che
determinano già una forma isolata ed estrarrà inserendo cunei metallici e facendo leva: dopo aver inciso una
parete verticale e una orizzontale, il cavapietre scava a dx e sx dei solchi fino alla profondità desiderata per il
blocco e infine determina la faccia posteriore. L’ultimo solco veniva inciso sotto il blocco. Cunei di legno
molto secco venivano conficcati nei fori lungo una linea di rottura e spruzzati con acqua e coperti di stracci
bagnati. Non si estraevano solo blocchi a forma di parallelepipedo, ma anche colonne di qualsiasi
dimensione. Quando la coltivazione a gradoni raggiungeva il livello più basso ai piedi del pendio naturale, i
cavapietre proseguivano tracciando in verticale il fronte di cava; spesso conveniva aprire gallerie. I sistemi di
cavatura sotterranea si dividono in per camere sotterranee, per pozzi, per pilastri naturali (sconveniente
perché molta parte della roccia non poteva essere asportata, servendo per il tetto e per le volte), per pilastri
costruiti (questi ultimi due tipi si differenziano dalle camere per la loro forma regolare e per la presenza per
l’appunto di pilastri con funzione di sostegno). I blocchi venivano fatti scivolare lungo strade in discesa, ai
lati delle quali erano impiantati perni di legno attorno a cui erano avvolte le funi per frenare le slitte cariche
di marmo, che potevano essere trainate da buoi; si potevano fissare i blocchi in mezzo a ruote di legno,
oppure essi venivano posti, man mano che si scalzava la faccia inferiore, su rulli.
Già al momento dell’estrazione, e quindi nella cava stessa, i blocchi ricevevano una forma il più possibile
vicina alla definitiva, poi successivamente venivano sbozzati e squadrati con l’aiuto di asce e martelli (a
percussione lanciata) o col punteruolo (scalpello a punta); infine rifiniti con la gradina o lo scalpello piano
(percussione poggiata) e anche tramite la molatura della superficie (bagnata) con pietre tipo pomice. Nel
medioevo, a volte si tagliavano le estremità dei conci dei livelli inferiori smussando appena le estremità dei
blocchi formando un piano di imposta in maniera da iniziare ad impostare il profilo dell’arco: tale
disposizione permetteva di utilizzare le centine solo nella parte superiore dell’arco al di sopra dei vari conci
aventi ormai la funzione di mensole autoportanti. Fra gli strumenti di misurazione ricordiamo: la riga
graduata (in piedi, ovviamente, e coi sottomultipli palmi e digiti); le squadre con bracci fissi a 90° o mobili
per qualsiasi tipo di angoli nei conci; il compasso; l’archipendolo, una sorta di livella per verificare la perfetta
orizzontalità dei piani (era una squadra a forma di A con una tacca verticale al centro della traversina, e al cui
apice pendeva un filo a piombo: quando questo corrispondeva alla tacca, il piano era orizzontale). Per porre
le pietre in opera si usavano rulli, per quelle a terra, altrimenti pulegge, verricelli, paranchi (sistemi a più
pulegge), capre. La capra consisteva in due pali di legno rizzati obliquamente sul terreno a triangolo e fissati
con tiranti, e al vertice vi era una puleggia o un paranco azionato da verricelli girati a mano (che si
bloccavano per le traversine presenti fra i pali) o da ruote cave girate da persone che vi camminavano dentro.
I blocchi in sé e per sé erano imbracati in vari modi: in genere erano avvolti da corde, ma poi era difficoltoso
recuperarle dopo la posa in opera; allora si usavano i dadi o tenoni (cilindri di pietra risparmiati su due o
quattro facce dei blocchi, ai quali si agganciavano le funi e che venivano eliminati a lavoro completato);
orecchioni laterali a U scavati nelle facce laterali dei blocchi e pertanto invisibili dopo la posa; l’olivella (tre
barrette verticali dal profilo complessivo a coda di rondine che si inserivano in una piccola cavità, 10 cm
circa, ricavata nella faccia superiore dei blocchi, e che si legavano tramite un asse ad una staffa tonda a cui si
connetteva il gancio da tiro); le tenaglie che “pinzavano” i blocchi inserendosi in due cavità precedentemente
scavate simmetricamente e lungo l’asse nelle facce laterali. La faccia inferiore o piano di posa, e quella
superiore o piano di attesa, dovevano essere perfettamente levigata (soprattutto a secco) per ottenere una
distribuzione ottimale delle pressioni. Per le facce laterali era sufficiente ricavare il riquadro di anatirosi, che
assicurava una perfetta giunzione fra due pietre. Il blocco veniva collocato nell’esatta posizione sempre
servendosi di leve, per le quali era necessario predisporre dei fori nei piani d’attesa delle pietre già poste in
opera; per dare migliore solidarietà all’insieme erano usate grappe di metallo ai bordi laterali dei blocchi, fra
una pietra e quelle adiacenti, per prevenire aperture di giunti dovuti a movimenti di assestamento della
struttura: precauzioni inutili se le fondamenta erano solide; infatti le grappe sono state depredate nel
Medioevo, ma le strutture non ne hanno risentito. I greci usavano grappe a doppio T, i romani grappe a P
greco, molto più semplici da applicare: si ricavava la cavità fra i due blocchi, veniva inserita la grappa e il
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tutto poi era fissato da una colata di piombo. Il collegamento verticale fra i blocchi poteva essere completato
da uno verticale (usato per di più per le colonne): dal momento che sarebbe stato difficile introdurre il
piombo nella cavità superiore fissando il perno nella cavità inferiore (e spesso infatti venivano incastrati a
secco), i perni metallici venivano inseriti nel blocco superiore, si colava il piombo nel blocco inferiore,
prevedendo anche dei canali di scolo che arrivavano al limite della facciavista, e si sistemava il tutto.
Quando l’argilla secca e perde l’acqua si screpola, perciò vengono usate come sostanze digrassanti o la
paglia, o la sabbia. Pisè è la muratura in terra argillosa compressa, fatta in cassaforma e battuta col
mazzapicchio, dopo aver debitamente isolato il terreno con pietra (ciò si faceva quando il materiale pietraceo
era difficilmente reperibile; inoltre era economico, ma non si potevano ottenere grandi dimensioni).
Altrimenti si preparavano blocchetti parallelepipedi in forma, messi poi ad essiccare al sole, e questi si
potevano allettare senza cassaforma sigillandoli con argilla umida, e si potevano avere anche notevoli
dimensioni dei muri. Soprattutto con argilla cotta si potevano avere costruzioni a tenuta stagna (tipo
canalizzazioni) perché l’argilla è impermeabilizzante. Il forno per la cottura ha una camera di riscaldamento
che viene rifornita di combustibile attraverso un’apertura parzialmente murata durante la cottura. Questa è
coperta da una volta in mattoni forata per permettere il passaggio di calore. La parte superiore viene caricata
attraverso una porta d’accesso completamente murata durante la cottura, mentre la cima si lascia aperta per lo
sfiatatoio e quindi il tiraggio. I mattoni vengono lasciando degli spazi vuoti per assicurare l’omogeneità della
cottura, che avviene ad una temperatura ottimale di 800° e ad una minima di 450° (al di sotto non solidifica
ma ritorna allo stato secco e pulverulento) e per tre giorni di fila. Anche tegole e mattoni venivano bollati e
potevano assumete forme più svariate (per esempio quarti di cerchio per colonne). Il colore del laterizio
dipende essenzialmente dalla quantità di ferro contenuta nel laterizio. Molto dipende anche dalla percentuale
di ossigeno presente nella camera di cottura e dalla temperatura raggiunta: ad una temperatura di 1000° e con
giusta ossigenazione, l’argilla assume il caratteristico colore rosso; se la temperatura è maggiore (non oltre i
1200° perché in tal caso l’argilla fonde e vetrifica) si avranno variazioni dal rosso cupo al bruno o grigio; se è
minore, si avrà una colorazione giallo chiaro/marrone pallido (ma i mattoni saranno poco resistenti), non
sempre indice di cattiva cottura, ma anche di poca ossigenazione (ossido ferroso, che è incolore, invece che
ossido ferrino, che dà la tipica colorazione rossa). Le differenze cromatiche danno luogo a giochi di colore.
Le pietre calcaree per diventare calce viva hanno bisogno di una temperatura di 1000° in un forno uguale a
quello per la ceramica e anche qui la cottura dura per diversi giorni (CaCO3 + calore – CaO + CO2); la calce
viva è una pietra pulverulenta, dallo stesso volume ma più leggera. Poi viene spenta con l’acqua, e quindi si
ha il processo di idratazione (CaO + H2O – CaOH) che produce il cosiddetto grassello. La stagionatura del
grassello è di almeno 6 mesi; tale periodo si prolungava fino a 3 anni presso i romani (Plinio), questo per
evitare che piccole parti di calce non siano idratate: se dopo la costruzione avviene l’idratazione a causa
dell'umidità, si verifica il fenomeno detto sbullettatura cioè distacco di una parte dell'intonaco grande come
una moneta causato dal rigonfiamento della particella idratata in ritardo, che aumenta di volume. Il termine
sbullettatura è dovuto al fatto che i fori nell’intonaco somigliano a quelli di chiodi cavati. In relazione al tipo
di pietra calcarea, la calce ottenuta si divide in aerea (grassa, fra 0,1 e 1% di argilla; magra 2-8%, pietre che
nel processo di spegnimento assorbono poca acqua), che cristallizza solo in presenza di aria; idraulica (più
dell’8% di argilla, assorbono molta acqua) cristallizza in assenza di aria, quindi anche in presenza di un
liquido. Per la malta abbiamo bisogno dell’inerte. Avremo malte grasse, con poca sabbia, e malte magre con
molta sabbia e quindi assorbono più acqua. Gli inerti costituiscono l’ossatura minerale della malta e hanno il
compito di aumentare il volume dell’impasto, di facilitare il passaggio dell’anidride carbonica nell’interno
della malta stessa (necessario per una buona presa o indurimento della malta), e infine per impedire, quale
degrassante, il ritiro volumetrico con conseguente formazione di screpolature dell’intonaco. La sabbia più
usata è quella di fiume che, prima dell’uso, deve essere ben lavata per eliminare le impurità, mentre la sabbia
marina viene utilizzata solo nel caso in cui non è possibile reperire altra sabbia e solo dopo accurati e
numerosi lavaggi, in modo da eliminare i sali. Altri inerti sono: cocciopesto, pozzolana. I romani infatti non
conoscono la calce idraulica, ma la rendono tale grazie all’uso di questi due