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−D
J = .
dx
La ”driving force” della diffusione stazionaria è quindi la presenza di un
gradiente di concentrazione (da più concentrato a meno concentrato). La dif-
fusione stazionaria viene usata soprattutto nei processi di purificazione (idrogeno
per esempio).
3.4 Diffusione non stazionaria
Se la diffusione non è stazionaria, come nella maggior parte dei casi, il flusso
di diffusione e il gradiente di concentrazione in un certo punto di un solido
variano con il tempo.
Se si misura quindi il flusso dopo diversi intervalli di tempo, si riscontrerà che
per esempio la sostanza diffusa è sempre più in profondità nel materiale. Tramite
questo processo si possono anche irrobustire i metalli.
3.4.1 Seconda legge di Flick
Si può inoltre dimostrare che l’aumento della concentrazione in un piccolo el-
emento di volume è uguale alla diminuzione del flusso attraverso quest’ultimo. La
seconda legge di Flick spiega tutto ciò attraverso la seguente formula:
2
∂ C
∂C = D .
2
∂t ∂x
3.5 Fattori influenzanti la diffusione
Esistono diversi fattori che influenzano la diffusione, tra cui:
• Specie diffondenti: il coefficiente di diffusione D è indicativa della velocità
con cui gli atomi diffondono;
• Temperatura: all’aumentare di essa la diffusione aumenta la sua velocità
attraverso la seguente relazione: Qd
−
D = D e ,
RT
0
dove D è il coefficiente indipendente dalla temperatura e Q l’energia di at-
0 d
tivazione della diffusione.
Per l’auto-diffusione dei metalli, sussiste una proporzionalità diretta
tra l’energia di attivazione e la temperatura di fusione (Figura 3.3).
Maggiore è il legame molecolare, maggiore è l’energia necessaria per spostare
un atomo.
3.6 Meccanismi di diffusione alternativi
Esistono altri fenomeni di diffusione, che coinvolgono maggiormente i difetti di linea
e superficie. La migrazione atomica infatti avviene anche nelle dislocazioni, nei
bordi di grano e nelle superfici esterne. Questi percorsi sono più veloci ma quasi
sempre trascurabili per il fatto che le sezioni di materiale coinvolte sono esigue.
3.7. APPLICAZIONI E ESEMPI DIFFUSIONI 37
Figure 3.3: Relazione tra energia di attivazione e temperatura di fusione
per l’auto-diffusione nei metalli
3.7 Applicazioni e esempi diffusioni
Ci sono moltissime applicazioni per quanto riguarda la diffusione. Degli esempi
sono:
• Saldatura indotta per diffusione: consiste nel sottoporre ad alta pressione
e temperatura due superfici policristalline a contatto (Figura 3.4). Questo
processo è attuabile solo per metalli poco reattivi.
Figure 3.4: Processo di saldatura indotta per diffusione
• Sinterizzazione: è un processo di saldatura delle particelle soprattutto uti-
lizzata per i materiali ceramici (Figura 3.5). Nel punto di contatto delle
due superfici si creerà un bordo di grano.
• Segregazione: meccanismo per il quale le molecole di soluto, una volta
aver superato il limite di solubilità, tendono a formare una fase separata
(segregazione), detta precipitato.
• Crescita dei grani: se la temperatura di un materiale policristallino con
grani di piccole dimensioni è abbastanza alta, gli atomi che compongono i
grani più piccoli si dirigono verso quelli più grandi, ingrandendoli a
loro volta. Questo processo avviene perché un materiale con grani di piccole
dimensioni ha un’energia superficiale elevata, il che lo rende instabile.
38 CAPITOLO 3. DIFFUSIONE
Figure 3.5: Processo di sinterizzazione
A livello industriale, la diffusione serve per esempio a indurire e rendere
più resistente all’usura un materiale metallico. Per far ciò, all’acciaio per
esempio vengono fatti diffondere al suo interno o carbonio (cementazione), o azoto
(nitrurazione), o entrambi (carbonitrurazione).
Questi processi vengono effettuati pure sulle componenti di protesi di ginocchio
o di anca per renderle più longeve e resistenti.
Capitolo 4
Proprietà meccaniche
In questo capitolo vedremo le proprietà meccaniche dei materiali nel loro specifico.
4.1 Comportamento elastico
Partiamo col dire che l’applicazione di una forza ad una qualunque struttura
crea uno stato di sollecitazione che causa una deformazione. Si definisce come
sforzo σ (unità di misura: Pa) il rapporto tra la forza F e la superficie A su
cui essa agisce: F
σ = .
A
Esistono inoltre tre tipi di sollecitazioni statiche:
• Trazione: ortogonale alla superficie;
• Compressione: ortogonale alla superficie;
• Taglio: parallela alla superficie.
Se la sollecitazione impressa è una trazione o compressione, allora si avrà una
deformazione del solido e questa viene espressa secondo la relazione:
−
l l ∆l
0
ϵ = = ,
l l
0 0
dove l è la dimensione del pezzo, nella direzione della forza, prima della sol-
0
lecitazione, mentre l è la dimensione dopo di essa.
Se la sollecitazione, invece, è di taglio, la deformazione è data dal rapporto:
d = tan θ ,
γ = b
dove θ è l’angolo di taglio, b è l’altezza del solido e d è lo spostamento dato dalla
sollecitazione.
Se la deformazione è istantanea, indipendente dal tempo e reversibile
una volta rimossa la forza, allora il comportamento del materiale viene detto
elastico lineare. Ogni materiale ha un campo di deformazione entro il quale ha
un comportamento lineare. 39
40 CAPITOLO 4. PROPRIETÀ MECCANICHE
4.1.1 Legge di Hooke
Nei casi di deformazione lineare, possiamo osservare delle correlazioni dirette tra
sforzo e deformazione. Esse si dividono in base alla tipologia di sollecitazione
impressa:
• Trazione/compressione: σ = Eϵ, dove E indica il modulo elastico, an-
che chiamato ”modulo di Young”;
• Taglio: τ = Gγ, dove G indica il modulo di taglio.
E e G sono costanti elastiche proprie di ogni materiale ad una certa temperatura e
si misurano in GPa.
In termini di volume, inoltre, si può descrivere la compressione uniforme per
effetto di una pressione idrostatica. La pressione idrostatica P necessaria a far
variare il volume di un certo ∆V si trova attraverso la seguente formula:
∆V
−K · ,
P = V 0
dove V indica il volume iniziale.
0
I materiali rigidi hanno elevate costanti elastiche perché servono delle
pressioni molto elevate per far variare il loro volume. Ovviamente è facile
intuire come all’aumentare della temperatura diminuisca il modulo elastico di un
materiale perché le oscillazioni amplificate dal calore fanno allontanare sempre di
più gli atomi dalla loro posizione di equilibrio, diminuendo la forza del legame.
Oltre a questa dipendenza, esso deriva anche da altri fattori. Uno fra tutti è
sicuramente il legame intramolecolare del solido. Nella lista che segue vengono
indicati in ordine decrescente le categorie di solidi in base al loro modulo
elastico:
1. Solidi covalenti: rigidità intrinseca dovuta alla forte direzionalità del legame;
2. Solidi metallici;
3. Solidi ionici;
4. Polimeri.
Un ulteriore modo per capire il valore del modulo di Young di un materiale è
quello di rappresentare il grafico σ/ϵ e studiarne la pendenza. Essa darà proprio
come risultato il valore di E . Nel corso di una deformazione elastica lineare
la curva che si forma è una retta. Durante l’applicazione dello sforzo il solido
immagazzina al suo interno dell’energia elastica E esprimibile tramite la seguente
el
formula 1 1 2
E = σϵ = σ E ,
el 2 2
corrispondente all’area sottesa dalla retta. Una volta rilasciata la forza, il corpo
rilascia tutta l’energia immagazzinata ritornando allo stato iniziale. Si dice quindi
che la deformazione è completamente reversibile.
Curva di Condon-Morse
La curva di Condon-Morse spiega la relazione tra la forza applicata al
solido e la deformazione quando essa è vicina allo zero. In questo caso si
osserva che tutti i materiali si comportano in modo elastico lineare e questo deriva
dalle proprietà microscopiche degli atomi, e più precisamente della loro distanza di
legame. 4.2. COMPORTAMENTO PLASTICO E FRATTURE 41
4.1.2 Meccanismo della deformazione elastica
Le deformazioni elastiche macroscopiche derivano dalle variazioni delle dis-
tanze interatomiche. Ad una dilatazione macroscopica ∆l corrisponde quindi
una variazione media delle distanze di legame ∆r .
Il modulo elastico è quindi la misura della resistenza opposta dagli atomi
alla loro separazione, ovvero la misura delle forze di legame interatomiche.
4.1.3 Coefficiente di Poisson
Oltre ad un allungamento lungo l’asse di trazione, nelle deformazioni elastiche si
riscontra anche un minimo contributo di deformazione lungo i due assi nor-
mali alla forza (ϵ , ϵ ). Poisson ha dimostrato infatti che queste deformazioni sono
1 2
legate alla deformazione e allo sforzo primari e vanno sotto la seguente espressione:
σ 1
−υ · −υ · ,
ϵ = ϵ = ϵ =
1 2 1 E
dove υ indica proprio il coefficiente di Poisson. Tale coefficiente può essere
anche scritto come l’inverso del rapporto tra la deformazione laterale (ϵ ) e
lat
la deformazione assiale (ϵ ):
ass ϵ lat
− .
υ = ϵ ass
Se le deformazioni non portano a variazioni di volume, allora il coeffi-
ciente di Poisson è uguale a 0.5. Se invece esso è minore di 0.5, il materiale si
contrae se sottoposto a trazione ed espande se sottoposto a compressione.
Tutti i materiali omogenei e isotropi non possono avere un valore del coefficiente
maggiore di 0.5, mentre questo discorso cade per dei materiali anisotropi.
4.2 Comportamento plastico e fratture
Cosa succede successivamente al superamento del limite di linearità dipende dal
tipo di solido preso in considerazione:
• Vetri e ceramici: dopo la zona di deformazione elastica avviene la cosiddetta
frattura fragile. In questo caso il limite di snervamento coincide con il carico
massimo.
• Metalli: le deformazioni passano dall’essere elastiche all’essere plas-
tiche, ossia permanenti. La plasticità è data dalla non direzionalità del legame
chimico. Se cessa il carico applicato, il solido recupera la deformazione elas-
tica ma non quella plastica (Figura 4.1), rimanendo allungato permanen-
temente. Tale fenomeno è derivante dallo slittamento dei piani cristallo-
grafici dovuti al moto delle dislocazioni.
Superato anche il limite di plasticità si presenta, anche in questo caso, la
frattura. Il limite di elasticità coincide con quello di linearità ed è inferiore
al carico di rottura.
• Elastomeri e gomme: questo tipo caratteristico di solidi presenta delle de-
formazioni che continu