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COLLABORAZIONE CON LA GIUSTIZIA
L’associazione di tipo mafioso è caratterizzata dalla condizione di assoggettamento e omertà
che rende estremamente difficile raccogliere elementi a carico dei soggetti affiliati perché ci
sono serie difficoltà a reperire fonti dichiarative a causa dell’intimidazione dei dichiaranti. In
questo scenario la legge ha previsto dei premi e dei benefici per chi rende dichiarazioni nei
procedimenti penali e quindi diventa collaboratore di giustizia.
Art. 416 bis.1 c.p. - Circostanze aggravanti e attenuanti per reati connessi ad attività mafiose
“[...] Per i delitti di cui all'articolo 416 bis e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni
previste dal predetto articolo ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni di tipo mafioso,
nei confronti dell'imputato che, dissociandosi dagli altri, si adopera per evitare che l'attività
delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori anche aiutando concretamente l'autorità di polizia o
l'autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per
l'individuazione o la cattura degli autori dei reati, la pena dell'ergastolo è sostituita da quella della
reclusione da dodici a venti anni e le altre pene sono diminuite da un terzo alla metà [...]”.
I vantaggi che la legge riconduce alla collaborazione, anche sul piano dell’ordinamento
penitenziario, portano però a ritenere le dichiarazioni rese da questi soggetti poco affidabili e
specialmente quando fanno riferimento ad altri soggetti (molte volte i processi sono stati
rifatti perché i collaboratori avevano raccontato cose false, es. strage di via D’Amelio). Nel
codice di procedura penale non c’è una disciplina specifica per i collaboratori di giustizia se
non per quanto riguarda il loro esame a distanza, infatti gli apporti dei collaboratori vengono
fatti rientrare nella disciplina ordinaria delle dichiarazioni su fatto altrui e sulla chiamata in
correità. Chi depone sul fatto altrui è sentito in qualità di imputato in procedimento connesso
o collegato oppure come testimone assistito. Il problema però è quello di capire se le notizie
date dal collaboratore sono attendibili oppure no: la legge impone una serie di cautele. Le
dichiarazioni rese dal coimputato nello stesso reato o da una persona imputata in un
procedimento connesso o collegato sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che
ne confermano l’attendibilità, quindi servono necessariamente dei riscontri a quello che
viene dichiarato dal collaboratore. Per risolvere il problema della valutazione della chiamata
in correità la giurisprudenza ha elaborato dei criteri (SU Marino 1992) per cui bisogna tenere
conto della credibilità soggettiva del dichiarante, dell’attendibilità oggettiva o intrinseca della
dichiarazione e dei riscontri esterni alla dichiarazione che ne confermano l’attendibilità. Una
volta tenuto conto di questi criteri però la giurisprudenza si è divisa: una parte ritiene che se
non sussistono i primi due criteri è inutile cercare riscontri esterni perché la chiamata in
correità non dovrebbe comunque avere valore probatorio, un’altra parte ammette invece un
vaglio unitario e complessivo dei tre criteri che possono compensarsi l’uno con l’altro (se i
primi due sono carenti, i riscontri dovranno essere molto forti e viceversa). La credibilità
soggettiva riguarda elementi come il rapporto tra i due imputati, la sua attitudine a mentire e
altri fattori, ma bisogna dire che nei processi di criminalità organizzata non ci dovrebbe mai
essere credibilità soggettiva perché il soggetto collabora solo perché vuole ottenere un
trattamento sanzionatorio attenuato, la credibilità oggettiva riguarda la narrazione che deve
essere credibile, chiara ecc. Per quanto concerne i riscontri esterni alla dichiarazione, la
giurisprudenza ha sancito che questi elementi di prova possono essere di qualsiasi tipo o
natura (possono essere prove dirette o indiziarie, dichiarative o documentali, anche ulteriori
chiamate in correità da parte di altri collaboratori), si può trattare di elementi deboli, 40
inaffidabili che si supportano a vicenda ma non bastano delle mere supposizioni o
congetture. Questi criteri di valutazione possono sembrare concetti astratti ma le sentenze di
proscioglimento per mafia si basano quasi sempre su questi elementi teorici. Se in una
dichiarazione c’è una parte inattendibile allora solo quella parte viene eliminata ma non
agisce su tutta la dichiarazione. C’è molta giurisprudenza che da rilievo alla partecipazione
ad eventi come matrimoni, funerali ecc. per trovare riscontri di dichiarazioni e ci si affida a
massime d’esperienza. I riscontri esterni devono avere carattere individualizzante: una volta
deciso che le dichiarazioni di correità si possono sostenere tra loro allora bisogna capire se
queste dichiarazioni si riferiscono effettivamente a quel soggetto ed a quel fatto che gli viene
addebitato, quindi i riscontri devono convergere verso la persona incolpata (succede che ci
siano dichiarazioni di collaboratori che riguardano il soggetto imputato ma su fatti diversi o
addirittura si parla di persone diverse).
Disciplina speciale sui collaboratori di giustizia
Nell’ambito dei processi per mafia la collaborazione ha portato a conseguenze brutali per gli
stessi collaboratori e per le loro famiglie e per questo è nata l’esigenza di proteggere le fonti
che avevano deciso di parlare, per quelle persone che sapevano molte informazioni (vertici),
poi, nasce il problema delle dichiarazioni “a rate”. Dalla necessità di proteggere i soggetti
che decidevano di collaborare con la giustizia nasce la l. 82/1991 che è stata profondamente
rimaneggiata dalla l. 45/2001; ma questa legge aveva anche lo scopo di convincere più
soggetti a parlare: in realtà l’art. 416 bis.1 cp già prevedeva degli sconti di pena per chi
decideva di dare informazioni ma ai giudici interessano anche le dichiarazioni di soggetti già
condannati e per questo la legge introduce misure premiali per i collaboratori di giustizia ma
a differenza della disciplina ordinaria, questa si occupa del campo di esecuzione della pena
(si garantisce un accesso vantaggioso e privilegiato alle misure alternative). Inizialmente la
disciplina sui collaboratori di giustizia incorporava anche quella sui testimoni di giustizia ma
nel 2018 questa è stata scorporata perché si capisce che si tratta di soggetti diversi. La
legge prevede misure o programmi di protezione quando le ordinarie misure di tutela poste
in essere dalle forze dell’ordine o dall’amministrazione penitenziaria non sono sufficienti a
garantire la sicurezza del soggetto che collabora e quando risulta che i potenziali destinatari
di queste misure versano in grave e attuale pericolo a causa di condotte di collaborazione
aventi caratteristiche particolari che la stessa legge prevede. Il grave pericolo deve essere
effetto della collaborazione ma non di qualsiasi collaborazione, ci sono dei requisiti che la
legge detta: innanzitutto si deve trattare di una collaborazione per delitti commessi per fini di
terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale o di cui all’art. 51 c. 3 bis cpp (si delinea
quindi l’ambito di applicazione della norma), le dichiarazioni devono essere rese in un
procedimento penale e devono avere un’attendibilità intrinseca, devono avere carattere di
novità o di completezza (può essere che non dica cose nuove ma molto complete) o per altri
elementi devono apparire di notevole importanza per lo sviluppo delle indagini o ai fini del
giudizio o per le attività di investigazione sulla struttura dell’organizzazione, le dotazioni e le
armi, le articolazioni e i collegamenti o gli obiettivi e le modalità operative dell’associazione.
Quindi chi punta alle misure di protezione deve fornire informazioni che siano inerenti alla
cultura mafiosa dell’associazione e queste informazioni di solito le sanno solo i vertici, non i
normali affiliati. Il rischio nasce proprio dalla natura e dai contenuti di queste collaborazioni
che sono riguardanti elementi strutturali dell’organizzazione. Per valutare se c’è un grave e
attuale pericolo si deve tenere conto sia del contenuto della collaborazione sia del gruppo
criminale, devono essere valutate con riferimento alla forza di intimidazione di cui il gruppo è
in grado di valersi localmente. Una volta valutate le condizioni si possono disporre speciali 41
misure di protezione o addirittura speciali programmi di protezione che comprendono varie
misure di protezione. Uno speciale programma di protezione può prevedere misure come il
trasferimento in luoghi protetti, il cambio delle generalità con documenti validi in quanto sono
rilasciati dallo Stato ma con false generalità, misure di assistenza personale ed economica
in quanto lo Stato paga un alloggio e si fa carico di tutte le spese sanitarie e di assistenza
legale, misure atte a favorire il reinserimento sociale del collaboratore anche nel tessuto
lavorativo, se non si trova una collocazione è previsto un mantenimento. Il collaboratore ha
quindi anche un grande vantaggio economico ma in cambio è soggetto a stringenti doveri.
Le speciali misure di protezione possono essere applicate anche ai conviventi stabili dei
collaboratori e solo in presenza di specifiche situazioni si possono applicare anche ad altre
persone che non sono conviventi ma che essendo collegate al collaboratore sono soggette a
grave, attuale e concreto pericolo. Molti soggetti decidono di non collaborare per non creare
tutti questi disagi alla famiglia ed ai conoscenti che sarebbero esposti ad un rischio maggiore
e a queste misure invasive. Quando l’imputato o il condannato decide di collaborare lo deve
comunicare al pm e sempre il pm chiede le misure di protezione, naturalmente si tratta di un
pm della DDA perché la competenza è loro, in caso di contrasto è il PNA che decide chi
deve chiedere le misure di protezione. Quindi il pm chiede le misure di protezione, non il
soggetto che vuole collaborare. La richiesta viene decisa dalla commissione centrale sulle
speciali misure di protezione che è composta da nove membri non tutti magistrati che
decidono se servono misure di protezione o un programma di protezione. Una volta decise
dalla commissione centrale le misure vengono eseguite e seguite dal servizio centrale di
protezione che è un organo interforze formato dalla Polizia di Stato, dai carabinieri, dalla
Guardia di Finanza ecc. Quindi il servizio centrale di protezione esegue quanto disposto
dalla commissione. La persona che collabora ottiene quindi una serie di vantaggi sia in
termini di misure di