MALATTIE VASCOLARI
Le chemochine sono coinvolte in diversi aspetti degli eventi vascolari, soprattutto nel rischio di aterosclerosi che è
mediato da un accumulo non solo di materiale lipidico, ma anche di monociti o macrofagi che aumentano
l’infiammazione. Anche in questo caso siamo a livello dei modelli animali, non ci sono ancora trasposizioni in vivo
sull’uomo.
È stato visto un ruolo sia delle CXC che delle CC:
CXCL8, CXCL12, CXCL10, CCL1 che sono molto importanti nella vascolarizzazione
CCL2 e CCR2, i topo KO sia per il recettore che per il suo ligando avevano fino all’85% in meno di deposizione
lipidica a livello della placca aterosclerotica a parità di dieta. Quindi questo poteva essere un fattore che
proteggeva dal rischio cardiovascolare. Questo è importante su due fronti: dal fronte del monitoraggio, se ci
fosse un modo per monitore realmente l’accumulo di colesterolo nella placca aterosclerotica sarebbe più
informativo rispetto alla misurazione del colesterolo nel sangue. Inoltre, è importante per studiare potenziali
farmaci che vadano a ridurre l’accumulo di lipidi nel sangue e in modo più mirato nella placca.
Topi KO per CX3CR1 erano protetti da aterosclerosi indotta da un’alimentazione troppo ricca di lipidi.
QUINDI LE CHEMOCHINE SONO BIOMARCATORI DI PATOLOGIA? LEGGI SULLA SLIDE L’ARTICOLO DELLA GALLIERA. 55
USO CLINICO DELLE CHEMOCHINE
Per riassumere, le chemochine possono quindi essere utili come biomarcatori. A seconda delle patologie siamo più o
meno avanti. In alcuni casi abbiamo già un’applicazione sull’uomo, in altri siamo ancora fermi sull’animale a causa del
problema della ridondanza che non ci fornisce una correlazione diretta tra livello della chemochina e della patologia.
Tuttavia, vi è il vantaggio che le chemochine sono molecole note sia nella letteratura che come strumenti per misurarle.
Serve un’evidenza scientifica, una correlazione il più possibile diretta e univoca con la patologia ma il nostro
biomarcatore deve anche rispondere a delle richieste di tipo pratico e tecnico: deve essere facilmente misurabile e
facilmente accessibile. Un fattore molto importante delle chemochine è che, essendo solubili e molto note, abbiamo
già una serie di strumenti per misurarle:
****
1. Citofluorimetria: ne permette la misurazione tramite marcature con Ab. Il campione, in cui sono presenti
potenzialmente le citochine di interesse, viene marcato con degli anticorpi specifici, a loro volta marcati con dei
fluorocromi (fino a 20 colorazioni). I fluorocromi stimolati dal laser del citofluorimetro emettono a lunghezze
d’onde diverse che vengono raccolte dal sistema di detection dello strumento e a seconda di quanti canali
dispone lo strumento possiamo riconoscere e quantificare un pannello di chemochine diverse.
2. La stessa cosa si può fare in ELISA ed ELISPOT con supporto solido e non
fluido. Il concetto dell’esame si basa ancora sul riconoscimento mediante
anticorpi monoclonali che per le chemochine ormai sono ampliamente
diffusi e sviluppati.
3. Sempre per le chemochine è stato sviluppato un approccio su array
che permettono di monitorare l’espressione genica (microarray a
cDNA) o l’espressione proteica (protein array), il tutto con approccio
High throughput. Su un vetrino viene posto DNA o proteina e, con
una quantità piccolissima di campione del paziente, facciamo
un’indagine High throughput. Esistono pannelli di citochine per
rischio cardiovascolare e aterosclerotico e questi vengono studiati con pannelli di
microarray dedicati. Si va verso la medicina personalizzata. Sono analisi ancora
molto specifiche, non ancora applicabili ad ampio raggio su un laboratorio di analisi
poiché serve strumentazione specifica, ancora molto costosa: un pannello
citochinico costa 5000€. Ciononostante, comincia a dare le prime evidenze e si
spera che poi si possano abbattere i costi.****
LIMITI
il loro limite è dovuto alla ridondanza, sono raramente organo-specifiche e anche in quel caso è difficile che ci sia una
correlazione univoca con l’asse “singola chemochina - singolo recettore - singola patologia” e questo limita
l’applicazione soprattutto nelle prime fasi di una patologia. Per questo motivo è meglio andare verso questo approccio
High throughput, in modo tale da capire in che direzione si sta muovendo la patologia, rispetto a cercare un goal
standard. Nel caso delle chemochine non ha senso cercare un solo goal standard. Per essere un biomarcatore devo
avere una correlazione univoca chemochina alta/bassa → ho/non no la patologia.
Solo in alcuni casi specifici dove i modelli KO fanno emergere un ruolo non ridondante, allora si può fare una correlazione
diretta e anche tentare un approccio diagnostico e anche farmacologico: se quell’asse chemochina-recettore è così
fondamentale per la patologia, riesco sia a seguirla che a bloccarla. 56
STRATEGIE FARMACOLOGICHE
Le chemochine sono già note come bersagli farmacologici per
diverse patologie infiammatorie. La regolazione delle chemochine
può avvenire a diversi livelli, e tutti questi livelli possono essere un
target farmacologico. Possiamo avere:
Anticorpi bloccanti che bloccano il recettore o la
chemochina.
Inibitori della sintesi, che riducono l’agonista
Antagonisti recettoriali, delle molecole simili alle
chemochine che vanno a legare il recettore. Riconoscono
il recettore in modo specifico, come se fossero una
chemochina, ma poi non trasducono il segnale.
È come se fosse un recettore decoy farmacologico,
qualcosa che lega specificamente quel recettore ma che poi non trasduce il segnale. Il recettore è però legato
e quindi non disponibile per una chemochina funzionante.
Si può sfruttare il fatto che i recettori hanno 7 domini transmembrana, che erano già ampiamente studiati e si
riusciva già ad accenderli, spegnerli e addirittura modularli: si può avere un’applicazione farmacologica ancora
più fine per modulazione dell’attività. Questo è possibile tramite gli small molecule antagonist che permettono
la modulazione, ad esempio, di Questi sono già stati sviluppati per chemochine coinvolte in diverse patologie
e hanno il vantaggio di essere meglio tollerati perché sono molecole piccole e soprattutto non hanno l’obiettivo
di bloccare totalmente il recettore, competendo con la chemochina,
ma lasciano che la chemochina possa legare il recettore perché loro
vanno a legarsi al recettore in un sito diverso da quello per l’agonista:
nel sito allosterico. Questo sito è diverso dal sito di legame e
permette di modulare la risposta del recettore; questo è importante
quando il nostro obiettivo è modulare la risposta infiammatoria, non
spegnerla (per esempio nel caso dei trapianti). NB: il sito ortosterico
è quello dove si lega l’agonista.
CONCLUSIONI
Quando si parla di chemochine si parla di un sistema chemochina-recettore con circa 50 chemochine note e altrettanti
recettori. Inoltre, non abbiamo un legame univoco ma abbiamo la ridondanza, per cui un recettore può essere attivato
da chemochine diverse. Questo limita l’applicazione delle chemochine poiché non sono organo-specifiche o malattia-
specifiche. Si cerca di sopperire con sistemi High-throughput.
Caratteristiche:
- Sono solubili. coinvolte quindi nelle patologie dove queste
- Sono note. funzioni sono alterate. Le possiamo usare come
- Si può tentare anche di fare il passaggio come biomarcatori da associarsi a quelli già presenti
target farmacologico. dove però possono aggiungere
- Sono coinvolte nelle reazioni fisiologiche: un’informazione più precisa → aumentano la
chemotassi, angiogenesi, crescita, ecc. Sono medicina di precisione. 57
BIOMARCATORI OSTEOIMMUNOLOGICI LEZIONE 7 – 26. 09
Nel contesto osseo unito all’immunologia si stanno sviluppando biomarcatori: si è capito che il tessuto osseo può essere
causa e conseguenza di una lista di situazioni che non hanno nulla a che fare con lo scheletro in sé. Si è scoperto che il
tessuto osseo può avere una forte correlazione col sistema immunitario, in particolar modo con l’infiammazione.
Il problema delle protesi, ad esempio, è che dove c’è infiammazione l’osso si stacca dalla protesi. La protesi è disegnata
per fare osteo-integrazione, ma se c’è infiammazione l’osso si riassorbe, si sgretola intorno alla protesi e quindi si stacca.
Questo è un primo esempio di come la presenza di un infezione ha un effetto diretto sull’osso.
Si era sempre pensato all’osso come un tessuto inerte che serviva a sostenere il corpo, serviva come riserva di minerali
(Ca soprattutto) e serviva come sede dell’emopoiesi. Inoltre, si pensava che una volta formato stava lì, al massimo dava
problemi nell’anziano come osteoporosi. Ma si considerava come qualcosa di stabile che si riattivava al massimo con
fratture o artrosi. L’osso, in realtà, è un tessuto sempre metabolicamente attivo e reattivo, è in continuo
rimodellamento E costantemente si rinnova (così come si rinnova la pelle e i capelli).
Il tessuto osseo non ha solo funzione meccanica di sostegno e di protezione, quindi una funzione passiva e strutturale,
ma ha anche una funzione metabolicamente attiva: è metabolicamente in comunicazione con tutto ciò che lo circonda,
quindi con l’ambiente endogeno. Lo fa partecipando a mantenere l'equilibrio elettrolitico dell'organismo: l’osso è la
riserva per eccellenza di calcio; infatti, se andiamo in deplezione di calcio circolante, per esempio per un
malassorbimento, lo riassorbiamo dall’osso. Importante è quindi il concetto di riassorbimento osseo, riassorbimento
della matrice ossea in risposta a uno stimolo.
Non è un semplice rinnovamento cellulare per senescenza (con demolizione del tessuto vecchio che viene sostituito
con quello nuovo, come invece può avvenire nell’epidermide) ma un vero e proprio rimodellamento. L’osso risponde a
stimoli interni, come appunto la carenza di calcio o di altri minerali, oppure esterni come l'apparecchio ortodontico, che
fa rimodellare l’inserzione del dente nella struttura ossea, oppure il peso di un carico ponderale monolaterale (come lo
zaino portato su una spalla sola) che porta ad un rimodellamento della colonna, determinando infatti la scoliosi, oppure
riscontriamo un rimodellamento osseo anche negli sportivi che praticano uno sport monolaterale, come golfisti e
tennisti, che possono avere una densità ossea differente nei due arti e in cui c'è quindi la necessità di andare ad allenare
anche l'arto controlaterale. Il riassorbimento osseo è perci&ograv
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