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sempre emana dalla Luna e illumina la terra. Poi il ricordo del dolore passato, che, però, sembra

addolcirsi: fra le lacrime – è vero –, ma pur sempre è luce quella che appare agli occhi (luci anch’essi)

“è, né cangia stile”

del poeta. A questo punto la sferzata della ragione, in forma quasi eleatica: (v. 9), il

o mia diletta luna”

dolore come l’Essere. Ma subito dopo una sorta di riconciliazione con la Natura: “ . E

“mi giova”

) del ricordo, anche se è ricordo di cose dolorose e, pertanto, rinnova la

segue il piacere (

tristezza.

La luna è una donna graziosa e diletta che s’inchina ad alleviare il pianto umano, dolce e lenitrice di

dolore, scende a rischiarare la selva, a ridare nuovo vigore alla luce degli occhi del poeta velati dal

pianto. Non vi è solo predilezione per i notturni lunari, ma un crollare nelle braccia di chi dà affetto, un

affetto

espandere tutt’intorno i segreti del suo essere uomo.

Serpeggia nel tessuto dell’opera leopardiana un’immagine di donna che vuole essere madre: anche il

critico Amoretti, svolgendo un’analisi psicanalitica del poeta in questione, individua talune immagini

Amoretti

che confermano l’onnipresenza di una madre che dà sicurezza. La luna è senz’altro una di queste

immagini, la luna che presenta tutti gli attributi prima elencati; a ciò si aggiunge il colle, lo stesso

immagini

dell’infinito, che dipinge sul telo dell’opera, i seni materni, gli stessi che ci danno sicurezza e protezione,

che ci preservano dai prematuri colpi della vita. ”Alla

Tutti gli elementi sottolineati rappresentano una pedina del mosaico chiamato “piccolo idillio”: in

luna”

, nascono e si espandono gli aneliti di vita, di speranza, di felicità, che ancora invadono gli

orizzonti leopardiani. Nella vita del Leopardi dei piccoli idilli un istante di gioia infinita o d’immenso

dolore giovanile sono fonte di pacati e dolci ricordi, che aiutano a sopravvivere nel mondo delle

illusioni.

Dopo il l835, su una copia dell’ultima edizione a stampa, Leopardi aggiunge i versi l3 e l4: una

riflessione sulle sue convinzioni giovanili e una presa di distanza da esse, che sottolinea però la portata

della funzione del ricordo, legandolo alla speranza. Di fronte alla morte incombente (e quasi presentita

dal poeta) le certezze della ragione non sono piú scalfite dal sogno, dall’illusione o dal ricordo; ma

quando la vita – seppure con tutto il suo bagaglio di dolore – appariva una via in gran parte da

percorrere, allora il ricordo non solo saldava il passato al presente, ma offriva anche una prospettiva di

speranza per il futuro. Una sorta di dilatazione del presente verso l’eterno (e l’infinito) che rammenta il

tema nicciano dell’eterno

eterno ritorno.

ritorno “Zibaldone

Zibaldone”

Zibaldone

Lo stesso tema è presente, in forma piú “filosofica”, in una pagina dello . L’eterno ritorno

delle cose passate non è un processo meccanico, ma il frutto di una azione (volontaria) del soggetto

che, rivivendo realmente nel presente affetti ed esperienze passati, quasi in una continua rinascita, fa in

“che tanto ci

qualche modo rivivere anche i luoghi e gli oggetti, sottraendosi e sottraendoli cosí al Nulla

ripugna”

. Lo scorrere di un fiume tra i sassi del greto, la cima di un albero contro la Luna, la Luna stessa

che a metà di ogni ciclo splende intera nel cielo possono suscitare in noi il ricordo di una emozione,

che, immediatamente, cessa di essere ricordo per farsi emozione viva, presente, che lacera realmente la

carne del nostro cuore. - 20 -

L’INCIPIT del “CANTO NOTTURNO

OTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DALL’ASIA”

LL’ASIA” – GIACOMO

N DA

LEOPARDI “

Canto Notturno di un pastore errante

Ultimo dei grandi canti del ciclo pisano – recanatese, il

dall’Asia”

dall’Asia , mette a frutto l’esperienza metrica e tematico – filosofica della fortunata stagione creativa,

offrendo una prova metrica di definitiva maturità e presentando la materia esistenziale sotto la luce di

un’oggettività inedita nei testi precedenti. Qui, insomma, la rappresentazione prescinde in modo

costitutivo dalla personale vicenda del soggetto poetico: non c’è Recanati, non c’è la biografia

es: Silvia

leopardiana, non ci sono altre figure sostitutive ( ). Il distacco dall’autobiografia e

dall’esperienza contingente spinge il poeta ad affidare la responsabilità del discorso a un soggetto

appositamente costruito: un pastore nomade dell’Asia. Ciò contribuisce ad universalizzare gli

dell’Asia

interrogativi e le conclusioni formulate da Leopardi: esse riguardano il senso dell’esistenza, la posizione

dell’uomo all’interno dell’Universo, e giungono qui ad una radicalità inedita.

TESTO:

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

contemplando i deserti; indi ti posi.

Ancor non sei tu paga

di riandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

di mirar queste valli?

Somiglia alla tua vita

la vita del pastore.

[….]

La forza e l’urgenza dell’interrogazione sono sottolineate in vari modi: per mezzo dell’esortativo

“dimmi” “che fai”

, attraverso la ripetizione del sintagma e del sostantivo “luna” con funzione vocativa,

“tu”

rafforzato dal pronome . La domanda, dunque, non è una domanda oziosa, da poeta dell’Arcadia,

non è una domanda retorica, o una domanda letteraria, che serva solo a dire che la luna sta in cielo e a

dialogare con lei romanticamente. La domanda del pastore vorrebbe in ogni modo una RISPOSTA;

RISPOSTA essa

rappresenta dunque una RICHIESTA RADICALE DI SENSO, rivolta al paesaggio naturale impersonato

SENSO

nel simbolo più classico e suggestivo, la luna. La modernità di Leopardi sta già in questo bisogno di

luna

significato in questa necessità, cioè, di ritrovare un significato; il che presuppone che i significati

tradizionali siano venuti meno. S’interroga la luna, anziché dialogare con lei, perché ci si sente

abbandonati in una condizione di solitudine, senza più il conforto della voce proveniente dalla natura,

senza più la certezza che tra IO e MONDO vi sia una corrispondenza affettuosa di significato e di

valore. Più moderno ancora è però il fatto che la luna leopardiana non risponda. In tutto il canto, non

c’è nemmeno un indizio del fatto che ella ascolti le domande incalzanti del pastore, le intenda, fornisca

una qualche risposta. La luna è MUTA. Questo dato inquietante non è però il risultato di una scoperta

avvenuta attraverso lo svolgimento della canzone, perché essa parte anzi già con la consapevolezza del

“luna”

fatto che la luna non parla; a prova di questo, infatti, sin dall’inizio al sostantivo si associa

“silenziosa”

l’aggettivo , caratterizzando subito la ritrosia e l’indifferenza

indifferenza dell’interlocutrice. La luna muta

rappresenta senza alcun dubbio la natura muta, ed esprime la difficoltà dell’uomo

o moderno ad

dell’uom

accedere alla sfera dei significati, ad avere risposte convincenti e complete alla propria fame di senso.

- 21 -

PIRANDELLO E “NOVELLE

NOVELLE PER UN ANNO”

” – “CIAULA

CIAULA SCOPRE LA LUNA”

“ ANNO “

“Ciaula scopre la luna”

La novella fu scritta da Luigi Pirandello e fa

“Novelle per un anno”

, uscita nel 1922.

parte della raccolta “Rosso Malpelo”

, è

L'ambiente, analogamente alla novella di Verga

quello della zolfatara siciliana, in cui, anche dopo la rivolta popolare

dei Fasci Siciliani, tra il 1890 e il 1894, duramente repressa dal

governo Crispi, permangono

pesanti condizioni di

sfruttamento dei lavoratori.

Non è comunque questo

aspetto sociale a interessare

Pirandello, che, a differenza

di Verga, si concentra

piuttosto sull'analisi interiore

degli individui, sui loro

individui

drammi intimi e

incomunicabili, sulla loro

crisi di identità e di coscienza, sul disagio umano di vivere che

caratterizza l'uomo e tutta la letteratura europea del primo

Novecento.

Come già Rosso Malpelo, anche Ciaula è un diverso, un

diverso

povero scemo senza età, preso in giro da tutti e sfruttato

come una bestia dai superiori, che si trova perfettamente a

suo agio nella cava, non conoscendo altri ambienti al di fuori, abituato quindi a muoversi nel buio

come un animale notturno, estraneo al mondo, di cui forse non sospetta neppure l'esistenza, ed anche a

notturno

se stesso. Ma una sera viene anche per Ciaula un momento decisivo e rivelatore, intenso quanto

inaspettato: costretto a lavorare fino a tardi nella cava per trasportare del materiale all'esterno, Ciaula,

uscendo timoroso dalla buca sotto un peso esagerato, si trova per la prima volta, lui abituato a vivere

nell'oscurità delle viscere della terra, solo nella notte rischiarata dalla luna, che non aveva mai visto

luna

prima. In questo momento Ciaula, vissuto fino allora all'insegna della brutalità, sia a livello individuale

(egli non parla, emette solo il verso della cornacchia, da cui deriva il suo soprannome) che sociale (gli

altri lo deridono perché inferiore e demente), sembra finalmente scoprire la propria umanità,

umanità

scoppiando in un pianto di commozione, di gioia, di liberazione: un sentimento momentaneo ma

finalmente umano, come se solo in quell'istante egli avesse aperto gli occhi e fosse veramente nato. E

così, da Ciaula “il diverso”, si passa istantaneamente a Ciaula “il commosso”, dalla visione della luna,

diverso” commosso”

intesa come portatrice di serenità.

Come si nota dalla lettura della novella, il paesaggio è il distaccato e talvolta ironico scenario delle

sventure umane: questo perché fra NATURA e SOCIETA’ si è aperta una frattura incolmabile che rende

impossibili le corrispondenze simboliche fra l’una e l’altra. In questa novella ancora di più s’evince ciò,

proprio perché la luna appare del tutto lontana e ignara del destino degli uomini. Essa sta lì,

imperturbabile e serena, quasi sorridendo delle sorti degli esseri mortali.

- 22 -

IL TESTO

I picconieri, quella sera, volevano smettere di lavorare senz'aver finito d'estrarre le tante casse di zolfo che bisognavano

il giorno appresso a caricar la calcara. Cacciagallina, il soprastante, s'affierò contr'essi, con la rivoltella in pugno,

davanti la buca della Cace, per impedire che ne uscissero. - Corpo di... sangue di... indietro tutti, giù tutti di nuovo alle

cave, a buttar sangue fino all'alba, o faccio fuoco! - Bum! - fece uno dal fondo della buca. - Bum! - echeggiarono

parecchi altri; e con risa e bestemmie e urli di scherno fecero impeto, e chi dando una gomitata, chi una spallata,

passarono tutti, meno uno. Chi? Zi' Scarda, si sa, quel povero cieco d'un occhio, sul quale Cacciagallina poteva fare

bene il gradasso. Gesù, che spavento! Gli si scagliò addosso, che neanche un leone; lo agguantò per il petto e, quasi

avesse in pugno anche gli altri, gli urlò in faccia, scrollandolo furiosamente: - Indietro tutti, vi dico, canaglia! Giù tutti

alle cave, o faccio un macello! Zi' Scarda si lasciò scrollare pacificamente. Doveva pur prendersi uno sfogo, quel povero

galantuomo, ed era naturale se lo prendesse su lui che, vecchio com'era, poteva offrirglielo senza ribellarsi. Del resto,

aveva anche lui, a sua volta, sotto di sé qualcuno più debole, sul quale rifarsi più tardi: Ciàula, il suo caruso. Quegli

altri... eccoli là, s'allontanavano giù per la stradetta che conduceva a Comitini; ridevano e gridavano: - Ecco, sì! tienti

forte codesto, Cacciagallì! Te lo riempirà lui il calcherone per domani! - Gioventù! sospirò con uno squallido sorriso

d'indulgenza zi' Scarda a Cacciagallina. E, ancora agguantato per il petto, piegò la testa da un lato, stiracchiò verso il

lato opposto il labbro inferiore, e rimase così per un pezzo, come in attesa. Era una smorfia a Cacciagallina? o si

burlava della gioventù di quei compagni là? Veramente, tra gli aspetti di quei luoghi, strideva quella loro allegria,

quella velleità di baldanza giovanile. Nelle dure facce quasi spente dal bujo crudo delle cave sotterranee, nel corpo

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