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Tommaso Lorenzetto Bologna, Liceo scientifico G. Castelnuovo, Tesina per esame
di Stato 2011____
Le fotografie non sanno mentire ma i bugiardi sanno
fotografare:
Breve riflessione intorno all’etica della fotografia
Introduzione storica
La fotografia nasce convenzionalmente nel 1839 e viene inquadrata fin da subito
come asservita alle arti e non come opera originale. Questa considerazione ci è
evidente nelle parole poste a chiusura del discorso pronunciato da Paul Delaroche in
occasione della presentazione ufficiale della fotografia: «Per concludere, la mirabile
scoperta di monsieur Daguerre ha reso un servizio immenso alle arti».
In “Le public moderne et la photographie” del 1859 Baudelaire definisce la fotografia
“un rifugio per tutti i pittori mancati, mal dotati o troppo pigri per completare gli studi”
Un importante dibattito avvenuto tra gli stessi fotografi fin dai primissimi anni ha visto
contrapporsi i sostenitori della fotografia straight (diretta, in cui il fotografo “non
interviene”) e fotografia staged (costruita, in cui l’intervento del fotografo è
predominante). In breve tempo però le argomentazioni dell’accezione straight
divennero debolissime in quanto ci si rese conto che ogni immagine diretta contiene in
se elementi di alterazione basati su ciò che l’autore ha ritenuto opportuno fare. Anche
la più semplice descrizione, in quanto umana, è
un’interpretazione.
I grandi processi quali quelli di Mayer e Pierson in Francia nel
1862 o di Napoléon Sarony negli USA nel 1883 hanno messo
ufficialmente in luce la parte soggettiva del processo di
creazione fotografico riconoscendo alla fotografia lo statuto
d’arte. Meyer e Pierson citarono in giudizio alcuni loro
concorrenti per aver messo in commercio riproduzioni ritoccate
di una loro fotografia. Per sostenere i diritti dei loro assistiti, gli
avvocati di Meyer e Pierson rivendicarono lo statuto artistico
della fotografia (contro questa tesi, che alla fine risultò vincente, si schierò la
cosiddetta “Petition des 26”, firmata tra gli altri da Ingres, MAYER E PIERSON:
Portrait du compte
secondo cui la fotografia non può essere assimilata all’arte). Camille de Cavour, 1856
L’importanza di questo riconoscimento è evidente nell’articolo 529 del codice penale,
dove leggiamo: “non si considera oscena l’opera d’arte”. I tribunali hanno quindi
sempre protetto la libertà del fotografo quando la fotografia imputata si poteva
inserire nell’ambito della creazione artistica. Ad oggi per non incorrere nella censura è
sufficiente che il fotografo abbia una liberatoria firmata dai soggetti che lo metta al
sicuro dall’accusa di violazione del diritto alla privacy.
La semplicità di questo quadro sembra non dar ragione di tutti i problemi giuridici ed
etici che hanno interessato la fotografia nel corso del ‘900.
Una nuova Cassandra
Cassandra, la veggente omerica, vede e quindi sa. Si sposano in lei per la prima volta
nel pensiero occidentale visione e conoscenza. Il dono che ha ricevuto da Apollo
diventa però subito una maledizione: lei sa, ma nessuno le crede. Anche la fotografia
vede, forse anche meglio. Ma non è affatto sicura di quello che vede, non può affatto
garantire quello che sa. La fotografia è l’anti-Cassandra: sa di dire quasi sempre il
falso, eppure viene ostinatamente creduta.
Una delle primissime fotografie è una totale messa in
scena, eppure la convinzione di una “evidenza
fotografica” permane tutt’ora. Hippolyte Bayard,
inventore di uno dei tre metodi che quasi
contemporaneamente portarono alla possibilità di
registrare la luce, simula un suicidio nel 1840 (ovvero
pochi mesi dopo la nascita ufficiale della fotografia)
proprio utilizzando il sistema da lui inventato. Questo
gesto fu accompagnato da una falso testamento in cui HIPPOLYTE BAYARD,
spiegava le ragioni del suicidio, da ricondursi al non autoportrait en noye, 1840
avvenuto riconoscimento come inventore della fotografia,
merito che riteneva spettasse a lui. Egli morirà per cause naturali 47 anni dopo,
all’età di 86 anni.
Perfino la Chiesa cattolica pretende dalla fotografia “la sincerità, l’onesta, la veracità”
che a quanto pare è convinta sia capace di offrire (pontificia commissione per le
comunicazioni sociali 1971), dando anche in questo caso un contributo
controproducente alle riflessioni etiche della cultura occidentale. Infatti chiunque si sia
interessato alla questione del vero in fotografia sa che prendere coscienza
dell’assurdità di questa pretesa di “veradicità” sarebbe un grande passo in avanti.
Bisogna dire che i fotografi se ne sono resi conto da subito e hanno cercato di
contribuire attivamente. Uno tra tutti Lewis Hine : egli diventa fotografo per ragioni
politiche, per “gettare luce, luce a fiotti” sulle ingiustizie del capitalismo. Egli, militante
della verità, sceglie la fotografia come strumento per affermarla, ma all’ottimismo che
dimostra nel dire “che leva abbiamo, con la fotografia, per la riforma della società” si
affianca la paura che la fotografia possa “contrarre cattive abitudini”, ed è sua la frase
che da il titolo a questa riflessione: “Le fotografie
non sanno mentire ma i bugiardi sanno
fotografare” (1909).
Ansel Adams, fotografo naturalista americano,
negli scritti ufficiali non si sbilancia: “La realtà è
solo un elemento nel processo di produzione di
una fotografia” ma è intimamente consapevole di
questo grande problema e in una lettera personale
a Dorothea Lange scrive: “Quando la fotografia
dice la verità, è magnifica, ma può essere distorta,
deformata, ridotta e compromessa più di ogni altra arte; quel che viene scelto e messo
davanti alla lente può essere falso come la più totalitaria delle bugie”.
Tetons snake
ANSEL ADAMS,
Come afferma Federico Scianna “Ogni fotografia river, 1942
può mentire e dire la verità. L’immagine fotografica è, infatti, un concentrato di
ambiguità incredibile, concetto, quest’ultimo, tra i più fastidiosi e ostici per chi pensa
che l’oggettività dell’inquadratura fotografica, e di conseguenze la capacità di
documentare da parte della fotografia, sia un dogma indiscutibile”.
Ma le cose sono cambiate con la rivoluzione informatica e la deliberata distorsione
delle immagini fotografiche con in supporto dei computer. Nella già citata invettiva di
Baudelaire egli parla di un “Dio vendicatore che esaudisce le preghiere delle folle
borghesi assetate di realismo”. Oggi nell’epoca del computer sembrerebbe che questo
Dio si sia ripreso questo dono.
Michele Smargiassi afferma che “pur conservando la capacità mimetica della
fotografia analogica, quella digitale possiede uno statuto simulatorio spiccato”. La sua
non è una riflessione nostalgica pronunciata sulla tomba della fotografia testimone del
reale, ma un sospiro di sollievo: “Se qualcosa sta finendo con l’avvento delle
tecnologie numeriche applicate all’immagine, non è la veridicità della fotografia, che
non è mai esistita in termini assoluti, ma il postulato della veridicità.”
Quest’occasione di prendere finalmente coscienza di quelli che sono i limiti della
fotografia nella riproduzione del vero ha però un risvolto negativo. Considerare come
storia la fotografia analogica significa sacralizzarla e renderla intellettualmente
inutilizzabile. Infatti l’idea che la fotografia non rappresenti più il vero con assoluta
fedeltà è limitata all’immagine digitale e contrariamente a ciò che sarebbe auspicabile
si è radicata la convinzione del tutto errata che il processo analogico abbia in se’
qualcosa di magico che permette di catturare la realtà senza la minima alterazione.
Il miliziano colpito a morte
A quest’ambito sacro appartengono le icone ed è con una di queste che intendo
Il miliziano colpito a
concludere: il simbolo di tutta la storia etica della fotografia,
morte di Robert Capa.