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Argomento centrale della tesina è la Chiesa cattolica della quale parlerò inizialmente nel suo rapporto storico con lo Stato Italiano nel tormentato periodo che segna l’Unità d’Italia, dai fatti che portarono alla “breccia di Porta Pia” fino ai Patti Lateranensi.
Il Risorgimento italiano aveva prodotto la consapevolezza che si dovesse unificare la penisola perché la divisione in tanti regni e staterelli la rendeva succube delle politiche straniere e incapace di confrontarsi alla pari con i Paesi più importanti e soprattutto con quelli vicini quali Francia e Austria. Il grande “tessitore” dell’unificazione, ossia l’uomo politico più influente nella metà del secolo diciottesimo era sicuramente il ministro del Regno di Sardegna, Stato retto da una monarchia costituzionale, ossia Camillo Benso Conte di Cavour.
Dopo l’accorpamento della Lombardia e dell’Emilia Romagna, che eran costate la perdita di Nizza e della Savoia, e dopo la conquista forzata del Regno delle due Sicilie, retto dai Borboni, era stata proclamata l’Unità Nazionale il 17 marzo 1861 anche se mancavano ancora all’appello i territori di Venezia e soprattutto dello Stato della Chiesa con la sua capitale Roma che, secondo Cavour, “era necessaria all’Italia” ed era destinata a diventare capitale.
L’alternativa era proseguire l’opera di conquista oppure tentare la strada della federazione (idea che era stata inizialmente voluta da Cavour e non era rifiutata dal Papa Pio IX) ma i rapporti erano stati compromessi anni prima dalla cosiddetta Legge dei conventi che aveva portato all’espropriazione forzata degli immobili di proprietà degli Ordini religiosi: nel 1855 era stato infatti enunciato dal Parlamento subalpino il principio del separatismo, quello della Libera Chiesa in Libero Stato (motto che Cavour prende in prestito dal cattolico Montalembert), solo per giustificare l’esproprio dei beni degli ordini contemplativi e mendicanti al quale sarebbe seguito anche quello dell’intero Stato Pontificio. Non era semplice perché la maggioranza degli italiani era cattolica e lo stesso regno piemontese definiva addirittura la Chiesa cattolica “unica religione di Stato”. L’escamotage usato per superare ogni dubbio era stato quello di sostenere che togliere i beni al più che millenario Stato Pontificio, di fatto eliminandolo, serviva a favorire la missione spirituale della Chiesa stessa!
Il Papa non era contrario all’unificazione, anzi era favorevole così come la maggioranza cattolica degli italiani, ma naturalmente non poteva essere imposta come atto di forza peraltro da uno Stato, come il Regno di Sardegna, che non era di certo il più rappresentativo degli Stati Italiani: era periferico e neppure si parlava italiano: anche Cavour parlava in francese e aveva dovuto esercitarsi prima di pronunciare in italiano i suoi discorsi al Parlamento subalpino.
Cavour, prima convinto federalista, si era poi adeguato al principio della “Italia una” di Garibaldi e Mazzini quando quell’idea gli era parsa realizzabile e prima di morire aveva anche costituito, nella nuova capitale Firenze, un governo di vasta unità nazionale con ministri delle regioni appena conquistate.
In ogni caso per conquistare lo Stato della Chiesa serviva il consenso della Francia perché Napoleone III si considerava il protettore dello Stato Pontificio; inoltre Vittorio Emanuele era certo che il suo posto fosse al fianco di Napoleone: se l’impero fosse crollato e fosse risorta la repubblica, vi era il timore che anche la Sinistra italiana cercasse di fare lo stesso con il Regno d’Italia.
Nell’estate del 1870 Napoleone si era trovato coinvolto nella guerra contro l’Impero Prussiano e più volte aveva chiesto l’aiuto italiano, ma l’Italia non era preparata e aveva gravi problemi economici. Il 2 settembre arrivò la notizia della sconfitta di Napoleone a Sedan, e questo eliminò le ultime incertezze: ora erano tutti propensi a sfruttare le disgrazie francesi per impadronirsi di Roma.
La Santa Sede era proprio nei guai: anche se Garibaldi era impegnato in Francia con i suoi volontari per dare una mano alla giovane Repubblica minacciata dai prussiani, restava il potente esercito italiano di circa 60.000 uomini che incombeva ai confini, mentre quello pontificio, comandato dal generale Kanzler, contava circa 13.000 uomini composto da volontari che dovevano garantire, secondo il Papa, soltanto una resistenza del tutto simbolica, quanto bastava per dimostrare all’Europa che non accettava l’occupazione “piemontese” e che era stato costretto a cedere con la forza.
Il governo di Firenze tentò prima la strada di un’insurrezione romana, ma si rivelò impossibile perché i romani erano fedeli al Papa; quindi si provò la strada della mediazione ma anche questa fu inutile.
Fallito così l’ultimo tentativo, la parola passò alle armi. Ai primi di settembre del 1870, il generale Cadorna rivolse un proclama “agli italiani delle provincie romane”: “Noi non veniamo a portarvi la guerra, ma la pace e l’ordine vero”. Così l’esercito italiano arrivava alle porte, ma l’atmosfera di Roma restava tranquilla, tanto che il giorno stesso del colloquio con il mediatore italiano, il Papa aveva inaugurato in Piazza Termini la fontana dell’Acqua Marcia.
La disparità di forze in campo e di impegno era evidente: si pensi che il generale Kanzler aveva fatto erigere delle barricate all’interno delle porte e imbottire con dei materassi gli archi e i monumenti più importanti per difenderli dalle cannonate.
Il generale Raffaele Cadorna, cattolico di stretta osservanza, temeva soprattutto le intemperanze di garibaldini come Nino Bixio e Enrico Cosenz, e aveva sperato fino alla fine in una insurrezione popolare ma alla fine dovette dare il fatidico annuncio dell’attacco per il 20 settembre 1870.
Poco meno di un’ora dopo l’inizio dei bombardamenti, con Bixio che aveva quasi colpito anche la cupola di San Pietro, i bersaglieri superarono la breccia di Porta Pia ed entrarono in Roma senza incontrare alcuna resistenza. In tutto quella gloriosa campagna produsse 49 morti e 141 feriti fra gli italiani, 19 morti e 68 feriti fra i pontifici.
L’accoglienza dei romani alle truppe italiane non pare sia stata corrispondente all’entusiasmo riportato dalla stampa nazionale e alcune famiglie romane addirittura chiusero il portone principale dei palazzi per riaprirlo soltanto dopo il Concordato del 1929.
La “legge dei conventi” e poi le altre leggi cosiddette eversive del 1866-1867 che avevano prodotto l’incameramento di quasi tutti i beni ecclesiastici e poi di quelli dell’ex Stato Pontificio, erano sembrate tanto sfacciate (soprattutto agli occhi dell’Europa) da indurre il Regno Italiano ad approvare la “Legge delle Guarentigie” per regolare i rapporti con la Chiesa e risarcirla dei tanti soprusi. Il Papa rifiutò una legge ancora una volta unilaterale e non accettò il risarcimento (tre milioni di lire!)
I territori espropriati allo Stato Pontificio furono definitivamente accorpati allo Stato Italiano mediante un plebiscito, ossia una votazione di carattere popolare alla quale erano ammessi tutti gli uomini che avessero compiuto 21 anni.
I rapporti tra Chiesa cattolica e Stato italiano sono rimasti da “guerra fredda” fino alla prima parte del secolo scorso, e i cattolici erano stati invitati a non partecipare alla vita politica con il celebre pronunciamento del Papa conosciuto come “Non expedit” (non è opportuno); solo con Benito Mussolini, nel 1929, si arriva alla definitiva soluzione del problema anche se la fase distensiva era iniziata da tempo:
- Pio X, senza eliminare il non expedit, aveva consentito che i cattolici si alleassero con i liberali moderati di Giovanni Giolitti in risposta alle affermazioni dei socialisti;
- nel 1913 si ebbe un ulteriore passo avanti con il patto Gentiloni per cui i cattolici parteciparono anche ad elezioni politiche, votando i candidati liberali con cui condividevano alcuni punti programmatici (libertà della scuola, opposizione al divorzio, ecc.).
- infine nel 1919 papa Benedetto XV abrogò ufficialmente il non expedit e così nacque il Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo, partito di ispirazione cattolica ma aconfessionale, indipendente dalla gerarchia nelle sue scelte politiche
Il Partito Nazionale Fascista di Mussolini presentava inizialmente un programma di "svaticanizzazione" dell'Italia, con progetti di sequestri di beni ed abolizione di privilegi ma ben presto Mussolini, divenuto duce dell'Italia fascista, si rese conto del gran peso sociale e culturale che la Chiesa cattolica aveva in Italia e quindi cambiò i suoi iniziali propositi e volle un'intesa con la Chiesa per consolidare il suo potere, ancora instabile, ed avere un più ampio consenso di popolo.
I Patti Lateranensi hanno regolato i rapporti tra Stato Italiano e Santa Sede in modo consensuale. Comprendevano il Trattato che fondava lo Stato Città del Vaticano e riconosceva indipendenza alla Santa Sede, e il Concordato che regolava i rapporti religiosi e civili tra i due soggetti. Tra gli allegati è importante la Convenzione finanziaria che risolveva la questione relativa agli espropri subìti dalla Chiesa e che prevedeva il sistema della “Congrua” ovvero il Sostentamento dei sacerdoti anche per le nuove funzioni pubbliche loro riconosciute per esempio matrimonio e stato civile.
GEOGRAFIA
Con il Trattato del Laterano viene riconosciuto ufficialmente lo Stato della Città del Vaticano e così il Papa ha ritrovato un’assoluta indipendenza.
E’ il più piccolo stato al mondo, con una superficie di appena 44 ettari inseriti nel tessuto urbano di Roma. Il Vaticano come forma di governo ha una monarchia assoluta “elettiva”, unica al mondo ed è caratterizzata dall’assenza di un parlamento e di partiti politici: infatti il potere viene esercitato in modo assoluto dal Pontefice che accentra in sè i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, e che viene eletto dai cardinali riuniti in “conclave” .
Lo Stato Città del Vaticano è una cosa diversa dalla Santa Sede che infatti preesisteva quando è stato stipulato il Trattato Lateranense e costituisce il Governo dello Stato. Il Vaticano è quindi il territorio che garantisce al Pontefice la piena indipendenza, dove la Santa Sede opera con a capo assoluto il Pontefice; perciò le ambasciate estere sono accreditate presso la Santa Sede e non presso la Città del Vaticano ed è la Santa Sede che partecipa a numerosi organismi internazionali con propri rappresentanti (per esempio è membro dell'OSCE ed osservatore permanente all'ONU) e ha rapporti diplomatici con quasi tutti i paesi. Il Papa può delegare le funzioni senza però perderne mai il potere; nel periodo di “vacatio” fra la morte del papa e la nuova elezione viene governata dal Collegio dei Cardinali e dal cardinale Camerlengo..
Nel territorio del Vaticano, la gestione e la disciplina è sempre stata al limite tra la legge italiana e quella pontificia, anche per quanto riguarda l’aspetto geografico: basti pensare che Piazza San Pietro, che è a tutti gli effetti territorio della Città del Vaticano, è sottoposta ai poteri della polizia italiana. E’ ancora più particolare il caso dell’aula Paolo VI, posta sul confine tra Italia e Vaticano: il confine taglia l’aula proprio sotto al palcoscenico, lasciando, quindi, tutte le poltrone in territorio italiano: se capitasse un reato all’interno dell’Aula, la competenza sarebbe dei giudici italiani ma non avrebbero il diritto di compiere indagini al suo interno.
La lingua ufficiale dello Stato del Vaticano è l’italiano, ma gli atti ufficiali vengono redatti in latino. La moneta ufficiale è la lira vaticana, di pari valore alla lira italiana; dal 2002 però il Vaticano ha adottato come moneta unica l’euro. Inoltre lo Stato è “patrimoniale” ovvero non esiste la proprietà privata perché tutti gli immobili sono di proprietà della Santa Sede. Il diritto di cittadinanza spetta ai cardinali residenti in Vaticano e a Roma e a chi vive stabilmente in Vaticano per ragioni di carica o impiego. E’ dotato di un proprio esercito costituito dal Corpo della Guardia Svizzera Pontificia, avente il rango di Reggimento, ed ha anche un corpo di polizia giudiziaria denominato Corpo della Gendarmeria Vaticana.
FRANCESE
Beaucoup des hommes politiques et écrivains se sont battus pour la liberté religieuse et la nécessité d'une Église libre dans un État libre. Entre eux je va parler de Charles Forbes, comte de Montalembert, un écrivain et homme politique français du XIXe siècle.
Montalembert passe son enfance à Londres, avant de poursuivre ses études à Paris.
Il connait d'articles publiés dans un nouveau quotidien intitulé L'Avenir qui défendait l'Église catholique et la liberté religieuse, et il commence a travailler pour ce journal et il conçoit une idée qui ne le quittera jamais: « La Religion est mère de la liberté ».
Après il fond la première école privée de France en 1831. Cette acte était téméraire, parce que l'État exerçait le monopole absolue sur l'enseignement; donc il était condamné a payer une amende.
Montalembert est entré a la Chambre des pairs (qui avait substitué le Sénat impérial) et à l'Académie française ; avait aussi un siège dans le Corps Législatif de l'Empire mais il a été obligé à l'abandon étant considéré comme un adversaire de Napoléon III.
Montalembert a soutenu la compatibilité d'une démocratie libérale avec la liberté religieuse, et dans cette politique il a prononcé le célèbre mot: «l'Église libre dans l'État libre» que signifie indépendance de l'Église vis-à-vis du pouvoir politique; donc il était libéral mais n’avait pas le même objectif de Cavour (ou bien de exproprier les territoires du Pape) et en effet considérait Cavour un "gran colpevole" pour avoir manipulé le sens de cette idée. Cependant le Pape Pie IX n’était d’accord et fera paraître l'Encyclique Quanta Cura (1864) et le Syllabus condamnant le libéralisme.
Il meurt a Paris en 1870.
ITALIANO
La Chiesa, a prescindere dall’indipendenza territoriale, ha sempre portato avanti il messaggio di un Dio infinito che si manifesta nella storia con la Provvidenza: due autori italiani che vorrei mettere a confronto su questi aspetti sono Alessandro Manzoni e Giacomo Leopardi.
Sono pienamente inseriti nel movimento romantico, che si sviluppa in Germania negli ultimi decenni del ‘700 e i primi del ‘800 e nasce come reazione all’Illuminismo e al Neoclassicismo ovvero alla razionalità e al culto della bellezza classica alle quali si contrappongono la spiritualità, l’emotività, la fantasia, l’immaginazione, e soprattutto l’affermazione dei caratteri individuali d’ogni artista.
Confrontando Giacomo Leopardi e Alessandro Manzoni si può notare una certa differenza in merito alla visione della vita, dell’infinito e della Provvidenza intesa come presenza di Dio nella storia, e questo può vedersi anche nel diverso modo di descrivere la realtà.
Per fare un esempio, Manzoni, nella parte iniziale de “I Promessi Sposi” fa una larga panoramica del paesaggio partendo da “Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno fra due catene non interrotte di monti” e continua, quasi con uno zoom cinematografico, a descrivere quel riposante scenario scendendo fino ad inquadrare il piccolo Don Abbondio, con la sua interiore serenità, mentre rientra dalla passeggiata recitando il breviario.
Leopardi invece sembra fare l’esatto contrario, perché inizia dal particolare, dall’interiorità del protagonista, per poi rivolgere l’obiettivo verso l’immensità; nel Canto “Il Passero Solitario” inizia con il celebre “D’in su la vetta della torre antica, Passero solitario, alla campagna Cantando vai finché non muore il giorno…”
E’ evidente, insomma, il passaggio inverso nell’inquadratura ma è anche evidente, in questa diversa prospettiva, la differenza d’animo con cui i due scrittori vedono la realtà:
Il Manzoni ha lo sguardo rivolto verso l’infinito e poi, come fosse lo sguardo di Dio, inquadra l’uomo, anche il più modesto, lo vede nell’anima e ne fa un protagonista, lasciandogli la libertà di scegliere se fare il bene o il male, se fare il proprio dovere oppure cedere alle pressioni (in questo caso dei “bravi” di don Rodrigo); poi, in modo a volte comico nonostante la gravità del momento, lo scrittore ci riporta il terrore del povero prete di campagna e la sua decisione.
Leopardi, invece, sembra non avere speranze, non vede l’infinità del paesaggio ma lo guarda solo in un secondo momento e soltanto per rattristarsene, come qualcosa che sta lontano dal protagonista e anche dal poeta: “Tu pensoso in disparte il tutto miri...” perché la distanza dalla vita, mai da lui pienamente vissuta, nella quale non entra, rispecchia il suo stato d’animo e il suo pessimismo che da personale diventa cosmico e riguarda tutta la realtà e la storia dell’uomo. In lui manca la presenza di una Provvidenza che può consolare e che consente al Manzoni -attraverso i suoi personaggi- di esprimere la speranza anche con l’umorismo in alcuni dei momenti più drammatici del romanzo (per esempio don Abbondio che, dopo aver intravisto i bravi, aggiustandosi il colletto cerca di vedere se arriva qualcuno; il perdono chiesto da Padre Cristoforo: “..diavolo d’un frate ...quasi gli chiedevo scusa io, che m’abbia ammazzato il fratello”).
Per il Leopardi, al termine della vita, non è possibile guardare “oltre”, verso l’infinito, con speranza, e perciò conclude sconfortato “...pentirommi, e spesso, Ma sconsolato, volgerommi indietro.”
Anche nel celebre canto “L’infinito”, il poeta non vede una speranza data da un Dio eterno che partecipa alla storia con la Provvidenza, ma solo la sua triste condizione limitata ad un orizzonte chiuso dalla siepe posta sull’ “ermo colle”, che lo costringe ad immaginare, a sognare quel che c’è oltre sentendosi però sempre escluso.
L’INFINITO
« Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare. »
Giacomo Leopardi
STORIA DELLA COLONNA INFAME
E’ un’appendice del più ampio romanzo “I Promessi Sposi” e riguarda in particolare la storia legata ad una colonna e una lapide che ricordano la tragedia di una “esemplare” condanna contro presunti “untori”, cioè diffusori della peste del 1630 a Milano.
È il 21 giugno del 1630 quando a Milano due comari notano un uomo con mantello e cappello calato sul viso, camminare rasente una casa e strofinare la mano contro il muro. Le donne vanno a controllare i segni che, secondo loro, l’uomo ha lasciato sul muro e vedono, o credono di vedere, delle macchie gialle. Viene dato l’allarme e anche il Capitano di giustizia dice di vedere dei segni di unto, nonostante il muro fosse stato prima bruciato e imbiancato.
Il presunto untore è Guglielmo Piazza, commissario della sanità, che viene arrestato e poi anche torturato alla corda (appeso, cioè, ad una fune con le mani legate dietro la schiena e lasciato, poi, cadere di colpo), perciò confessa una colpa chiaramente inesistente; per avere l’impunità fa anche il nome di un complice, il suo barbiere, Giangiacomo Mora, che pochi giorni prima gli aveva preparato un vasetto di olio curativo contro la peste. Perquisita la bottega, vengono trovati alambicchi e fornelli che fanno pensare a una vera e propria fabbrica di veleni. Perciò anche il barbiere viene arrestato e torturato con la “legatura della canapa” cioè una matassa con cui si stringe una mano e viene girata fino a slogare il polso. Prima confessa ma poi ritratta ed è ancora torturato finchè ammette tutto e anche lui fa il nome di un’altra persona, cioè quella di un nobile spagnolo che viene poi assolto grazie al suo rango.
Una sentenza del 27 luglio condanna a morte sia il Piazza che il Mora, nonostante le dubbie confessioni, le continue e ripetute smentite del barbiere e l’assenza di prove. Entrambi furono caricati su un carro che li portò nel luogo che il Piazza aveva infettato e poi davanti alla bottega del Mora, dove fu tagliata loro la mano destra e rotte le ossa con la tortura della ruota; infine furono uccisi e i loro cadaveri bruciati e le ceneri gettate nel fiume. La casa del Mora fu demolita e al suo posto eretta una colonna, detta infame, e una lapide che recava la descrizione dei fatti accaduti, in ricordo della “giustizia” compiuta verso i due principali imputati dell’epidemia di peste scoppiata a Milano.
Manzoni è inorridito dalla vicenda e dall’ingiustizia evidente che, secondo lui, non è causata da leggi ingiuste (nonostante esistesse la tortura) ma piuttosto da persone incapaci di giudicare e accecate dal desiderio di trovare capri espiatori. In questo caso è la superstizione a generare dei mostri e la legge non basta quando manca la prudenza e l’intelligenza nell’applicarla.
SCIENZE
Nel romanzo di cui ho appena parlato, la superstizione prevale sulla ragione nonostante l’intervento di giudici che dovevano applicare la legge in modo razionale. Sia la religione cattolica che la scienza sono contrarie alla superstizione e all’ignoranza ed in questo senso si può dire che entrambe sono al servizio dell’uomo anche se è molto diffusa l'opinione secondo cui fede e scienza siano nemiche l'una dell'altra e vicende come quella di Galileo sembrano accreditare questa tesi.
Fede e scienza nascono entrambe da una stessa caratteristica fondamentale dell'uomo, che è quella di porsi delle domande su sé stesso e sul mondo che lo circonda: Chi sono? Perché esisto? Cos'è la vita? E la morte? Cosa c'è dopo la morte? Cosa è giusto? Cos'è l'universo? Qualcuno lo ha creato? E' finito o infinito? E naturalmente nella necessità di cercare risposte in qualche modo adeguate a quesiti che non lo lasciano indifferente.
Se un nostro antico antenato, alla fine di una dura giornata, dopo aver soddisfatto le sue necessità primarie, si fosse sdraiato sull'erba a guardare le stelle sicuramente si sarà domandato davanti a quello spettacolo: ma che saranno mai quelle luci? dei fuochi? e chi le ha poste così in alto? un gigante? un dio? Ecco così nascere in un sol colpo le radici di scienza, filosofia e religione.
Questa è la molla che spinge ogni ricerca religiosa e filosofica, ma in fondo anche scientifica. Si tratta del tentativo dell'uomo di capire qualcosa di sé stesso e del mondo che lo circonda, alla ricerca di un senso e un significato delle cose.
Se si producono teorie scientifiche sperimentate e affidabili vuol dire che si è capito qualcosa della natura, ma per quanto questa comprensione possa essere buona, resta comunque vincolata a dei presupposti, impliciti o espliciti, che possono essere anche molto ragionevoli, ma non certo indubitabili. Se pensiamo alle teorie scientifiche sull’inizio dell’universo, come per esempio il Big Bang, ci rendiamo conto che tutte partono da qualcosa di già esistente e di inspiegabile che rimanda razionalmente al concetto dell’infinito e del creatore non creato. Neppure la fede è la risposta a tutti i perché: credere non significa capire tutto. Nella Bibbia un profeta dice: "Veramente Tu sei un Dio misterioso, o Dio di Israele Salvatore " (Isaia 45,15). La fede non annulla il mistero, anzi gli dà una veste nuova ed un nome al quale richiamarsi, che per noi cristiani è quello di Gesù. Il sano dubbio allora servirà a tenersi lontano da ogni integralismo, scientifico o religioso che sia.
A proposito del contrasto tra fede e scienza, come ho ricordato prima, spesso si richiama la vicenda di Galilei e della sua opera sull’eliocentrismo (“Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo” del 1633) nei confronti dell’Inquisizione romana che, a partire da una inappropriata lettura della Bibbia, credeva fermamente nella centralità del mondo in cui l’uomo, fatto a immagine di Dio, era collocato.
La tesi di Galilei non costituiva una novità poiché già il monaco polacco Niccolò Copernico ne aveva parlato nella sua opera “De revolutionibus orbium caelestium” del 1543.
Quel che si contestava a Galilei era il fatto che proponesse la sua tesi non come ipotesi, ma come verità assodata senza poterla dimostrare completamente: lo scienziato, padre della scienza sperimentale, voleva insomma imporre una teoria che mancava di basi scientifiche certe (tanto che si fondava sul movimento delle maree, che è determinato invece dall’attrazione gravitazionale della luna e del sole).
D’altro canto i teologi volevano condizionare la scienza con una scorretta lettura della Bibbia, tanto che Galilei, comportandosi invece da perfetto teologo, in una lettera scriveva che la Bibbia vuole insegnare piuttosto “come si vadia al cielo” e “non come vadia il cielo”.
Il rapporto tra fede e scienza è spesso considerato in modo sbagliato anche perché molti sono convinti che la scienza sia il regno della razionalità, mentre la fede quello dell'irrazionalità. Ovvero che la scienza segue la ragione, mentre la fede il sentimento.
La fede non è soltanto una scelta emotiva ma, anzi, richiede delle motivazioni profonde e ragionate. Viceversa, non bisogna pensare che l'emotività sia esclusa dall'indagine scientifica, che spesso è vista come fredda ed asettica, come se fosse opera di un calcolatore. Invece la scienza è ricca di fantasia, passione ed entusiasmo.
Scienza e fede, insomma, non sono poi così lontane tra loro e tuttavia esse restano comunque ben distinte: la scienza è necessaria alla fede perché non scada in integralismo o in credulità, e rimanga il ruolo insostituibile dell'intelligenza; la fede è necessaria alla scienza perché essa non perda di vista il punto centrale che è l'uomo, mantenendosi al suo servizio, senza quegli sviluppi che talvolta producono addirittura scoperte contrarie all’umanità.
TECNICA
La divina proporzione o sezione aurea, in matematica e in arte, è una proporzione geometrica: tra tutte le possibili proporzioni, quella aurea sembra essere la vera ispiratrice della bellezza, insita nel creato e quindi espressione del Suo Creatore: perciò è detta Divina.
E’ basata su di un rapporto specifico, nel quale la parte maggiore sta alla minore come la loro somma sta alla parte maggiore: (a+b : a = a : b). Questa proporzione, che per esempio nel rettangolo “aureo” indica il rapporto fra base e altezza, è anche espressa con un numero che approssimativamente è pari a 1.618.
SEGMENTO AUREO
Questo numero, o questa proporzione geometrica definita anche “proporzione aurea”, “numero aureo”, “rapporto aureo”, “sezione aurea”, “divina proporzione” sembra rappresentare il riferimento per la perfezione, la grazia e l’armonia in ogni forma d’arte e la si ritrova spesso nella stessa Natura.
Infatti il rapporto aureo è riscontrabile in molte dimensioni del corpo umano: moltiplicando per 1,618 la distanza che in una persona adulta e proporzionata, va dai piedi all'ombelico, otteniamo la sua statura; così la distanza dal gomito alla mano (con le dita tese), moltiplicata per 1,618, dà la lunghezza totale del braccio. La distanza che va dal ginocchio all'anca, moltiplicata per il numero d'oro, dà la lunghezza della gamba, dall'anca al malleolo. Anche nella mano i rapporti tra le falangi delle dita medio e anulare sono aurei, così il volto umano è tutto scomponibile in una griglia i cui rettangoli hanno i lati in rapporto aureo.
Ha solitamente due significati, uno quantitativo ed uno estetico perché è definita come proporzione matematica ma le viene attribuita anche la capacità di rendere piacevolmente belli ed armoniosi oggetti e forme.
Il vero trionfo della sezione aurea nell’arte si ebbe nel Rinascimento quando rappresentò per tutti gli artisti di quel periodo un canone di bellezza cui ispirarsi. Più di tutti contribuì a questa concezione l’opera scritta da Luca Pacioli “De Divina Proportione”, pubblicato a Venezia nel 1509, illustrata con i disegni di Leonardo da Vinci, e diffusa in tutta Europa; è incentrata proprio sulla sezione aurea come chiave universale per penetrare i segreti della bellezza ma anche della natura; al centro è collocato l’uomo, misura di ogni cosa, sospeso tra un quadrato ed un cerchio nell’“Uomo Vitruviano”, il celebre disegno di Leonardo.
Riconosciuta come un rapporto esteticamente piacevole, la sezione aurea è stata utilizzata come base per la composizione di elementi pittorici o architettonici, ma anche oggi è proposta per la definizione di oggetti tanto comuni come le schede telefoniche o le carte di credito o bancomat, le carte SIM dei cellulari e le musicassette: sono tutti rettangoli aurei con un rapporto tra base ed altezza pari a 1,618.
RETTANGOLO AUREO
Esiste uno speciale rettangolo le cui proporzioni corrispondono alla sezione aurea. Il suo nome è rettangolo aureo. Per costruire il rettangolo aureo si disegna un quadrato di lato x i cui vertici chiameremo, a partire dal vertice in alto a sinistra e procedendo in senso orario, AEFD. Quindi si divide il segmento AE in due chiamando il punto medio A'. Utilizzando il compasso e puntando in A' si disegna un arco che da E intersechi il prolungamento del segmento DF in C. Con una squadra si disegna il segmento CB perpendicolare ad DF, ed il segmento EB, perpendicolare a EF. Il rettangolo ABCD è un rettangolo aureo nel quale il lato AB è diviso dal punto E esattamente nella sezione aurea: AE:EB=AB:AE
Gli architetti e gli artisti greci facevano grande uso dei rettangoli aurei che usavano per realizzare per esempio la base dei templi, com’è evidente nel Partenone, (un tempio octàstilo, perìptero di ordine dorico dedicato alla dea Atena, che sorge sull'Acropoli di Atene) in cui è ben riconoscibile più volte: la pianta è un rettangolo aureo, mentre nella facciata il rettangolo aureo è ripetuto più volte, per esempio sull’architrave fra i capitelli consecutivi. Il Partenone è stato costruito nel quinto secolo a.C. ed è adornato dalle sculture di Fidia; perciò all’inizio del XX secolo il matematico americano Mark Barr ha introdotto, per indicare il rapporto aureo, l’uso della lettera greca ϕ (FI) proprio dall’iniziale del grande scultore Fidia.
ARTE
La Chiesa nella storia ha sempre favorito lo sviluppo dell’arte in tutte le sue forme, promuovendo e finanziando artisti, inclusi gli architetti che si sono cimentati nella creazione di chiese o altri edifici di culto. La Sagrada Familia è sicuramente tra le chiese più celebri e originali; si trova a Barcellona ed è uno dei più famosi lavori di Antoni Gaudì, un architetto catalano nato nel 1852 e morto a Barcellona nel 1926, ritenuto forse il massimo esponente del modernismo catalano (Art Nouveau).
Si tratta di una basilica gigantesca, in costruzione dal 1882, che sarà completata in tempi lunghissimi -fra i 30 e gli 80 anni- perché va avanti solo con le offerte dei fedeli e dei visitatori. Si discute sulla sua realizzazione, per esempio perché vengono usati nuovi materiali da costruzione che forse Gaudì non avrebbe usato e che hanno determinato anche diversità di stili fra parte anteriore e posteriore.
E' uno dei simboli di Barcellona e ad essa Gaudì ha dedicato l'ultima parte della sua vita, esprimendovi tutta la sua arte, tanto che all'apertura dei cantieri vi installò il suo studio e vi si stabilì.
Dopo la morte dell'architetto catalano (1926) i lavori continuarono, ma si interruppero durante la Guerra Civile Spagnola. La costruzione riprese nel 1952 sotto la guida di un altro architetto, che cambiò il progetto originale, andato perso a causa di un bombardamento durante la guerra civile. Gaudì aveva previsto la realizzazione di tre facciate, dedicate rispettivamente alla nascita, crocifissione e resurrezione di Gesù, sette navate e diciotto torri che dovevano rappresentare Cristo, i dodici Apostoli, i quattro Evangelisti e la Vergine Maria. Oggi la Sagrada Familia è formata da due facciate (Natività e Crocifissione), dai fianchi e parte dell'abside e del transetto sinistro. L'unica facciata terminata da Gaudì è quella della Natività, decorata da gruppi scultorei raffiguranti la nascita di Gesù, e da elementi naturalistici. Gaudì infatti riproduce piante, fiori, nuvole e stalattiti di ghiaccio sulla pietra. La facciata della Crocifissione, inaugurata nel 2000, è stata realizzata dall'architetto Subirachs, che ha saputo sintetizzare le proprie idee e quelle di Gaudì, adottando, però, uno stile più moderno e meno imponente. Oggi il cantiere è diventato un'attrazione turistica, grazie alle alte torri, dalle quali si può godere un'ottima vista di Barcellona, e grazie al museo posto vicino al cantiere, dove vengono mostrate ai visitatori le varie fasi della costruzione dalla chiesa. Tornando all’artista è giusto dire che in tempi recenti un comitato di 30 ecclesiastici, accademici, designer e architetti ha proposto la sua beatificazione perché Gaudì è definito"un laico mistico" per la sua vita austera e cristianamente coerente. E’ stato definito da Le Corbusier come il "plasmatore della pietra, del laterizio e del ferro".
Anche se incompleta, la chiesa è stata dichiarata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO e proclamata basilica minore da Papa Benedetto XVI.
INGLESE
Martin Luther King Jr was born in 1929. He attended segregated school in Georgia and then went to Boston University where he graduated in 1955. In 1954 M.L.K. became a pastor in Montgomery and he worked to get civil rights in the 1955 he led a first great non violent demonstration in the USA. He got to married in 1953 and had four children.
This was the bus boycott when black people stopped for one year segregated buses in Montgomery following an incident, when a black woman called Rosa Parks refused to move to another part of the bus to let a white man sit down.
In December 1956 the Supreme Court declared segregation on buses unconstitutional.
In 1957 M.L.K. was elected president of the Southern Christian Leadership conference a new civil rights movement.
M.L.K. was inspired by the Indian leader Gandhi who had advocated non violent protest. On August the 28th, 1968 the organized the peaceful march in Washington D.C. where 250.000 people listened to his famous speech “I have a dream”. In this speech he talked about his hopes for the future when blacks and white could be brothers.
In 1964 he received the Nobel Peace Prize and, in April 4th1968, he was assassinated in Memphis.
EDUCAZIONE FISICA
Come Martin Luther King anche S. Paolo è stato ucciso per portare il messaggio di libertà, uguaglianza, fratellanza nel nome di un Dio che è padre di tutti. Al termine della sua vita fatta di pericoli, arresti e in vista della morte cui era stato condannato, ripensando alla sua missione fa riferimento ad un concetto sportivo e vede se stesso come un atleta che ha fatto il possibile per raggiungere la meta: “Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso ...ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa.... (2 Tim- 4, 6-8).
L’interesse della Chiesa verso l’attività sportiva risale, quindi, agli albori del Cristianesimo anche se la sua riflessione sul mondo dello sport è stata variabile lungo la storia in relazione al variare della cultura e della società: nel Medioevo ha avuto spesso un atteggiamento ostile verso l’attività agonistica, a causa della svalutazione del corpo che l’accompagnava ed ha condannato pratiche sportive come i tornei e i duelli, che portavano al disprezzo per la vita umana, mentre ha mostrato dal XX secolo una maggiore attenzione al fenomeno sportivo, introducendovi un dato fondamentale, la dimensione etica, a fronte del pericoloso ingresso prima di interessi politici e poi economici.
Papa Giovanni Paolo II ha mostrato una grande apertura per sport e ne dato una lettura moderna, sottolineando l’aspetto solidale -attraverso il Giubileo degli sportivi, l’Anno del disabile, ecc...-, e il valore della dignità del corpo nella pratica sportiva, nel segno del rispetto e della fraternità. Oggi, anche grazie a questi insegnamenti, è sempre più sentita l’esigenza di vivere lo sport secondo i principi etici del rispetto delle regole, la stima per il concorrente, l'accettazione della sconfitta, la non esasperazione dell'agonismo, per eliminare le contraddizioni tra agonismo e lealtà, tra economia, professionismo e tutela della salute.
Sicuramente questi princìpi sono stati diffusi negli oratori parrocchiali, veicolo di gioco, formazione umana e sport, capaci di consentire a tutti i giovani di incontrarsi anche per fare sport assieme ed apprenderne i più profondi valori, e che possiamo ricondurre alle figure imponenti di grandi educatori quali erano don Filippo Neri e Don Giovanni Bosco. Grandi sportivi, soprattutto calciatori come Albertini ed i fratelli Giuseppe e Franco Baresi, provengono proprio dalla scuola dell’oratorio ed infatti si sono sempre distinti per correttezza, rispetto degli avversari e delle regole, capacità di saper vincere e saper perdere, oltre che per impegno e capacità.
MUSICA
Mameli nasce a Genova il 5 settembre 1827.
Studiò sotto la guida di Giuseppe Canale, e quasi certamente il suo grande amore per la patria e per l'autonomia nazionale lo prese da questi. Atanasio Canata, docente nel collegio di Carcare (Savona) nella quale Goffredo studiò, si crede abbia suggerito i versi poetici di quello che diventerà “Fratelli d’Italia”.
Pochi anni dopo per le strade già si cantava “L’Inno di Mameli” composto dal musicista Michele Novaro su parole di Goffredo Mameli.
Il documento più antico conosciuto del “Canto degli Italiani”è datato 1901 e venne inciso dalla Banda Municipale del Comune di Milano
Nel 1943 il governo adottò come inno nazionale “La Canzone del Piave”. Nel 1946 però il Ministro della Guerra comunicò che per il giuramento delle Forze Armate si sarebbe adoperato “l’Inno di Mameli”, dichiarando anche che, grazie a un decreto, sarebbe stato provvisoriamente considerato Inno Nazionale Italiano. Questo decreto, però, non vide mai la luce.
CONCLUSIONI
Al termine di questo percorso scolastico, sento di dover ringraziare tutti i professori per gli insegnamenti che mi hanno dato nelle varie discipline ma anche per il loro esempio, le loro correzioni e gli stimoli continui a migliorare in tutto. Spero abbiano un buon ricordo di me.
Ringrazio i compagni di classe con i quali ho condiviso tre anni davvero importanti nei quali, assieme, siamo cresciuti sotto ogni aspetto imparando soprattutto il rispetto e la solidarietà.
Devo ringraziare anche il Preside e il personale della scuola perché sono stati sempre attenti e comprensivi nei miei confronti.
Non posso dimenticare la mia famiglia che mi è sempre stata vicina e mi ha dato la giusta serenità e le possibilità per studiare, crescere e maturare come persona e come cristiano che sa di poter contare anche sul continuo aiuto di Dio.
Non riesco a trovare una parola più adatta: grazie.
INDICE
• Pag. 1-4 Storia: Chiesa e Stato Italiano (dalla “breccia di Porta Pia” ai “Patti Lateranensi”)
• Pag. 5 Geografia: Stato Città del Vaticano e Santa Sede
• Pag. 6 Francese: Charles Forbes comte de Montalembert «l'Église libre dans l'État libre»
• Pag. 7-9 Italiano: Alessandro Manzoni e Giacomo Leopardi: la Provvidenza.
Poesia: Infinito; Romanzo: Storia della colonna infame
• Pag. 10-11 Scienze: Rapporto tra Chiesa e Scienza - Il caso Galilei
• Pag. 12-14 Tecnica: La divina proporzione. Matematica e bellezza. Il Partenone
• Pag. 15-16 Arte un artista credente: Gaudì e la Sagrada Familia
• Pag. 17 Inglese: un politico credente: Martin Luther King
• Pag. 18 Ed. fisica: Chiesa e sport. Le associazioni cattolico-sportive.
• Pag. 19 Musica: inno di Mameli “...Che schiava di Roma Iddio la creò”
• Pag. 20 Conclusioni
• Pag. 21 Indice
GEOGRAFIA
Con il Trattato del Laterano viene riconosciuto ufficialmente lo Stato
della Città del Vaticano e così il Papa ha ritrovato un’assoluta
indipendenza.
E’ il più piccolo stato al mondo, con una superficie di appena 44 ettari
inseriti nel tessuto urbano di Roma. Il Vaticano come forma di governo
ha una monarchia assoluta “elettiva”, unica al mondo ed è
caratterizzata dall’assenza di un parlamento e di partiti politici: infatti
il potere viene esercitato in modo assoluto dal Pontefice che accentra in
sè i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, e che viene eletto dai
cardinali riuniti in “conclave” .
Lo Stato Città del Vaticano è una cosa diversa dalla Santa Sede che
infatti preesisteva quando è stato stipulato il Trattato Lateranense e
costituisce il Governo dello Stato. Il Vaticano è quindi il territorio che
garantisce al Pontefice la piena indipendenza, dove la Santa Sede opera
con a capo assoluto il Pontefice; perciò le ambasciate estere sono
accreditate presso la Santa Sede e non presso la Città del Vaticano ed è
la Santa Sede che partecipa a numerosi organismi internazionali con
propri rappresentanti (per esempio è membro dell'OSCE ed
osservatore permanente all'ONU) e ha rapporti diplomatici con quasi
tutti i paesi. Il Papa può delegare le funzioni senza però perderne mai il
potere; nel periodo di “vacatio” fra la morte del papa e la nuova
elezione viene governata dal Collegio dei Cardinali e dal cardinale
Camerlengo..
Nel territorio del Vaticano, la gestione e la disciplina è sempre stata al
limite tra la legge italiana e quella pontificia, anche per quanto
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riguarda l’aspetto geografico: basti pensare che Piazza San Pietro, che
è a tutti gli effetti territorio della Città del Vaticano, è sottoposta ai
poteri della polizia italiana. E’ ancora più particolare il caso dell’aula
Paolo VI, posta sul confine tra Italia e Vaticano: il confine taglia l’aula
proprio sotto al palcoscenico, lasciando, quindi, tutte le poltrone in
territorio italiano: se capitasse un reato all’interno dell’Aula, la
competenza sarebbe dei giudici italiani ma non avrebbero il diritto di
compiere indagini al suo interno.
La lingua ufficiale dello Stato del Vaticano è l’italiano, ma gli atti
ufficiali vengono redatti in latino. La moneta ufficiale è la lira vaticana,
di pari valore alla lira italiana; dal 2002 però il Vaticano ha adottato
come moneta unica l’euro. Inoltre lo Stato è “patrimoniale” ovvero non
esiste la proprietà privata perché tutti gli immobili sono di proprietà
della Santa Sede. Il diritto di cittadinanza spetta ai cardinali residenti
in Vaticano e a Roma e a chi vive stabilmente in Vaticano per ragioni di
carica o impiego. E’ dotato di un proprio esercito costituito dal Corpo
della Guardia Svizzera Pontificia, avente il rango di Reggimento, ed ha
anche un corpo di polizia giudiziaria denominato Corpo della
Gendarmeria Vaticana. FRANCESE
Beaucoup des hommes politiques et écrivains se sont battus pour la
liberté religieuse et la nécessité d'une Église libre dans un État libre.
Charles Forbes, comte de
Entre eux je va parler de
Montalembert, un écrivain et homme politique français du XIXe
siècle.
Montalembert passe son enfance à Londres, avant de poursuivre ses
études à Paris. L'Avenir
Il connait d'articles publiés dans un nouveau quotidien intitulé
qui défendait l'Église catholique et la liberté religieuse, et il commence
a travailler pour ce journal et il conçoit une idée qui ne le quittera
La Religion est mère de la liberté
jamais: « ».
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Après il fond la première école privée de France en 1831. Cette acte
était téméraire, parce que l'État exerçait le monopole absolue sur
l'enseignement; donc il était condamné a payer une amende.
Chambre des pairs
Montalembert est entré a la (qui avait substitué le
l'Académie française
Sénat impérial) et à ; avait aussi un siège dans le
Corps Législatif de l'Empire mais il a été obligé à l'abandon étant
considéré comme un adversaire de Napoléon III.
Montalembert a soutenu la compatibilité d'une démocratie
libérale avec la liberté religieuse, et dans cette politique il a prononcé
«l'Église libre dans l'État libre»
le célèbre mot: que signifie
indépendance de l'Église vis-à-vis du pouvoir politique; donc il était
libéral mais n’avait pas le même objectif de Cavour (ou bien de
exproprier les territoires du Pape) et en effet considérait Cavour un
"gran colpevole" pour avoir manipulé le sens de cette idée.
Cependant le Pape Pie IX n’était d’accord et fera paraître
Quanta Cura Syllabus
l'Encyclique (1864) et le condamnant
le libéralisme.
Il meurt a Paris en 1870. ITALIANO
La Chiesa, a prescindere dall’indipendenza territoriale, ha sempre
portato avanti il messaggio di un Dio infinito che si manifesta nella
storia con la Provvidenza: due autori italiani che vorrei mettere a
confronto su questi aspetti sono Alessandro Manzoni e Giacomo
Leopardi. 8
Sono pienamente inseriti nel movimento romantico, che si sviluppa in
Germania negli ultimi decenni del ‘700 e i primi del ‘800 e nasce come
reazione all’Illuminismo e al Neoclassicismo ovvero alla razionalità e al
culto della bellezza classica alle quali si contrappongono la spiritualità,
l’emotività, la fantasia, l’immaginazione, e soprattutto l’affermazione
dei caratteri individuali d’ogni artista.
Confrontando Giacomo Leopardi e Alessandro Manzoni si può notare
una certa differenza in merito alla visione della vita, dell’infinito e della
Provvidenza intesa come presenza di Dio nella storia, e questo può
vedersi anche nel diverso modo di descrivere la realtà.
Per fare un esempio, Manzoni, nella parte iniziale de “I Promessi Sposi”
“Quel ramo del
fa una larga panoramica del paesaggio partendo da
lago di Como che volge a mezzogiorno fra due catene non interrotte di
monti” e continua, quasi con uno zoom cinematografico, a descrivere
quel riposante scenario scendendo fino ad inquadrare il piccolo Don
Abbondio, con la sua interiore serenità, mentre rientra dalla
passeggiata recitando il breviario.
Leopardi invece sembra fare l’esatto contrario, perché inizia dal
particolare, dall’interiorità del protagonista, per poi rivolgere
l’obiettivo verso l’immensità; nel Canto “Il Passero Solitario” inizia con
“D’in su la vetta della torre antica, Passero solitario, alla
il celebre
campagna Cantando vai finché non muore il giorno…”
E’ evidente, insomma, il passaggio inverso nell’inquadratura ma è
anche evidente, in questa diversa prospettiva, la differenza d’animo con
cui i due scrittori vedono la realtà:
Il Manzoni ha lo sguardo rivolto verso l’infinito e poi, come fosse lo
sguardo di Dio, inquadra l’uomo, anche il più modesto, lo vede
nell’anima e ne fa un protagonista, lasciandogli la libertà di scegliere
se fare il bene o il male, se fare il proprio dovere oppure cedere alle
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pressioni (in questo caso dei “bravi” di don Rodrigo); poi, in modo a
volte comico nonostante la gravità del momento, lo scrittore ci riporta
il terrore del povero prete di campagna e la sua decisione.
Leopardi, invece, sembra non avere speranze, non vede l’infinità del
paesaggio ma lo guarda solo in un secondo momento e soltanto per
rattristarsene, come qualcosa che sta lontano dal protagonista e anche
“Tu pensoso in disparte il tutto miri
dal poeta: ...” perché la distanza
dalla vita, mai da lui pienamente vissuta, nella quale non entra,
rispecchia il suo stato d’animo e il suo pessimismo che da personale
diventa cosmico e riguarda tutta la realtà e la storia dell’uomo. In lui
manca la presenza di una Provvidenza che può consolare e che
consente al Manzoni -attraverso i suoi personaggi- di esprimere la
speranza anche con l’umorismo in alcuni dei momenti più drammatici
del romanzo (per esempio don Abbondio che, dopo aver intravisto i
bravi, aggiustandosi il colletto cerca di vedere se arriva qualcuno; il
“..diavolo d’un frate ...quasi gli
perdono chiesto da Padre Cristoforo:
chiedevo scusa io, che m’abbia ammazzato il fratello”).
Per il Leopardi, al termine della vita, non è possibile guardare “oltre”,
verso l’infinito, con speranza, e perciò conclude sconfortato
“...pentirommi, e spesso, Ma sconsolato, volgerommi indietro.”
Anche nel celebre canto “L’infinito”, il poeta non vede una speranza
data da un Dio eterno che partecipa alla storia con la Provvidenza, ma
solo la sua triste condizione limitata ad un orizzonte chiuso dalla siepe
posta sull’ “ermo colle”, che lo costringe ad immaginare, a sognare
quel che c’è oltre sentendosi però sempre escluso.
L’INFINITO
« Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
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Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio: »
e il naufragar m'è dolce in questo mare.
Giacomo Leopardi
STORIA DELLA COLONNA INFAME
E’ un’appendice del più ampio romanzo “I Promessi Sposi” e riguarda
in particolare la storia legata ad una colonna e una lapide che
ricordano la tragedia di una “esemplare” condanna contro presunti
“untori”, cioè diffusori della peste del 1630 a Milano.
È il 21 giugno del 1630 quando a Milano due comari notano un uomo
con mantello e cappello calato sul viso, camminare rasente una casa e
strofinare la mano contro il muro. Le donne vanno a controllare i segni
che, secondo loro, l’uomo ha lasciato sul muro e vedono, o credono di
vedere, delle macchie gialle. Viene dato l’allarme e anche il Capitano di
giustizia dice di vedere dei segni di unto, nonostante il muro fosse stato
prima bruciato e imbiancato.
Il presunto untore è Guglielmo Piazza, commissario della sanità, che
viene arrestato e poi anche torturato alla corda (appeso, cioè, ad una
fune con le mani legate dietro la schiena e lasciato, poi, cadere di
colpo), perciò confessa una colpa chiaramente inesistente; per avere
l’impunità fa anche il nome di un complice, il suo barbiere,
Giangiacomo Mora, che pochi giorni prima gli aveva preparato un
vasetto di olio curativo contro la peste. Perquisita la bottega, vengono
trovati alambicchi e fornelli che fanno pensare a una vera e propria
fabbrica di veleni. Perciò anche il barbiere viene arrestato e torturato
con la “legatura della canapa” cioè una matassa con cui si stringe una
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mano e viene girata fino a slogare il polso. Prima confessa ma poi
ritratta ed è ancora torturato finchè ammette tutto e anche lui fa il
nome di un’altra persona, cioè quella di un nobile spagnolo che viene
poi assolto grazie al suo rango.
Una sentenza del 27 luglio condanna a morte sia il Piazza che il Mora,
nonostante le dubbie confessioni, le continue e ripetute smentite del
barbiere e l’assenza di prove. Entrambi furono caricati su un carro che
li portò nel luogo che il Piazza aveva infettato e poi davanti alla bottega
del Mora, dove fu tagliata loro la mano destra e rotte le ossa con la
tortura della ruota; infine furono uccisi e i loro cadaveri bruciati e le
ceneri gettate nel fiume. La casa del Mora fu demolita e al suo posto
eretta una colonna, detta infame, e una lapide che recava la
descrizione dei fatti accaduti, in ricordo della “giustizia” compiuta
verso i due principali imputati dell’epidemia di peste scoppiata a
Milano.
Manzoni è inorridito dalla vicenda e dall’ingiustizia evidente che,
secondo lui, non è causata da leggi ingiuste (nonostante esistesse la
tortura) ma piuttosto da persone incapaci di giudicare e accecate dal
desiderio di trovare capri espiatori. In questo caso è la superstizione a
generare dei mostri e la legge non basta quando manca la prudenza e
l’intelligenza nell’applicarla. SCIENZE