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come nascono emoji

Sembrano innocue, perfino simpatiche. Le infiliamo nei messaggi quasi senza pensarci, come se parlassero una lingua universale capace di colmare qualsiasi distanza. 

Eppure, dietro un emoji si nasconde molto di più di un semplice simbolo colorato: c’è un intero mondo fatto di cultura, contesto e interpretazione.

E non sempre ciò che diciamo con una faccina è ciò che l’altro capisce. Anzi, a volte rischiamo fraintendimenti clamorosi.

Indice

  1. Chi ha inventato gli emoji?
  2. Occhio all’emoji: quello che per te è una risata, altrove può essere un insulto

Chi ha inventato gli emoji?

Come riporta il portale di GeoPop, infatti, tutto è cominciato molto prima del nostro scrollare quotidiano. A inventare le prime “faccine” fu Scott Fahlman, informatico statunitense che nel 1982 propose l’uso delle emoticon — le celebri combinazioni di caratteri come :-) e :-( — per distinguere i messaggi ironici da quelli seri. Ma il vero salto visivo avvenne nel 1999 in Giappone, quando Shigetaka Kurita progettò i primi emoji: 176 simboli da 12x12 pixel per la piattaforma i-mode di NTT Docomo, ispirati alla cultura visiva nipponica.

Da lì in poi, il successo fu globale. Nel 2010 Google e Apple spinsero per la loro standardizzazione attraverso l’Unicode Consortium, rendendoli leggibili su qualsiasi dispositivo. Il resto è storia: nel 2015 l’emoji che ride con le lacrime agli occhi viene eletta “parola dell’anno” dall’Oxford Dictionaries. Con il tempo gli emoji si sono fatti più inclusivi (con diverse tonalità di pelle, generi, disabilità rappresentate) e più personali, grazie ad avatar e intelligenza artificiale.

Occhio all’emoji: quello che per te è una risata, altrove può essere un insulto

Ma, attenzione: gli emoji non parlano davvero un’unica lingua. Keith Broni, primo traduttore di emoji al mondo, lo dice chiaramente: “sono uno strumento linguistico che viene utilizzato per integrare il nostro linguaggio”. E questo strumento, come ogni lingua, cambia da Paese a Paese.

Prendiamo il classico pollice in su: in Occidente è approvazione, in Medio Oriente può risultare offensivo. L’emoji dell’angelo? Da noi evoca purezza, in Cina simboleggia la morte. Le mani giunte? Gratitudine o preghiera per gli occidentali, “grazie” o “per favore” per i giapponesi. E non si tratta solo di sensibilità culturale: in Israele, una serie di emoji festosi è stata ritenuta prova di un impegno contrattuale da parte di un giudice.

Morale? Gli emoji non sono un linguaggio universale, ma uno strumento potentissimo, capace di arricchire — o complicare — la comunicazione. Usarli con consapevolezza è il primo passo per evitare incomprensioni. Anche con una semplice faccina.

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