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Red flag: i segnali per riconoscere una relazione tossica | #Screenshot Carabinieri articolo

Quando si parla di violenza di genere, molti pensano subito a gesti estremi. Ma prima della violenza fisica, c’è quasi sempre una lunga sequenza di segnali ignorati, comportamenti subdoli e apparentemente innocui, che rendono tossica anche la relazione più romantica.

È proprio per imparare a riconoscerli che nella nuova puntata di #Screenshot, il vodcast di Skuola.net condotto da Daniele Grassucci, ci siamo rivolti a due voci autorevoli dell’Arma dei Carabinieri: il Tenente Colonnello Barbara Vitale e il Maresciallo Capo Giulia Zizza, entrambe impegnate in prima linea nel contrasto alla violenza e nella formazione dei più giovani.

Dal controllo dello smartphone ai finti “ultimi appuntamenti”, fino all’importanza di denunciare anche ciò che non lascia lividi visibili: un confronto lucido e necessario, che mette al centro la prevenzione e la consapevolezza

Indice:

  1. Le relazioni tossiche non iniziano con uno schiaffo
  2. Sembrava amore, non lo era: dalle attenzioni al controllo
  3. L’amore che diventa persecuzione
  4. Non serve aspettare il livido per chiedere aiuto
  5. Dallo stereotipo al pregiudizio: la genesi della violenza
  6. Bullismo, cyberbullismo e violenza invisibile
  7. Le parole che possono uccidere

Le relazioni tossiche non iniziano con uno schiaffo

Spesso si crede che la violenza in una relazione parta da gesti plateali, ma il vero pericolo comincia molto prima. Come spiega il Tenente Colonnello Vitale, “la violenza di genere vuol dire tante cose: atti persecutori, molestie, vessazioni… e, nei casi più estremi, purtroppo, anche femminicidi”. In sostanza, è un fenomeno culturale profondo, radicato in stereotipi e pregiudizi che contamina i rapporti quotidiani.

Ecco perché la prevenzione è fondamentale: parlare con i giovani, metterli in guardia su atteggiamenti che sembrano innocui – ma che nascondono fratture pericolose – è il primo passo per fermare la violenza ben prima che lasci un segno visibile.

Sembrava amore, non lo era: dalle attenzioni al controllo

Non c'è nulla di più romantico delle “farfalle nello stomaco” ma, come avverte il Maresciallo capo Giulia Zizza, quell’effetto chimico iniziale è destinato a svanire, lasciando intravedere i primi campanelli d’allarme.

Spesso si tratta di comportamenti che potrebbero essere sottovalutati: “I più frequenti”, spiega, "sono il controllo dell’altro, il limitare le sue amicizie, il vietare la frequentazione di certi luoghi o l’espressione delle proprie passioni”. 

A questi si aggiunge un altro elemento non di rado sminuito o mal interpretato: “Il controllo dei dispositivi, smartphone o computer, che la vittima concede anche volontariamente, proprio perché vuole esaudire i bisogni dell’altro”.

È un meccanismo che all’inizio può sembrare normale, persino tenero, ma che in realtà mina la libertà individuale: “Poi la vittima si isola”, aggiunge Zizza, “e questo isolamento la porta ad acquisire consapevolezza di essere vittima di condotte psicologiche che sono più subdole, ma non meno gravi della violenza fisica”.

L’amore che diventa persecuzione

Quando, poi, una relazione finisce, non sempre finisce per entrambi. A volte uno dei due non accetta la rottura e trasforma l’amore in una forma di pressione continua, fino a sconfinare nello stalking. È proprio quello che è accaduto a Sofia (nome di fantasia), protagonista di uno dei casi più recenti seguiti dall’Arma e riportato come esempio dalle rappresentanti dell'Arma.

Lei, dopo aver chiuso una relazione durata due anni, si è ritrovata bersaglio del suo ex, Luigi: “Continuava a chiamarla, a mandarle messaggi, a cercarla attraverso gli amici”, racconta Zizza. “Anche quando Sofia era con le amiche, pur di non ferirlo, rispondeva comunque al telefono”. Ma quando decide di interrompere ogni contatto, Luigi insiste, la cerca ossessivamente. “Sono comportamenti che spesso non vengono riconosciuti come atti persecutori, ma lo sono”, chiarisce.

E basta poco per finire oltre il limite: “Anche chiamare ripetutamente una persona che ha chiaramente espresso la volontà di non essere contattata è stalking”, spiega. “La cosa più importante è non rispondere più e denunciare. Non bisogna aspettare che la situazione degeneri”.

Non serve aspettare il livido per chiedere aiuto

Perché pensare che solo la violenza fisica sia denunciabile è uno dei più grandi errori. Le due militari non usano mezze misure per spiegarlo: si può – e si deve – intervenire molto prima. “Ci sono forme di violenza psicologica”, dicono, “che sono molto gravi, anche se più difficili da individuare, e possono provocare danni sia nel breve che nel lungo termine”.

Tra queste rientrano anche le offese, le denigrazioni, le minacce verbali, le pressioni ripetute dopo la fine di una relazione. Situazioni che spesso le vittime minimizzano, per vergogna o per paura di non essere credute. Ma non devono farlo: “È importante denunciare, e si può farlo fin da subito”, ribadisce Zizza.

Anche perché, oggi, chi si rivolge alle Forze dell’ordine trova personale formato ad accogliere senza giudizio, pronto a fornire indicazioni concrete e supporto.

Non dimenticando, poi, che esistono strumenti attivi 24 ore su 24, come il numero 1522, gratuito e multilingue, che offre un primo supporto legale e psicologico, indirizzando le vittime verso i centri antiviolenza sul territorio. 

Dallo stereotipo al pregiudizio: la genesi della violenza

In ogni caso, non basta dire ai giovani che la violenza è sbagliata. Bisogna far capire da dove nasce: “I ragazzi sanno cos’è la violenza di genere”, spiega Giulia Zizza. “Il nostro lavoro non è solo quello di definirla, ma di far comprendere il processo mentale che porta a diventare violenti”.

Un processo che parte spesso da qualcosa di apparentemente innocuo: lo stereotipo che “se non riconosciuto, si trasforma in pregiudizio, poi in discriminazione, fino a sfociare anche in violenza”, chiarisce.

Da qui l’importanza dell'intervento nelle scuole, non con lezioni frontali ma con attività che mettono in discussione le immagini che ciascuno ha dell’altro: “Facciamo domande semplici: che idea avete della donna? Che idea avete dell’uomo?”. E dalle risposte è possibile capire molte cose. 

Un esempio di ciò? Ancora oggi lo stereotipo della donna dedita alla casa e alla famiglia è fortemente radicato. Non va meglio per i ragazzi: “Il maschio non piange mai” è, assicurano le rappresentanti dei Carabinieri, uno degli stereotipi più duri a morire.

Eppure, qualcosa si sta muovendo: “Negli ultimi anni vediamo segnali positivi, relazioni più equilibrate, ragazze che fanno il primo passo, ragazzi che esprimono emozioni”. La strada, però, è ancora lunga.

Bullismo, cyberbullismo e violenza invisibile

Non sempre, peraltro, la violenza nasce in coppia. A volte arriva dal gruppo, travestita da esclusione o da battuta. È il caso di Gaia, altra storia-simbolo riportato dalle due ospiti del vodcast: una tredicenne di un piccolo paese, vittima di bullismo da parte delle compagne di classe. “È stata vessata all’interno e all’esterno della scuola, isolata sia fisicamente che online”, racconta il Maresciallo Zizza. E quando ha provato a chiedere aiuto, si è trovata sola anche nella relazione sentimentale: il ragazzo con cui stava l’ha lasciata, anziché sostenerla.

Gaia ha trovato il coraggio di denunciare grazie alla madre e a un’insegnante attenta. Ma il danno era già in atto, e da diverso tempo: esclusione sistematica, umiliazioni, isolamento dai gruppi WhatsApp, prese in giro pubbliche e private.

E quando il confine fisico scompare, il fenomeno si trasforma spesso in cyberbullismo. Il digitale cancella i confini di tempo e spazio: “Le offese ti seguono ovunque, non finiscono mai. Neanche d’estate”, sottolinea Grassucci. È una violenza persistente, invisibile, ma potentissima. E se non viene fermata subito, può tramutarsi in qualcosa di ancora più devastante.

Le parole che possono uccidere

Le parole fanno più male delle botte”: lo scriveva Carolina Picchio – una delle vittime più conosciute del linguaggio e dei comportamenti d'odio – nella lettera che ha lasciato prima di togliersi la vita, dopo mesi di cyberbullismo. La sua storia è ancora oggi un monito doloroso. E purtroppo, anche qui, non è un caso isolato. Sono molti i ragazzi che arrivano a forme di autolesionismo o addirittura a pensieri suicidari, perché schiacciati da un giudizio costante, da un’umiliazione continua.

Minimizzare non è mai una soluzione. Frasi come “lascia perdere” o “sono ragazzate” – spesso pronunciate da adulti e insegnanti – non fanno altro che aggravare il problema: “Il bullismo e il cyberbullismo sono cose serie”, avvertono le ospiti. “Anche il danneggiamento di oggetti personali, le minacce, l’istigazione al suicidio sono reati. Non esiste un ‘reato di bullismo’ nella fattispecie, ma sono comportamenti punibili a tutti gli effetti”.

In questi casi, agire presto è fondamentale. Nel caso dei più giovani, anche una semplice segnalazione formale al dirigente scolastico può avviare un procedimento e impedire che la situazione degeneri: “Chi subisce pensa spesso di essere solo, ma non è così”, conclude Barbara Vitale. “Denunciare serve a sé stessi e anche agli altri. Perché impedire che altri vivano la stessa sofferenza è già un atto di giustizia”.

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