Marcello G.
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Con l'età media tra le più alte d'Europa, troppo poco aggiornati per rispondere con prontezza alle sfide emerse nell'ultimo periodo ma, va detto, anche troppo poco motivati e valorizzati (sia dal punto di vista formale che sostanziale). Sono i docenti italiani ritratti dall'ultimo rapporto diffuso dalla rete Eurydice “Teachers in Europe: Careers, Development and Well-being” che, analizzando la classe insegnante della scuola secondaria inferiore degli Stati membri dell'Unione Europea (ma lo studio comprende ancora pure il Regno Unito), vuole valutare l'impatto delle politiche nazionali sul comportamento di maestri e professori, fornendo spunti per lo sviluppo di future riforme.

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Circa 1 professore su 2 ha oltre 50 anni

In generale, in gran parte del 'sistema Europa' si riscontra una carenza di docenti, che peggiora di anno in anno. Con settori d'insegnamento – su tutti quelli riconducibili alle cosiddette discipline STEM (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica) e alle lingue straniere – che in una prospettiva di lungo termine accusano un pesante ritardo. Nei prossimi anni, infatti, molte cattedre rischiano di restare scoperte. Dipende soprattutto dal tendenziale invecchiamento della classe insegnante, che affligge la metà dei sistemi educativi analizzati. In Italia, ad esempio, circa la metà dei docenti a un’età media che supera in 50 anni e, dunque, è destinata ad andare in pensione nei prossimi 15 anni (è la fetta più consistente, ben più di quella compresa tra i 35 e i 49 anni). Di contro, solo il 6,4% degli insegnanti ha meno di 35 anni (solo Grecia e Portogallo fanno peggio, rispettivamente con il 4,6% e il 3,4%).

La formazione iniziale dei docenti sta scomparendo

Questo quadro, tra l'altro, può dare anche l'idea di che tipo di sforzo abbiano fatto durante l'ultimo anno. Così poco a proprio agio, sia per ragioni anagrafiche che per abitudine, nel dialogare ad alti livelli con le nuove tecnologie. Ma, in realtà, il problema è più grande e parte da lontano. Dal momento della selezione e dell'ingresso dei docenti in servizio. La maggioranza dei sistemi educativi europei, compreso quello italiano, richiede una qualifica minima - equivalente alla nostra laurea magistrale - per l’accesso alla professione, una formazione professionale e, spesso, anche un periodo di pratica in classe. Proprio la percentuale di formazione professionale, però, è variabile da Paese a Paese: si va dal 50% delle ore dedicate alla formazione iniziale nel Belgio francese, in Irlanda e a Malta, al ben più modesto 8% di Italia e Montenegro.

I nuovi insegnanti sono destinati al precariato

Per quanto riguarda, poi, la fase di avvio alla professione per i nuovi insegnanti (da noi chiamato 'anno di prova'), in questo periodo, in media in Europa meno del 50% degli insegnanti ha preso parte a una qualche forma di programma di sostegno all’inizio della carriera. Potrebbe sembrare un controsenso ma, almeno in Italia, è facilmente spiegabile. Dipende dalle condizioni di lavoro a cui vengono sottoposti tantissimi giovani docenti. L'anno di prova, con la relativa formazione ad hoc per garantirsi la conferma in ruolo, è obbligatorio solo per chi ha un contratto a tempo indeterminato. Ma, da noi, più di tre quarti (78%) degli insegnanti under 35 è a tempo determinato, con contratti brevi e spesso non superiori a un anno. Qualcosa di simile avviene, ad esempio, in Spagna, Austria e Portogallo.

Le condizioni di lavoro non migliorano con l'età

E il precariato delle cattedre prosegue anche quando si sale d'età, a cui non sempre corrisponde una crescita professionale. In alcuni Paesi - l'Italia non sfugge - resta alta la percentuale di insegnanti (nella fascia di età 35-49 anni) che lavora con un contratto a tempo determinato: in Portogallo il 41%, in Spagna il 39%, in Italia siamo al 32%. Da noi, in particolare, la discontinuità nel processo di reclutamento di docenti a tempo indeterminato, anche in seguito alle limitazioni della spesa pubblica degli anni passati, hanno spinto sempre più scuole ad assumere insegnanti con contratti a tempo determinato, a qualsiasi età. Ed è proprio questo uno dei pilastri di ogni sciopero del settore, come quelli che proseguono anche in tempi di didattica a distanza.

Poco motivati perché insoddisfatti dallo stipendio

Inevitabile che questa instabilità contrattuale si trasferisca anche sul piano economico. Altro elemento immancabile nelle proteste del comparto. Tra gli insegnanti europei, infatti, sugli stipendi c'è una generale insoddisfazione. Francia, Italia, Portogallo, Romania e Slovenia le nazioni in cui meno insegnanti si dicono appagati dal proprio salario. In Italia, ad esempio, gli insegnanti devono lavorare 35 anni prima di raggiungere lo stipendio massimo, che è circa il 50% in più dello stipendio iniziale. Negli stessi Paesi appena elencati, inoltre, negli ultimi dieci anni gli stipendi degli insegnanti hanno avuto aumenti molto limitati. Alla fine, solo in Belgio, Danimarca, Paesi Bassi, Austria, Finlandia e Inghilterra la percentuale di insegnanti soddisfatti, o molto soddisfatti, del loro stipendio è superiore al valore medio UE del 38%.

Formazione continua: c'è ma non si vede

Formazione carente, aggiornamento che latita, stipendi bassi: un mix esplosivo che finisce per scoraggiare i più, non permettendo di innovare la scuola dal basso. Spesso, come accaduto con la pandemia, i grandi cambiamenti vengono imposti dalle contingenze. Finendo per rendere palese quell'impreparazione di base che, in tempi normali, rimane solo sulla carta ma che, con l’emergenza, diventa evidente. Neanche a dire che ogni tanto si faccia un 'tagliando' per verificare lo stato di salute del sistema didattico. Visto che l'Italia rientra tra le nazioni – assieme a Finlandia, Belgio fiammingo, Spagna, Francia, Cipro, Austria, Paesi Bassi, Portogallo – in cui la valutazione periodica degli insegnanti viene effettuata meno spesso. I più virtuosi da questo punto di vista? I tre paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania), diversi paesi dell’Europa dell’Est, l'Inghilterra e la Svezia.

Manca il confronto con le altre realtà

Infine un accenno alla mobilità internazionale dei docenti, altro tassello che potrebbe aiutare i sistemi ad 'aprire la mente' verso modelli applicati con successo all'estero per provare a importarli nel proprio Paese. Anche questa, però, è carente: al 2018, solo il 40,9% degli insegnanti europei è stato almeno una volta fuori dai confini nazionali per studio, lavoro o entrambi. Con, ancora una volta, l'Italia che compare nella lista degli stati - al pari di Belgio, Bulgaria, Croazia, Malta, Slovacchia, Inghilterra e Turchia - in cui la mobilità transnazionale degli insegnanti in servizio è inferiore alla media europea.
Data pubblicazione 26 Marzo 2021, Ore 15:37 Data aggiornamento 26 Marzo 2021, Ore 16:00
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