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ragazza bullizzata

Dire a un figlio “ciccione”, “brutto” o “nano” non è solo cattiveria. Può diventare un reato. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con una sentenza che sta facendo discutere.

Il caso riguarda un padre, residente in Veneto, condannato per maltrattamenti in famiglia, dopo aver rivolto frasi pesanti e umilianti alla figlia undicenne.

Secondo i giudici, gli insulti verbali, quando arrivano da un genitore, hanno un peso devastante. In quanto vanno a minare l’autostima e incidono sulla costruzione dell’identità. La Cassazione lo ha ribadito chiaramente: le parole contano, e in un contesto familiare possono diventare violenza psicologica.

Indice

  1. Le frasi che feriscono
  2. Un rapporto già compromesso
  3. Body shaming e violenza psicologica
  4. Punizioni e isolamento
  5. Un segnale dai tribunali

Le frasi che feriscono

Secondo la sentenza, dello scorso 15 settembre - così come riportato dal 'Corriere della sera', l’uomo si sarebbe rivolto alla figlia con parole gravissime: "Cicciona, fai schifo! Susciti repulsione in me e in chi ti guarda", una delle frasi su cui i giudici hanno impostato la propria decisione.

Per la Cassazione non si tratta di semplici conflitti familiari, ma di un quadro di “disprezzo sistematico”. E, sempre secondo la Corte, epiteti come "ciccione", "brutto", "nano", "secca" possono provocare gravi conseguenze psicologiche, soprattutto se rivolte da un genitore a un figlio in età evolutiva.

Un rapporto già compromesso

Il padre aveva cercato di difendersi, dicendo di aver visto la figlia solo durante tre fine settimana, tra gennaio e luglio 2020, complici lavoro e restrizioni da pandemia. Ma per i giudici le sue condotte avevano comunque una frequenza reiterata e conseguenze profonde.

Le testimonianze della madre, della sorella dell’imputato e dei servizi sociali hanno rafforzato l’accusa: la bambina viveva gli incontri come occasioni di umiliazione. E il 28 luglio 2020 il padre è arrivato anche a un’aggressione fisica, con la giustificazione di "ragioni legate all’igiene alimentare".

Body shaming e violenza psicologica

Il caso rientra in una linea giurisprudenziale che guarda con sempre più attenzione alle dinamiche psicologiche in famiglia. Il body shaming, infatti, per fortuna non è più percepito solo come un comportamento scorretto, ma come una vera forma di bullismo domestico.

Un precedente emblematico è arrivato dal Tribunale di Verona nel marzo 2024, con un padre tunisino di 36 anni che è stato condannato a 4 anni e 4 mesi di reclusione per aver insultato il figlio di 8 anni chiamandolo, anche qui, “ciccione” e obbligandolo a digiunare durante il Ramadan, nonostante non fosse in età per praticarlo.

Punizioni e isolamento

Oltre agli insulti, il padre di Verona scherniva il figlio mangiando gelati davanti a lui, vietandogli di uscire o giocare con i coetanei. Sostenendo che "i figli andassero picchiati per essere educati" e arrivando a infliggere al bambino schiaffi senza motivo.

Il Tribunale lo ha riconosciuto colpevole non solo sul piano penale, ma anche in sede civile: dovrà risarcire la moglie marocchina, che aveva denunciato l'accaduto, e i due figli di 8 e 5 anni.

Un segnale dai tribunali

Con queste sentenze, i giudici italiani chiariscono dunque che le umiliazioni verbali e i comportamenti coercitivi non possono più essere archiviati come semplici liti familiari. Sono maltrattamenti a tutti gli effetti, e chi li pratica rischia pene severe.

Dando un messaggio forte: la casa non può diventare il luogo dove un figlio subisce violenza psicologica invece di trovare protezione.

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