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rapporto censis
fonte foto: via Ansa

Non sono incoraggianti i dati che pervengono dal 55esimo Rapporto Censis sulla situazione sociale nel nostro Paese. Dall'indagine emerge la tendenza di una parte della popolazione a rifugiarsi nell'irrazionale; una dimensione al di fuori della realtà che, citando testualmente il rapporto Censis, rappresenta un sonno fatuo della ragione, una fuga fatale nel pensiero magico, stregonesco, sciamanico, che pretende di decifrare il senso occulto della realtà”.E così, per circa 3 milioni di italiani il Covid non esiste mentre il 5,8% è convinto che il vaccino sia inutile.

E ancora, quasi un italiano su tre considera i vaccini farmaci sperimentali e le persone vaccinate “delle cavie”.

La scienza è il nemico pubblico numero uno

In particolare, si è registrata una forte disaffezione nei confronti della scienza. Le cause sono da ricercare nella Pandemia, ma anche la continua esposizione a notizie di ogni tipo ha contribuito a pregiudicare la situazione. Infatti, per il 12,7% la scienza produce più danni che benefici. Stando al rapporto Cnel “si osserva una irragionevole disponibilità a credere a superstizioni premoderne, pregiudizi antiscientifici, teorie infondate e speculazioni complottiste”. Si va così dalle tecno-fobie come quelle sul 5G, contenuto dai vaccini e usato per controllarci, al negazionismo storico-scientifico dei terrapiattsiti, passando per quelli che non credono allo sbarco sulla luna.

Il grande rimpiazzamento

Ma è la variante cospirazionista a farla come sempre da padrone; per il 67,1% infatti esiste uno “Stato profondo” , cioè il potere reale è concentrato nelle mani di pochi burocrati, politici e uomini d'affari. C'è poi un 64,4% che ritiene le Multinazionali responsabili di tutto ciò che ci accade. E poi l'immancabile teoria della sostituzione etnica che ha contagiato il 39,9% della popolazione: secondo loro identità e cultura nazionale spariranno a causa dell'arrivo degli immigrati.

La sfiducia che genera ansia per il futuro e nostalgia del passato

Tutto ciò si ripercuote anche nella visione della vita: per i due terzi del nostro Paese, si viveva meglio in passato. Non solo, il 51,2% degli intervistati sostiene che non tornerà più un periodo di crescita economica e benessere come quello registrato negli anni '80. Colpa di trent'anni di globalizzazione che dal 1990 ad oggi ha portato le retribuzioni medio-lorde annue a diminuire del -2,9%. E così, il 69,6% degli italiani si dice molto inquieto riguardo il futuro, e il dato sale al 70,8% tra i giovani.

Le cause dell'irrazionalità partono da lontano

Le cause di questo fenomeno sono tante, incrociano la crisi dell’economia, il crollo della ricchezza delle famiglie, la forte riduzione del reddito disponibile, l’incertezza sulle prospettive future, le aspirazioni tradite di tanti giovani e le condizioni di lavoro delle donne sempre più ai margini del mercato del lavoro. “L’irrazionale che oggi si manifesta nella nostra società – spiega ancora il Censis - non è semplicemente una distorsione legata alla pandemia, ma ha radici socio-economiche profonde, seguendo una parabola che va dal rancore al sovranismo psichico, e che ora evolve diventando il gran rifiuto del discorso razionale, cioè degli strumenti con cui in passato abbiamo costruito il progresso e il nostro benessere: la scienza, la medicina, i farmaci, le innovazioni tecnologiche”. Sta quindi nascendo un circolo vizioso: bassa crescita economica, quindi ridotti ritorni in termini di gettito fiscale, conseguentemente l’innesco della spirale del debito pubblico, una diffusa insoddisfazione sociale e da qui arriva il dubbio verso il razionale. E il risultato non può che tramutarsi in una fuga nell’irrazionale per spiegare l’esito di aspettative soggettive insoddisfatte. Infatti, l’81% degli italiani ritiene che oggi è molto difficile per un giovane vedersi riconosciuto nella vita l’investimento di tempo, energie e risorse profuso nello studio. Il 35,5% è convinto che non conviene impegnarsi per laurearsi, conseguire master e specializzazioni, per poi ritrovarsi invariabilmente con guadagni minimi e rari attestati di riconoscimento.

Se il lavoro non arriva, nessuno studia: il complotto contro il lavoro

Non è quindi un caso che l’83,8% degli italiani ritenga che l’impegno e i risultati conseguiti negli studi non mettano più al riparo i giovani dal rischio di dover restare disoccupati a lungo. E, ben l’80,8% non riconosce una correlazione diretta tra l’impegno nella formazione e la garanzia di avere un lavoro stabile e adeguatamente remunerato; dato che sale all'87,4% tra i giovani. Colpa di un'occupazione che non tiene conto del capitale umano investito e che offre lavori non orientati con gli studi conseguiti dai lavoratori. Il risultato è che circa un terzo degli occupati possiede al massimo la licenza media; Sono 6,5 milioni nell'età 15-64 anni, di cui 500.000 non hanno titoli di studio o al massimo hanno conseguito la licenza elementare. Anche tra i poco meno di 5 milioni di occupati di 15-34 anni quasi un milione ha conseguito al massimo la licenza media (il 19,2% del totale), 2.659.000 hanno un diploma (54,2%) e 1.304.000 sono laureati (26,6%). Considerando invece gli occupati con una età di 15-64 anni, la quota dei diplomati scende al 46,7% e quella dei laureati al 24,0%.

Le donne alla prova della pandemia

Un altro dato riscontrato dal Censis, e che non deve passare in sordina, è la situazione delle donne tra lavoro e vita quotidiana. Una statistica da non sottovalutare, e dalla quale arrivano altri numeri poco incoraggianti. Nonostante infatti la forte ripresa economica registrata, da giugno 2021 le donne occupate hanno continuato a diminuire: sono 9.448.000. Ma alla fine del 2020 erano 9.516.000, e nel 2019 erano 9.869.000; durante la pandemia 421.000 donne hanno perso o non hanno trovato un lavoro. La pandemia ha rappresentato un surplus inedito di difficoltà rispetto a quelle abituali per le donne che si sono ritrovate a gestire in casa doppio carico figli-lavoro. Il 52,9% delle donne occupate dichiara che durante l’emergenza sanitaria si è dovuta sobbarcare un carico aggiuntivo di stress, fatica e impegno nel lavoro e nella vita familiare, per il 39,1% la situazione è rimasta la stessa del periodo pre – Covid e solo per l'8,1% è migliorata. Una condizione che, ancora una volta, non è la stessa degli occupati uomini, che nel 44,9% dei casi dichiarano che stress e fatica sono rimasti gli stessi, nel 39,3% sono peggiorati e nel 15,9% migliorati.