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di paolodifalco01
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Paolo BorsellinoErano le 16:58 del 19 luglio 1992 quando Palermo fu squarciata da un'esplosione che, in via D'Amelio, tolse la vita al magistrato Paolo Borsellino e a cinque agenti della sua scorta. Era una domenica qualsiasi e, come faceva spesso, Borsellino era andato a trovare sua madre.

Lui non lo sapeva ancora ma quella sarebbe stata la sua ultima visita.

Da quel giorno sono passati già trent'anni ma ancora, dentro le aule dei tribunali, non si è arrivati a stabilire la verità su chi ha ucciso quel magistrato che, come il collega Falcone morto 57 giorni prima vicino lo svincolo di Capaci, aveva dedicato la sua vita a combattere la mafia. Andiamo a vedere ciò che successe quel giorno e come si è arrivati a quello che è stato definito "il depistaggio più grave della storia repubblicana".

La strage di via D'Amelio

Quella domenica del 19 luglio del 1992 era una domenica come tante per il magistrato Paolo Borsellino che aveva passato la mattina con la famiglia nella casa al mare di Villagrazia di Carini, aveva pranzato davanti alla televisione dove aveva visto parte della tappa del Tour de France e poi aveva deciso di andare a trovare la madre.

Intorno alle 16:52 il passaggio per Palermo di Borsellino e delle tre auto della sua scorta non era passato inosservato: ad averle viste era stato anche Giovanni Battista Ferrante, mafioso della famiglia del mandamento di San Lorenzo appostato in una traversa di viale della Regione Siciliana, che aveva subito chiamato gli attentatori presenti in via D'Amelio. I minuti passano, Borsellino nel frattempo arrivato nei pressi dell'abitazione di sua madre, scese dall'auto, si accese una sigaretta e giunto davanti al cancello del palazzo suonò il citofono.

In quell'istante qualcuno premette un pulsante facendo esplodere ben 90 chilogrammi di esplosivo al plastico nascosto all'interno di un auto rubata parcheggiata lì vicino, una Fiat 126 rossa. Fu così che morì non solo Paolo Borsellino, procuratore aggiunto a Palermo di soli 52 anni ma anche gli agenti della sua scorta: Agostino Catalano di 43 anni, Vincenzo Li Muli di 22, Walter Eddie Cosina di 31, Claudio Traina di 27 ed Emanuela Loi, la prima donna della polizia di Stato ad essere uccisa in servizio, di 25 anni. A salvarsi per pura casualità fu l'agente Antonio Vullo che stava facendo retromarcia per parcheggiare una delle auto della scorta.

Chi era Paolo Borsellino

Aveva 52 anni il procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino quando fu ucciso nella strage mafiosa di via D'Amelio. Quando nel 1963 era entrato in magistratura, era il magistrato più giovane d'Italia: fu prima pretore a Mazara del Vallo, poi a Monreale e nel 1975 fu trasferito al tribunale di Palermo ma solamente negli anni '80 iniziò ad occuparsi di mafia entrando nel pool antimafia ideato da Rocco Chinnici e, dopo la sua morte, diretto da Antonino Caponnetto.

Dopo la parentesi del pool, nel 1986 fu nominato procuratore della Repubblica a Marsala, tornerà a Palermo solamente nel marzo del 1992. Nello stesso periodo, qualche mese prima, l'amico Giovanni Falcone erano stato inviato a Roma per dirigere la sezione Affari penali del Ministero della Giustizia. Dopo la strage di Capaci, inoltre, era rimasto il magistrato antimafia più in vista. I giorni che gli restavano da vivere erano ormai pochi visto che anche lui agli occhi di Cosa Nostra aveva firmato la sua condanna a morte con il maxiprocesso.

Quest'ultimo è passato alla storia come il più grande processo svoltosi in Italia contro la mafia: basti pensare che dal 1986 fino al 30 gennaio 1992 furono giudicati 460 presunti appartenenti alle cosche mafiose e che al termine del processo di primo grado, svoltosi in un'aula bunker costruita vicino al carcere dell'Ucciardone, vennero decisi un totale di 19 ergastoli e pene detentive per 2.665 anni di reclusione. Tra gli ergastolani c'era anche Totò Riina e tutti i boss del gruppo dei corleonesi: così dopo la conferma delle condanne a opera della Corte di Cassazione il clan dei corleonesi decise di colpire politici, giudici e giornalisti.

L'agenda rossa di Paolo Borsellino

A legarsi alla storia di Paolo Borsellino e della strage mafiosa di via D'Amelio è anche la sua agenda rossa contenuta nella borsa da lavoro che si trovava sul sedile posteriore della sua auto e che, una volta recuperata da un vigile del fuoco, verrà consegnata ai magistrati di Caltanissetta solamente cinque mesi dopo.
Da quella borsa che, verrà restituita alla famiglia in quanto secondo i magistrati non c'era nulla di interessante, mancava un'agenda rossa.

Su quest'ultima, così come disse la moglie di Borsellino Agnese Piraino Leto, suo marito scriveva appunti. Quell'agenda tutt'oggi non è mai stata ritrovata, la figlia Lucia disse che ricordava per certo di aver visto il padre metterla nella borsa la mattina del 19 luglio. In seguito emerse che Paolo Borsellino stava collaborando alle indagini sull’attentato di Capaci in cui aveva perso la vita il collega e amico, Giovanni Falcone e che propio nella settimana successiva alla sua morte avrebbe dovuto avere alcuni incontri in procura a Caltanissetta.

La reazione dello Stato

Dopo l'attentato del 19 luglio quello stesso Stato, che per molti anni aveva lasciato soli i suoi magistrati a combattere contro la mafia, reagì rendendo operativa durante quella stessa notte l’applicazione del 41 bis, una disposizione che prevedeva un regime carcerario con pesanti restrizioni a carico di 300 detenuti per reati di mafia, sia già condannati che in attesa di giudizio, da subito trasferiti nelle carceri speciali dell’Asinara e di Pianosa.

Quella tragica notte segnò una svolta nella lotta alla mafia: da allora molti boss mafiosi si trovarono in un regime carcerario duro che impediva qualsiasi contatto con l'esterno ma, purtroppo, tutto questo non servì a restituire la verità su quello che avvenne durante la strage di via D'Amelio a cui seguirono diverse scelte investigative che si dimostrarono con il tempo del tutto sbagliate.

Dopo 30 anni nessuna verità

Da quel 19 luglio del 1992 sono passati 30 anni e un'infinità di processi: Borsellino 1, bis, ter, quater, un giudizio di revisione per rimediare a sette ergastoli inflitti ingiustamente a cui seguì l'atto d'accusa contro quello che è stato definito "il depistaggio più grave della storia repubblicana" e infine il giudizio, ancora in corso in secondo grado, a carico dell'ultimo superlatitante di Cosa nostra: il boss Matteo Messina Denaro.

In tutti questi anni decine sono state le sentenze che hanno lasciato aperti diversi interrogativi, dalle responsabilità esterne a Cosa nostra alla sorte dell'agenda rossa di Borsellino. Tutto questo, come è stato accertato anche in sede processuale, è frutto di un depistaggio che è rimasto senza colpevoli dopo l'ultimo verdetto di giovedì scorso con cui sono cadute in prescrizione le accuse rivolte a due dei poliziotti, accusati di avere inquinato le indagini sulla strage, e con l'assoluzione di un terzo agente.

Così a 30 anni di distanza e senza una verità processuale, a rimanere vivo nella nostra memoria resta sicuramene il sacrifico di Borsellino, di Falcone e di tutti gli altri uomini dello Stato che pagarono con la vita la lotta contro la mafia per consegnarci un Paese migliore di quello che avevano ricevuto.

Paolo Di Falco

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