
Con questo articolo proveremo a parlare di una scuola parallela, in Italia e in tanti paesi del mondo, alla pubblica istruzione e spesso allo stesso modo importantissima nella formazione di bambini e ragazzi: la scuola Calcio!
Per fare questo, abbiamo incontrato tre professionisti del settore, Mario Bocchetti, Ciro Ruotolo e Silvio Crisari. I tre stanno realizzando un bel lavoro editoriale dedicato alla vita reale di chi segue questo amatissimo sport - Sin quando da bambino dai un calcio ad un pallone per strada, fino a quando più avanti riesci a raggiungere alti livelli di categoria!
Presentazione
Mario Bocchetti. Appassionato di sport e in generale di calcio ha scelto di voler raccontare il mondo con i propri occhi. Con il suo inseparabile socio ha deciso di scrivere un capolavoro o quanto meno un'opera d'arte da tramandare ai posteri. La modestia è ovviamente di casa... Ironia a parte, vorrebbe lasciare qualche bella storia su carta per poter realizzare un sogno e magari aiutare qualche genitore a capire come fare il tifoso.
Ciro Ruotolo. Un eterno bambino capace di innamorarsi e far innamorare chiunque con la sua penna e il suo quaderno per ogni storia che meriterebbe di essere raccontata. Un amante del calcio e tutte le sue sfaccettature, un uditore silente e soprattutto un appassionato di storie vere che hanno reso questo sport il più popolare al mondo.
I due amici hanno fatto conoscere la propria voce grazie all'apertura di un blog di opinione calcistica www.unaquestionedicentimetri.it, un crogiolo di storie, lacrime, sudore, gioie e soprattutto di uomini. Raccontati e che raccontano. Ad oggi il blog è gestito da un gruppo di ragazzi che continuano a investire il proprio tempo in un vero sogno: recuperare, anche se solo qualche traccia, il vecchio e romantico significato del calcio.
Silvio Crisari: Non c'è due senza tre, la ciliegina sulla torta, il Peter Pan del calcio, una vita sui campi da allenatore nei settori giovanili più prestigiosi del territorio laziale, ultime stagioni passate al Circolo Canottieri Aniene ed alla Academy della As Roma. Ad oggi responsabile delle Scuole calcio a 5 della Regione lazio e head coach della rappresentativa laziale allievi calcio a 5. Ha girato il mondo raccontando la metodologia Futsal Solution: America, Giappone e Cina, dove l'obiettivo è stato sempre lo stesso, portare nei settori giovanili quella che e' la formula chimica perfetta: divertimento, professionalità e innovazione.
Il libro
Tanto dai tre verrà raccolto in un libro di prossima pubblicazione, che ancora non ha un titolo ben definito, ma di certo saprà raccontarsi molto bene.
Un’anteprima per noi di Skuola.net! Un paio di estratti del lavoro fin qui realizzato da questi appassionati professionisti del calcio:
“È innegabile: i bambini, i ragazzini, che popolano le aule delle nostre scuole, non dominano più le nostre strade. Magari hanno dita velocissime, sempre pronte a correr sulla tastiera di un computer, sul joystick di una qualsiasi console, sul sempre più grande display di uno smartphone, oppure su un tablet, concentrati in un avvilente gioco
di realtà aumentata.
E la nostra realtà? Quella, che fine fa? Quella semplice, attraente, fisica. La realtà di una partitella giocata quattro contro tre, a portieri volanti, su un campo disegnato sull’asfalto, con porte inesistenti ma visibilissime, dove vestiti tutti uguali eravamo capaci di considerarci due squadre ben diverse e la linea di passaggio era sempre dedicata a un nostro compagno. Quella dove per recuperare una palla finita fuori dal rettangolo di gioco dovevi fare i chilometri, scavalcare cancelli, violare diritti di proprietà, STRISCIARE sotto le automobili parcheggiate!”
…E ancora…
“La partita si giocava da pochi di minuti. Il campionato era quello esordienti. L’incontro appariva equilibrato, anche se la classifica raccontava un’altra storia. I padroni di casa occupavano senza particolari affanni il primo posto, gli ospiti, tra mille difficoltà, si distinguevano dall’ultima
della classe solo per una misera manciata di punti. Il campionato era quello esordienti, ma per gli spettatori della sfida che rispolverava il mito di Davide e Golia le cose apparivano diverse. Molto diverse. Gli spalti del campetto di provincia erano occupati, per la maggior parte, dai genitori dei piccoli calciatori che giocavano la partita. Genitori di normalissimi bambini, come potresti incontrarne in una qualsiasi scuola media, di una qualsiasi città dello Stivale. La tribuna in pietra, quindi, era occupata da quelle che potremmo definire, tendenzialmente, brave persone. Persone con validi e condivisibili ideali. Lavoratori della classe media e della classe operaia. Persone rispettabilissime. Persone che, una volta iniziata la partita dei propri figli, dimenticano chi sono, cosa rappresentano e cosa dovrebbero insegnare a chi è in campo. Persone che al fischio d’inizio si
trasformano in altro. Tutt’altro. Diventano boriosi, immaturi, litigiosi, infantili, irresponsabili, aggressivi. Almeno la maggior parte di essi. Nessuno vuole perdere, nessuno è disposto a farsi da parte e a lasciare che i protagonisti siano solo ed esclusivamente i bambini. No.
Loro, la maggior parte di essi, si sentono in diritto di rubare la scena ai propri figli. Perché se, in campo, qualcuno dimostra di avere del potenziale, allora il merito è da attribuire, ovviamente, ai
genitori. Perché in fondo, molti di questi genitori-spettatori vorrebbero essere lì, sul rettangolo di gioco. Perché se in campo si gioca male, la colpa è dell’arbitro, la colpa è della sfortuna, la colpa è sempre di qualcun altro o qualcos’altro.
È proprio con questa concezione, purtroppo, che la pensava il tifoso-medio di ieri e di conseguenza si comportava. È proprio in questo modo che la pensa il tifoso-medio di oggi e di conseguenza si comporta. Ed è così che si forma quello di domani. Non c’è spazio per l’obiettività, non c’è spazio per l’autocritica, troppo spesso non c’è spazio per il rispetto. La partita si giocava da qualche minuto, quando il direttore di gara, senza esitazione, con il fischietto alle labbra e il braccio teso, indicò il dischetto del rigore. Il contatto era stato evidente, la massima punizione più che lecita. Il cartellino giallo che l’aveva seguito, forse, troppo severo. Fatto sta che per gli ospiti le cose si mettevano subito male. Gli spalti si trasformarono in una bolgia! Popolati da chi esultava, pregustando già l’imminente e probabilissimo vantaggio e chi protestava a gran voce, per quella che veniva vissuta come la più atroce delle ingiustizie. Occhiatacce volavano da una fazione all’altra e cocciutamente, prontamente, ricambiate. Parole sgradevoli accompagnavano ogni sguardo corrucciato, in un botta e risposta fastidioso e infantile. E questi sono gli adulti. In definitiva, tutti finirono per urlare. O meglio, quasi tutti. Tra gli assatanati spettatori, più di uno, tra i genitori-tifosi, provava a placare e smorzare i toni, in un senso e nell’altro.
Poi, ce n’era uno in assoluto silenzio, messo un po’ in disparte, quasi in un angolo. Se la maggior parte dei presenti in tribuna era tutta concentrata all’altezza del centrocampo, per avere una visuale completa del campo da gioco, lui, distante poco più di venti metri dal numeroso gruppo di invasati urlanti, restava in silenzio, a strettissimo contatto visivo con il capannello che attorniava l’arbitro. Poca era la distanza che divideva la silenziosa figura dall’area di rigore in cui era stato consumato il tragico e inesperto misfatto.
Il capitano della squadra ospite, incoraggiato e appoggiato da quattro dei suoi compagni portava avanti l’inutile serie di proteste, accerchiando il direttore di gara con scarsa convinzione.
Il capitano della gran favorita, la formazione di casa, incurante sistemava il pallone sul dischetto, mentre i suoi si disponevano ordinatamente sulla linea del lato lungo dell’area, ridendo e scherzando, certi che la palla sarebbe entrata.
La silenziosa, seria, figura sugli spalti spostò lo sguardo dal teatrino che circondava l’arbitro e con timido rispetto cercò suo figlio.
Fissava la sua testa, fissava il numero 1 appiccicato sulla sua maglia, sulla sua schiena, sulla sua pelle. Carlo, il giovane portierino, suo figlio, come fosse un rito, oltrepassò la linea di porta, dimenticando il resto della squadra.
Con fare lento, sognante, afferrò la borraccia piena d’acqua che portava sempre con sé in porta, ad ogni gara. Con le spalle rivolte alla tribuna, ne bevve qualche sorso e la lasciò ricadere.
Tornato al suo posto, sulla lunga, infinita, linea bianca, osservava parte dei suoi compagni protestare, per poi concentrarsi su quelli che invece, rassegnati, non sapevano chi o cosa guardare, con chi parlare, o cosa dire.
Essere un portiere, in questi casi, suscita una serie di emozioni contrastanti, a prescindere dall’età.
Sei perfettamente consapevole del fatto che tutto ciò che accadrà, di lì a poco, dipende in buonissima parte dal tuo avversario.
In fondo, si sa: ogni rigore parato è un rigore sbagliato dall’avversario. Ma tu sai anche che potresti essere il grande eroe! Ovviamente con la gentilissima collaborazione di chi tira un rigore non propriamente irresistibile.
L’idea di pararlo, comincia a impossessarsi di te: da desiderio di grandezza, in quei pochi secondi, si trasforma in vera ossessione. Ti concentri, provi a razionalizzare il tutto, ma sai che ormai indietro non si torna. Tu vuoi che quel pallone non entri.
Il fatto che non dipenderà mai da te, o meglio, dipenderà da te solo in minima parte, non lo prendi neanche più in considerazione.
E intanto, i tuoi compagni di squadra si allontanano dal direttore di gara. Sugli spalti sembra esser tornata la calma. Tutti sono concentrati su ciò che sta per accadere.
Ogni sguardo è per l’area di rigore ospite. I più cercano il tiratore
scelto, qualcun altro, invece, chi in quella porta enorme farà del suo
meglio per limitare i danni.
Di solito si tratta di una faccenda a due, di un duello: portiere
contro colui che calcerà.
5
Non ora, non in questi casi, non quando i due contendenti hanno
quasi tredici anni.
Qui parliamo di un gioco a quattro.
Mentre il capitano dei padroni di casa, Federico, il numero 10, dava
l’ultima carezza al pallone, prima di allontanarsene per prepararsi
alla rincorsa, una voce lo raggiunse dagli spalti.
“Dai Fede, butta dentro ‘sta palla che sei il più forte! NON PUOI
SBAGLIARE!”
Il piccolo numero 10 ascoltò le parole del padre, mentre una
spiacevole sensazione gli riempì il petto.
E ancora.
“Dai, dai, dai, su!”
Per le orecchie di Carlo non ci furono incoraggiamenti. Suo padre
restò in rispettoso silenzio.
Nel caso in cui suo figlio avesse parato il calcio di rigore sarebbe
stato il primo ad esultare, giustamente. Magari senza grandi e
memorabili scene, senza lasciarsi andare a danze scomposte, ma di
certo ne avrebbe gioito orgoglioso.
Avrebbe intimamente condiviso la gioia di suo figlio, senza però
dimenticare che dall’altro lato c’era un ragazzino proprio come il
suo Carlo. E cosa più importante, senza dimenticare che prima di
ogni altra cosa, soprattutto in questi contesti, il calcio è un gioco. E
come tale va vissuto, a prescindere da qualsiasi logica malata.
Tutto è pronto.
Federico conta i passi per la sua rincorsa e mentre cerca di
raccogliere tutta la sua forza e portare al massimo la sua
concentrazione, dalle sue spalle il numero 7 degli ospiti, il più
giovane del gruppo, Fabio, parla al suo portiere.
“Vai Carlè, lo so che lo pari! LO SO!”
6
Per Carlo, accadde tutto in quel momento.
Era tra i pali, teso e concentrato, con il peso di un’intera squadra
sulle spalle, nonostante la giovanissima età.
Era sulla linea di porta pronto a scegliere un lato nella speranza che
fosse quello giusto.
Era lì, totalmente immerso nel momento, nei suoi guanti, nella sua
maglia, nei suoi pantaloncini, nei suoi scarpini, ma era anche un
privilegiato spettatore. E aveva scelto il posto più bello, per godersi
la scena: quello dietro la porta.
Spesso accade che, in situazioni di estrema tensione, si ha come la
sensazione di osservare se stessi dall’esterno, come semplici e
distaccati spettatori. Ogni particolare ci appare netto, chiaro,
estremamente vivido.
Carlo ammirava quel numero 1 riempirgli la schiena e quasi non
riconosceva il suo corpo.
Si guardava fremere d’impazienza su quella sottile striscia bianca.
Il viso dell’invisibile ragazzino, immaginifico alter ego sistemato
dietro la porta, appariva sereno, tranquillo.
Lui era solo uno spettatore. A lui interessava solo guardare. Era
bramoso, smanioso di scoprire come sarebbe andata a finire tutta
quella maledetta storia.
Certo, simpatizzava per se stesso, sperava che quel numero 1 che
conosceva così bene riuscisse ad evitare che il pallone entrasse in
porta, ma i suoi sentimenti, in questo caso, erano poco convinti,
sfumati.
Lo sguardo del ragazzino posizionato tra i pali, invece, era tutt’altro
che calmo.
Nessuno immaginava lo stato di profonda agitazione che dominava
Carlo fin dal fischio d’inizio.”…
Per sapere come andrà a finire bisognerà attendere ancora qualche mese e, possibilmente, leggere questo bellissimo volume che parla di storie vere, nelle quali, chiunque abbia mai calcato, o anche desiderato calcare, i campi di calcio e ama questo sport, non potrà che immedesimarsi e vivere (o rivivere) l’emozione che solo il PALLONE ti sa dare!