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Introduzione Viaggio dell'uomo oltre se stesso - Tesina
La seguente tesina di maturità affronta il tema del viaggio.
Sin dalla sua origine, l’uomo si è posto domande sull’origine e il fine della vita e, soprattutto, sul suo significato. Le svariate popolazioni e culture che hanno abitato la terra fino ad oggi hanno dato differenti risposte in base al loro credo religioso o alle loro convinzioni filosofiche. Infatti, la scienza non è in grado di rispondere: essa può occuparsi
del come avvenga un fenomeno mentre non potrà mai dire perché esso ci sia. Sono nati miti e storie di eroi per spiegare il passaggio dal mondo degli dei a quello degli uomini; sono stati messi per iscritto testi ispirati direttamente dalla divinità. Insomma, l’uomo si è prodigato affinché venisse data un’origine e un senso alla vita tramite racconti a cui si doveva prestar fede. E’ un problema che ha attanagliato non solo le religioni, ma anche gli stessi scrittori e filosofi di ogni tempo. Il percorso della vita è spesso stato paragonato ad un viaggio, che alcuni facevano iniziare dal niente e tornare al niente, considerando la vita come una semplice aggregazione di atomi e la morte come una disgregazione degli stessi (cfr. Lucrezio, De rerum natura, o Leopardi), e che altri hanno pensato che fosse seguito da un’altra realtà. Gli autori cristiani la consideravano come un pellegrinaggio, ritenendo che la Barca di Pietro attraversasse il mare della Storia facendo rotta verso la Stella polare della vita umana, Dio. Anche Dante, il Sommo Poeta, la prima delle Tre Corone di Firenze, imbevuto di dottrina cristiana, scrisse forse la più famosa opera della Letteratura Italiana, la “Divina Commedia”, la storia di un viaggio spirituale che l’autore compie alla ricerca di Dio e in cui, conformemente al cristianesimo, risponde alle domande sul senso della vita, affermando che l’uomo ha origine da Dio e che tende a tornarvi. All’interno del poema è trattato anche un altro viaggio, quello di Ulisse, il famoso eroe greco protagonista dell’Odissea omerica, il quale anzi che tornare a casa, a Itaca, una volta finita la guerra di Troia, preferisce intraprendere un viaggio verso l’ignoto. Sono confrontabili questi due viaggi? Possono ancora comunicare qualcosa e toccare l’animo dell’uomo di oggi?
Collegamenti
Viaggio dell'uomo oltre se stesso - Tesina
Italiano -
Divina Commedia in generale e Canto XXVI dell'Inferno
Latino -
Confessiones I, 1, 1 e problema della Fede per S. Agostino
Greco -
Genesi 2, 9, 16-17; 3, 1-6 e Peccato originale
Stretto di Gibilterra a indicazione della fine delle terre conosciute sia interpretato da Dante
come divieto di Dio. Lo spingersi oltre è allora peccato di ὓβρις. Ancora: navigando verso
le Colonne d’Ercole, fa rotta verso ovest, verso occidente, verso il luogo dove tramonta il
sole. Nella simbologia medievale il sole rappresenta Dio e la luce della Grazia che illumina
il cammino dell’uomo. Dunque Ulisse fa rotta verso un luogo in cui Dio è lontano, dove
meno si sente la Sua presenza. Pecca ancora di tracotanza; il suo ardore per la
conoscenza non è subordinato alla fede, come poi sarà per Dante che incontra alla fine
del Purgatorio Beatrice, la Teologia, ma è indiscriminato e non gli permette di ammettere
la limitatezza della ragione umana, che giunta ad un limite deve abbandonarsi alla fede.
Ecco perché Dante-autore si riferisce al viaggio come “folle volo”; un’altra “traccia” di
Dante-autore si nota al v. 120 di Inf XXVI, “virtute e canoscenza” con la precedenza e
quindi la maggior importanza della virtù (in primis la fede, una delle tre Virtù Teologali)
sulla conoscenza. Ulisse, però, continua ancora la sua rotta, spostandola verso sud-ovest.
Naviga tranquillamente per circa cinque mesi, vedendo la parte inferiore della luna che
s’illumina e si rabbuia per cinque volte; ad un certo punto avvista una montagna, la
montagna del Purgatorio, il luogo da cui si potrà accedere, dopo la dovuta purificazione al
Paradiso, sede di Dio. Da quest’altissimo monte si diparte un “turbo” che s’infrange contro
il “legno” di Ulisse e lo fa affondare. Ciò significa che Dio non punisce la ricerca del sapere
all’interno dei confini dell’uomo, ma quando osa oltrepassarli. Il turbine fa girare per tre
volte la barca e alla quarta la poppa s’innalza verso l’alto e la prua sprofonda negli abissi,
“com’altrui piacque”. A ben guardare Dante e Ulisse nel loro viaggio sarebbero giunti nello
stesso punto: Dante, infatti, passando per il “cammino ascoso”, giunge sulla riva del
Purgatorio, e Ulisse ha intravisto la stessa montagna alla base della quale sarebbe
arrivato. Perché allora uno può arrivare mentre l’altro naufraga? Tutto sta nel percorso da
loro intrapreso: Dante ha attraversato tutto il regno infernale, che è stato per lui un
esercizio di umiltà in cui ha compreso e interiorizzato le proibizioni divine fino alla loro
accettazione. Ciò permette la purificazione del Purgatorio e l’azione della Grazia affinché
possa ascendere al Paradiso. Ulisse, dal canto suo, aveva intrapreso il viaggio per puro
desiderio di esperienza e conoscenza e dunque si era reso ancora più superbo e lontano
da Dio. Proprio per la sua superbia e la sua volontà di sfidare i limiti imposti all’uomo non
gli è concesso di avvicinarsi ai regni di Dio e perciò naufraga.
Inoltre Ulisse non si era trovato a far rotta verso il Purgatorio per sua volontà, ma si era
messo per mare senza una meta predefinita, con il solo scopo di “divenir del mondo
esperto”; quello di Dante invece è un pellegrinaggio con una meta fissata sin da Inf I, vv.
18-19 dove si legge “vestite già de’ raggi del pianeta / che mena dritto altrui per ogne
calle”. La luce che illumina il cammino dell’uomo è, come sempre, Dio. Quello dantesco è
un cammino orientato, che si dirige verso Dio; anzi, se si considera Purg XVI, il canto in
cui Dante incontra Marco Lombardo che spiega la genesi dell’anima, si può notare che
essa è generata da Dio e a Lui tende a tornare.
Esce di mano a lui che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia,
l’anima semplicetta che sa nulla,
salvo che, mossa da lieto fattore,
volontier torna a ciò che la trastulla.
Benché semplice e ancora inesperta, l’anima è capace di capire la fonte della vera Gioia e
dell’Amore sincero e, in modo naturale, tende a tornare “a ciò che la trastulla”; solo le
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deviazioni del peccato possono bloccarla. Infatti, l’anima possiede il libero arbitrio che
comporta la capacità e la possibilità di scegliere volontariamente o il bene o il male, e,
scegliendo il male, di potersi allontanare da Dio. Allora il percorso di Dante non si compie
più su una retta, ma su una circonferenza, in cui il punto di partenza e quello di arrivo
coincidono e corrispondono a Dio. Questo tipo di concezione della vita umana come
uscita e ritorno in Dio (exitus – reditus) è ripreso dalla teologia scolastica, di cui il massimo
esponente è S. Tommaso d’Aquino, base filosofica della Divina Commedia, sia per
questioni strettamente teologiche (come la spiegazioni dei dogmi, quali la Trinità e Unità di
Dio, l’Incarnazione; la creazione dell’anima; etc.), sia per problemi di ordine fisico-
astronomico, per i quali sia Dante che, soprattutto, la Scolastica si rifanno alla filosofia
aristotelico-tolemaica.
2.3.1 L’anima in S. Agostino
Quanto affermato da S. Tommaso d’Aquino sulla genesi e lo scopo dell’anima, non è però
una novità filosofica, perché già Sant’Agostino aveva concepito lo scopo dell’animo umano
in modo simile. Del desiderio dell’uomo di lodare Dio e di avvicinarsi a Lui per conoscerLo
tratta in Confessiones, I, 1, 1.
Magnus es, Domine, et laudabilis valde: magna virtus tua et sapientiae tuae
non est numerus. Et laudare te vult homo, aliqua portio creaturae tuae, et
homo circumferens mortalitatem suam, circumferens testimonium peccati sui
et testimonium, quia superbis resistis; et tamen laudare te vult homo, aliqua
portio creaturae tuae. Tu excitas, ut laudare te delectet, quia fecisti nos ad te
et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te. Da mihi, Domine, scire
et intellegere, utrum sit prius invocare te an laudare te et scire te prius sit an
invocare te. Sed quis te invocat nesciens te? Aliud enim pro alio potest
invocare nesciens. An potius invocaris, ut sciaris? Quomodo autem
invocabunt, in quem non crediderunt? Aut quomodo credunt sine
praedicante? Et laudabunt Dominum qui requirunt eum. Quaerentes enim
inveniunt eum et invenientes laudabunt eum. Quaeram te, Domine, invocans
te et invocem te credens in te; praedicatus enim es nobis. Invocat te,
Domine, fides mea, quam dedisti mihi, quam inspirasti mihi per humanitatem
Filii tui, per ministerium praedicatoris tui.
Grande sei, Signore, e degno di ogni lode; grande è la tua forza e la tua sapienza
incalcolabile. E l'uomo, una particella della Tua creazione, che si porta con sé la sua
mortalità, che si porta con sé la prova del suo peccato e la prova che tu resisti ai superbi,
vuole lodarti. Tuttavia l'uomo, particella della Tua creazione, ti vuole lodare. Tu lo spingi a
trovare gioia nel lodarti, perché ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non
riposi in te. Concedimi, Signore, di sapere e di comprendere che cosa viene prima:
invocarti o lodarti, conoscerti o invocarti. Ma chi t’invoca senza conoscerti? Infatti, non
conoscendoti potrebbe invocare un altro e un altro ancora. O non piuttosto ti s’invoca
perché ti si conosce? Ma come invocheranno colui, in cui non hanno creduto? O come
crederanno, senza uno che lo annunzi loro? E loderanno il Signore quelli che lo cercano.
Cercandolo, infatti, lo trovano e, trovandolo, lo loderanno. Ti cercherò, Signore,
invocandoti e ti invocherò credendo in te: sei stato infatti annunciato a noi. T'invoca,
Signore, la mia fede, che mi hai dato, che mi hai ispirato mediante l’umanità del Figlio tuo,
mediante il ministero del tuo annunciatore. (traduzione di P. Guido Sommavilla, S. J.)
10 L’incipit delle Confessiones del santo di
Tagaste è un vero e proprio inno al
Signore, l’interlocutore dell’opera, una lode
che si eleva al Creatore. Per Agostino,
infatti, ogni uomo ha un profondo desiderio
di rendere lode a Dio, che suscita nel
cuore umano la gioia di lodarlo perché “ci
hai fatto per Te, Signore, e il nostro cuore
non ha pace finché non riposa in Te”.
Inoltre, S. Agostino si chiede se sia
necessario prima abbandonarsi al
richiamo di quell’amore sconosciuto che si
sente nel cuore, invocandone la
rivelazione, o se si debba prima
comprendere che cosa sia quel
sentimento di amore sconosciuto prima di
invocarlo e lodarlo. La risposta la trova
nelle parole del salmista: “Loderanno il
Signore coloro che lo cercano”. I due
momenti, dunque, non possono essere
divisi, ma anzi, si devono fondere. La
ricerca di Dio e la Sua lode diventano cosa
unica. La rivelazione e la spiegazione
dell’origine di quest’amore sono concesse
Manoscritto delle "Confessiones" di S. Agostino, a chi cerca Dio.
metà XIII secolo Alla luce del testo agostiniano, quindi, il
viaggio di Dante è dato da uno stimolo interiore alla ricerca del Signore, uno stimolo
fortissimo, proprio come dice il salmista (Cfr. Salmo 62): “ha sete solo di Te, Signore,
l’anima mia come terra deserta”; anche se l’anima dantesco-tomista ha una tensione
naturale a Dio, il cercarlo è pur sempre un atto volontario del libero arbitrio. L’inquietudine
morale acquisita nell’Inferno da Dante si risolve in ardore della visione di Dio.
Ulisse, invece, nel suo viaggio, non cerca Dio, non prova il desiderio interiore di
Sant’Agostino, ma vaga per il mare, tentando di conoscere il più possibile, ma senza
trovare pace. Dal punto di vista medievale, aveva “sbagliato” obiettivo: l’ardore che ha
messo nella ricerca della conoscenza, lo avrebbe dovuto mettere nella ricerca di Dio. Lui,
però, fa ancora di più: oltrepassa i limiti della conoscenza terrena imposti da Dio all’uomo
(varcando le Colonne d’Ercole).
2.3.2 Ulisse come Adamo ed Eva
Ulisse reitera, per un certo aspetto, il peccato di Adamo ed Eva, quello di aver mangiato
del frutto dell’Albero della Conoscenza del Bene e del Male.
Vediamo il testo biblico in Genesi 2, 9, 16-17; 3, 1-6
9 καὶ ἐξανέτειλεν ὁ θεὸς ἔτι ἐκ τῆς γῆς πᾶν ξύλον ὡραῖον εἰς ὅρασιν καὶ καλὸν εἰς
βρῶσιν καὶ τὸ ξύλον τῆς ζωῆς ἐν µέσῳ τῷ παραδ&epsi