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Storia: età giolittiana, i totalitarismi;
Matematica: statistica inferenziale;
Diritto: Stato e sua evoluzione;
Scienza delle finanze: l'attività di finanza pubblica;
Informatica: le reti;
Ragioneria: valutazione delle aziende;
Tecnica: i conti correnti.
5° AFFLUENTE: L’ALGORITMO E LA PROCEDURA TOP DOWN
Parlando di divisione del lavoro non si può, dal punto di vista informatico, non fare menzione del
concetto di procedura top down e tecnica della sottoprogrammazione. Prima di tutto, però,
cerchiamo di inquadrare il concetto di algoritmo. L’algoritmo è una sequenza finita di istruzioni
determinate e non ambigue che presenta la caratteristica della riproducibilità. Analizzando la
definizione si comprende come l’algoritmo sia caratterizzato da diverse istruzioni ordinate (non
per niente si parla di sequenza) e che hanno un numero finito. Infatti un algoritmo viene
strutturato con l’intenzione di essere eseguito, pertanto necessita di un numero finito di istruzioni.
Altrimenti non ci sarebbe la possibilità materiale di portarlo a compimento. Oltretutto si parla di
istruzioni non ambigue. Ciò significa che ogni istruzione deve avere un significato univoco,
oggettivo e non sottoponibile ad interpretazione arbitraria da parte dei diversi soggetti che
analizzano l’algoritmo. Inoltre l’algoritmo deve essere riproducibile perché, essendo le sue
istruzioni oggettive e valevoli in qualsiasi situazione, deve poter essere eseguibile più volte e
produrre, ogni volta il medesimo risultato (sempre ipotizzando che le condizioni iniziali siano
identiche). In un algoritmo si distinguono tre fasi fondamentali: input, elaborazione e output. Nella
prima fase avviene l’acquisizione dei dati iniziali; nella seconda fase vengono svolte le operazioni
necessarie per manipolare i dati inseriti inizialmente; infine nella fase di output vengono restituiti i
risultati finali. Tale procedimento è assimilabile alla produzione che porta dalle materie prime in
ingresso ai prodotti finiti in uscita. La classica rappresentazione di un algoritmo è rappresentata
dal diagramma a blocchi o flowchart. INIZIO
Istruzione A
Istruzione B
FINE
Per i problemi più semplici per cui occorrono poche istruzioni, è sufficiente creare un unico
algoritmo strutturato in istruzioni elementari. Esistono, tuttavia, dei problemi più complessi che
richiedono lo svolgimento di numerose operazioni. Non solo, c’è bisogno, molto spesso, di
riutilizzare le stesse istruzioni, ma con parametri diversi. Ecco, allora, la strategia della
sottoprogrammazione. Si inseriscono alcune istruzioni in un sottoalgoritmo che viene richiamato
dall’algoritmo principale e può essere eseguito anche più di una volta, evitando di scrivere
nuovamente le medesime istruzioni. Ad esempio, per applicare l’algoritmo della ricerca
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Tesi d’esame di Giovanni Prencipe, 5Dp anno scolastico 2011/2012
dicotomica condizione necessaria è che l’array sia ordinato. Quindi inizialmente occorre ordinarlo.
Per farlo bisogna far riferimento al sottoprogramma di ordinamento che viene richiamato. Lo
schema della sottoprogrammazione è il seguente:
INIZIO
P1
P2
FINE
In esso P1 e P2 non sono delle istruzioni, ma dei veri e propri algoritmi che vengono richiamati e
che, a loro volta, possono essere scomposti in sottoprogrammi più semplici. Tale procedimento di
scomposizione della programmazione in procedure sempre più semplici prende il nome di tecnica
di top down, ossia dall’alto verso il basso. Proprio come nella catena di montaggio si affidano ai
singoli operai delle fasi elementari della produzione, anche in tale sede si scompone il
procedimento e ogni fase elementare viene eseguita autonomamente in un proprio ambiente
(scope).
Una particolare forma di sviluppo top down è quella delle funzioni. La funzione, in informatica, è
un programma che riceve in ingresso determinati parametri e restituisce un valore finale dopo
averli elaborati. Esempio: la funzione somma riceve come parametri iniziali due numeri a e b e
restituisce la loro somma. Sintatticamente le funzioni vengono strutturate nel seguente modo:
nome funzione (p1, p2 … pn)
Quando l’algoritmo viene trasferito sul computer, sotto forma di programma, il passaggio di
parametri può essere effettuato in due modi diversi: per valore e per riferimento. Nel primo caso
viene trasferito solamente il valore del parametro stesso, ma viene adoperata una cella di
memoria differente. Nel secondo caso la funzione opera direttamente sulla cella di memoria della
variabile originaria (parametro attuale) e, di conseguenza, ne modifica il valore se opera dei
cambiamenti. 46
Tesi d’esame di Giovanni Prencipe, 5Dp anno scolastico 2011/2012
LA DIVISIONE DEL LAVORO
La divisione del lavoro è un tema importantissimo in ambito economico perché, secondo molti
economisti, è la chiave del progresso registrato dall’umanità. Dividere il lavoro significa
frantumare l’attività produttiva in tante parti e affidare ognuna di queste ad un soggetto diverso.
In tal modo ognuno può dedicarsi esclusivamente al proprio compito e specializzarsi in esso,
aumentando la produttività media, in base a quanto afferma Adam Smith nella sua Indagine sulla
natura e le cause della ricchezza delle nazioni. Ciò significa che, nel tempo, aumenta la quantità
prodotta da un’organizzazione. Ovviamente ciò richiede che ci sia poi una richiesta di tali beni o
servizi che effettivamente vada ad assorbire quanto prodotto. Esistono due tipologie di divisione
del lavoro: orizzontale e verticale. Nel primo caso si analizza la divisione del sistema economico in
più rami produttivi (visione macroeconomica); nel secondo caso si considerano le diverse figure
professionali che intervengono nell’ambito della produzione. Ciò significa, ad esempio, che se nella
visione macroeconomica individuiamo il settore industriale, nella divisione verticale analizziamo i
diversi lavoratori che operano all’interno dello stesso ramo produttivo. Nella teoria smithiana si
scompone l’attività produttiva in varie fasi e ognuna di queste viene affidata ad un operaio diverso
che, in maniera ripetitiva, compie sempre le stesse operazioni elementari specializzandosi nella
propria attività. Tuttavia lo stesso Smith si accorse della pericolosità di un’estremizzazione di tale
concetto. A lungo andare, infatti, il lavoratore anziché produrre quantità maggiori avrebbe
diminuito la propria produttività. Questo a causa dello stress mentale che la ripetizione continua
delle stesse operazioni elementari comporta (Smith la definisce proprio “mutilazione mentale”).
Più tardi Karl Marx definì tale fenomeno con il nome di alienazione, per sottolineare la tragedia
relativa all’annullamento della personalità del lavoratore a causa della ripetizione spasmodica di
operazioni banali. In questo modo si distrugge la creatività e la libertà di azione che era tipica, in
passato, dell’artigiano. Invece nella catena di montaggio l’operaio si trasforma in un ingranaggio
del complesso meccanismo industriale e perde la propria umanità.
Addirittura si raggiunse l’apice di tale sfruttamento con il Taylorismo che prevedeva una divisione
scientifica del lavoro, studiata minuziosamente e applicata nella più severa e rigida delle forme.
Bisognava, infatti, determinare analiticamente quali fossero i tempi tecnici necessari per espletare
la minima fase della produzione e obbligare tutti i lavoratori ad adeguarsi a quegli standard. In tal
modo era possibile conoscere in anticipo, e con precisione maniacale, il numero di pezzi prodotti
nell’unità di tempo. (l’argomento verrà sviluppato in seguito e correlato alla questione sociale)
Tornando alla divisione del lavoro in tempi antichi e allo sviluppo che essa ebbe possiamo
affermare che si riguardava, più che altro di una divisione verticale, in quanto si trattava di una
distinzione tra le varie figure professionali che non erano ancora organizzate nella struttura
dell’azienda vera e propria. L’aumento della capacità produttiva media generò un surplus per i vari
lavoratori – produttori. Infatti ogni lavoratore produceva più beni di quelli che gli servissero di
quella particolare categoria. Siccome, però, ognuno necessitava di altri beni per poter soddisfare le
altre esigenze, e tali beni erano prodotti da altri occorreva relazionarsi con altri lavoratori –
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Tesi d’esame di Giovanni Prencipe, 5Dp anno scolastico 2011/2012
produttori e operare uno scambio. Quindi lo scambio è la conseguenza logica dell’organizzazione
ma cos’è di preciso e, soprattutto come avveniva inizialmente?
sociale del lavoro
LO SCAMBIO E IL VALORE
Lo scambio è l’attività con cui due soggetti economici trasferiscono a vicenda due beni di cui
necessitano. Quindi il soggetto A produce un bene X ma necessita di un bene Y che viene prodotto
dal soggetto B. Quest’ultimo, a sua volta, avverte la necessità del bene X. Verranno, allora,
scambiate una certa quantità del bene X contro una quantità determinata del bene Y. Questa
forma elementare di scambio prende il nome di permuta o baratto. In essa avviene il
trasferimento materiale e vicendevole di due beni. Ovviamente teorizzando il modello del baratto
si ipotizza la presenza di alcuni presupposti. Innanzitutto si suppone che ci sia un incontro tra due
necessità diverse dei soggetti A e B e che abbiano a disposizione l’uno il bene che occorre all’altro.
Cioè si ipotizza una corrispondenza perfetta tra la richiesta e la disponibilità. Inoltre si ipotizza che
si riesca a fissare un rapporto di cambio dei due beni. Il rapporto di cambio è dato dal rapporto tra
le quantità dei due beni. Se indichiamo tale grandezza con R, nel nostro caso essa sarà uguale a
Q /Q , cioè la quantità del bene X divisa per la quantità del bene Y scambiata. Ovviamente il
x y
rapporto può essere calcolato anche con la quantità del bene Y rispetto al bene X (otterremmo in
questo modo l’inverso). A cosa corrisponde il rapporto di cambio? Esso rappresenta la quantità di
un determinato bene che viene scambiata con una precisa quantità di un altro bene. Se si fissa la
quantità di uno dei due, nel nostro caso il bene Y, la sua quantità diviene l’unità di misura per
esprimere il valore del bene X. Nella vita di tutti i giorni utilizziamo spesso il concetto di valore ma
quasi mai ci soffermiamo ad analizzarlo fino in fondo. Secondo alcuni economisti il concetto di
valore ha un significato oggettivo, valevole per tutti i soggetti economici; altri economisti
sostengono, invece, che un bene possegga valore in funzione del soggetto economico che lo
desidera e dell’intensità del proprio bisogno. Analizziamo entrambi i ragionamenti.
Secondo i classici il valore di un bene è una caratteristica oggettiva che viene misurata in funzione
della quantità di lavoro umano che vi è incorporato. Vi è, ovviamente, un rapporto direttamente
proporzionale: all’aumentare della quantità di lavoro contenuto in un bene, aumenta anche il suo
lavoro. La quantità di lavoro viene misurata tramite il tempo, adoperando, generalmente, le ore. Si
potrebbe pensare, allora che un lavoratore maldestro e che impiega mediamente più tempo
rispetto ad un collega più abile riesca ad incorporare più lavoro nel bene da lui prodotto. In realtà
non è così. Infatti, per conferire una veste oggettiva a tale concetto, non ci si riferisce al lavoro
realmente impiegato per produrre un bene, ma alla quantità mediamente necessaria per produrlo.
Si tratta, ovviamente, di un dato sperimentale che dipende dalla capacità produttiva dei vari
soggetti economici, e dinamico perché cambia con il mutare delle tecnologie. Quindi la quantità
media di lavoro valida per produrre un bene va rapportata anche al contesto storico e tecnologico
in cui si opera. Volendo raggiungere un modello matematico relativo al valore – lavoro scriveremo:
ΔV = L ΔT 48
Tesi d’esame di Giovanni Prencipe, 5Dp anno scolastico 2011/2012
In cui il delta v rappresenta l’incremento di valore che si riesce ad attribuire al bene grazie
all’azione del lavoro umano (L) per unità di tempo moltiplicato per l’intervallo temporale. Avendo
considerato un’unità di lavoro convenzionale che prescinde dalla tipologia di lavoro svolto (in