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Introduzione Uomo tesina
"Di tanti vuoti è costruita la pienezza dell'esistenza umana."
(Hugo Von Hofmannsthal)
Da sempre l’uomo si è interrogato sulla sua natura bidimensionale: oltre al corpo, visibile e reale, la natura umana è caratterizzata anche da una parte invisibile che, per autori epici quali Omero e Virgilio, era assimilata ad un "soffio" che abbandona il corpo nel momento della morte. Soltanto grazie a Socrate si ridefinì il concetto, ripreso e codificato poi anche da Platone.
Il concetto è riformulato da Cartesio come "res cogitans" come elemento divino calato nell'uomo, contrapponendola al corpo quale "res extensa" e quindi parte della materia cosmica in generale. Dal XIX secolo in poi, con la nascita della psicologia, il concetto perde i significati mitici e religiosi, per assumere quello tecnico di "funzione" cerebrale, emotiva, affettiva e relazionale.
Di volta in volta i vari ambiti culturali e i vari pensatori hanno definito variamente la psiche, sottolineando maggiormente uno o più degli aspetti sopra indicati, per cui il termine oggi non è univoco.
Se per gli antichi greci era l'anima ed il "respiro vitale", nel corso del tempo col medesimo termine ci si è altresì riferiti a tre concetti distinti, a seconda dell'ambito di considerazione:
psiche come essenza spirituale, in ambito religioso;
psiche come insieme delle facoltà mentali e conoscitive, in filosofia;
psiche come complesso di funzioni non corporee, quale oggetto di studio della psicologia.
Molti pensatori, siano essi filosofi o scienziati, sono concordi nel definire l’anima un’entità universale invisibile e incompleta, cioè un vuoto inconscio presente in tutti gli uomini che ognuno tenta di colmare con desideri, ambizioni, piaceri, conoscenza. È inutile evidenziare che, però, nonostante i vari tentativi dell’uomo, la sua anima, il suo vuoto continuerà a persistere, dando vita ad una infinita tensione verso un infinito mai raggiungibile.
Più l’uomo viene a conoscenza del proprio limite, più intensamente continuerà la sua ricerca; ciò, però, non è un male dato che grazie a questa insoddisfazione innata, l’uomo è riuscito a superare parte dei suoi limiti che ha dato origine al progresso cognitivo, filosofico, scientifico e tecnologico che da sempre ha distinto l’uomo dagli altri esseri viventi.
Il processo cognitivo denominato “problem solving”, caratteristica principale soprattutto negli uomini, ha consentito al genere umano di progredire, di scoprire nuovi “mondi”, di desiderare più di quanto conoscesse, e, infine, di svelare parte dei “misteri” che si estendono da un micro-universo a un macro-universo di varie branche della realtà.
Riguardo all’inappagamento dell’uomo Leopardi scrive nello Zibaldone «Tutto è o può essere contento di se stesso eccetto l’uomo, il che mostra che la sua esistenza non si limita a questo mondo, come quella dell’altre cose». Noi uomini siamo «miseri inevitabilmente ed essenzialmente per natura nostra [...]. Cosa la quale dimostra che la nostra esistenza non è finita dentro questo spazio temporale come quella dei bruti». Nella stessa pagina del testo miscellaneo Leopardi arriva ad affermare che «una delle grandi prove dell’immortalità dell’anima è la infelicità dell’uomo paragonato alle bestie che sono felici o quasi felici».
Nel testo si scorge un concetto chiave: l’insoddisfazione è la dimostrazione dell’eternità dell’anima. Ciò spiega l’atteggiamento primitivo dell’uomo di ricercare al di là del “cielo” un dio in cui confidare e a cui aspirare.
Concludendo, si può affermare che si dovrebbe aver rispetto di questo religioso sentimento di insoddisfazione e di inquietudine, di questa tristezza che deriva da una tensione inesausta all’infinito, alla compiutezza e alla perfezione. L’insoddisfazione è il sentimento che denuncia in maniera inconfondibile la statura umana, l’aspirazione all’Infinito del nostro animo, la sua incapacità di accontentarsi di piaceri finiti e limitati, la necessità di incontrare un piacere infinito che corrisponda al proprio cuore. La seguente tesina permette anche altri collegamenti interdisciplinari.
«Ciascuno provi ad esaminare il proprio pensiero. Lo troverà rivolto interamente al passato o al futuro. Non pensiamo quasi mai al presente e se ci pensiamo, è solo per prenderne la forza per disporre del futuro. Il presente non è mai il nostro fine. Il passato e il presente sono i nostri mezzi: solo l'avvenire è il nostro fine. Così non viviamo mai, ma speriamo di vivere e preparandoci sempre ad esser felici, inevitabilmente non lo siamo mai.»
(Blaise Pascal)
Collegamenti
Uomo - Tesina
Greco: Lexcursus del ruolo della divinità nelle opere greche dall'età arcaica a quella ellenistica, per spiegare la ricerca di Dio da parte dell'uomo.
Latino: Seneca e il suo percorso infinito verso la virtus per trovare la vera felicità.
Italiano: Paradiso di Dante come espressione della tensione del Finito verso l'Infinito in contrapposizione con la "poetica del limite" di Montale.
Inglese: Ulysses of Alfred Lord Tennyson.
Filosofia: Il sublime kantiano, l'idealismo tedesco e la "cieca volontà" di Schopenhauer come dimostrazioni del sentimento di infinito.
Storia: La conquista dello Spazio e contestualizzazione con la Guerra Fredda.
Scienze Naturali: l'uomo al di là del cielo e lo studio della Via Lattea e le altre galassie.
Fisica: Un excursus della storia della fisica considerata come frutto dell'insoddisfazione conoscitiva dell'uomo; approfondimento sulle Equazioni di Maxwell.
Matematica: breve storia del calcolo infinitesimale e definizioni di Limite (in tutti i casi) e di continuità di una funzione..
impedisce all'uomo di riconoscere i propri limiti e di commisurare le proprie forze. Chi ha
ambizioni troppo elevate e osa oltrepassare il confine posto dagli dei pecca di hýbris e
ῶ
incorre in quella che viene chiamata “invidia degli dei” (in greco φθόνος θε ν); una divinità
“invidiosa” del successo e/o dell’indignazione di un mortale è, come tale, determinata ad
abbatterlo con prepotente capriccio. A proposito di ciò, non si può non citare la tragedia
dell’Ippolito Portatore di Corona di Euripide, emblema della tragicità di un sentimento
amoroso scaturito dall’invidia di una divinità.
Dal IV-III secolo a.C. in poi la religiosità degli scritti greci va man mano affievolendosi, fino
ad arrivare all’età ellenistica in cui gli autori tralasciano l’ambito religioso per concentrarsi
principalmente sulla sfera affettiva con uno stile più elegante, sobrio e meno prolisso.
Seppur in molti testi è presente ancora il “mito” in tutte le sue sfaccettature, esso, però,
diventa in quest’epoca uno strumento di elegante erudizione, come si può notare nelle
opere callimachee e teocritee.
Teocrito, in particolare, strumentalizza il “divino” per la propria investitura poetica, facendo
eruditi riferimenti ad Omero e ad Esiodo. L'idillio VII, infatti, racconta chiaramente la
vicenda: un gruppo di amici tra cui Simichìdas (dietro il quale si nasconde la persona di
Teocrito) si sta recando in città sull'isola di Cos per prendere parte alla festa delle Talisie.
Durante il tragitto vengono avvicinati da un pastore-cantore di nome Lykìdas. Dopo un
agone poetico nel quale Simichìdas canta un elogio dell'amore efebico e Lykìdas canta il
mondo pastorale, quest'ultimo cede il proprio bastone a Simichìdas; dietro a questo atto si
nasconde l'investitura poetica di Teocrito. Mario Puelma, classicista e filosofo svizzero,
mise in evidenza, in uno dei suoi scritti, il tono fortemente omerizzante con cui viene
introdotta la figura di Lykìdas. Il personaggio è infatti caricato di una misteriosa aura
soprannaturale e risulta essere per metà divino e per metà pastore. Da un lato la sua
epifania ricorda molto quella delle divinità olimpiche in Omero, dall'altro viene descritto in
maniera realistica nell'abbigliamento. Vi è, dunque, una somiglianza con l'investitura
esiodea del prologo della Teogonia poiché l'aureola del "divino" posseduta da Lykìdas è
funzionale all'investitura poetica stessa.
La religiosità pagana, ormai soppiantata da molteplici culti provenienti dall’Oriente, non
fornisce più all’uomo le risposte che egli cerca. Questi interrogativi trovano ora risposta
nella filosofia che assume carattere individualista e pragmatico. Il modello da seguire non è
più il guerriero, l’eroe aristocratico ma il filosofo che diventa un punto di riferimento contro le
sofferenze, che rivela come la felicità non sia un traguardo raggiungibile con il piacere dei
sensi, la ricchezza, il potere ed il successo, ma con l'autarchia e l'apatia, le sole condizioni
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essenziali della saggezza e, quindi, della felicità interiore. Dagli insegnamenti di filosofi
come Pirrone di Elide, Zenone di Cizio ed Epicuro, nacquero le maggiori dottrine filosofiche
di età ellenistica, quali lo scetticismo, lo stoicismo, l'epicureismo e il cinismo. Queste scuole
ὐ
filosofiche ebbero tutte al centro del proprio interesse la ε δαιμονία, ossia la ricerca della
felicità da parte dell’uomo. Ricerca che assume un carattere parzialmente originale nei
pensatori latini.
Il grande filosofo e scrittore latino Lucio Anneo Seneca, importante esponente della filosofia
stoica nella Roma imperiale del I secolo d.C., nella Prefazione alle Naturales Quaestiones
fa un confronto tra le due filosofie più diffuse in tutto il mondo romano: lo Stoicismo e
l’Epicureismo. La differenza che vi è tra la filosofia e le altre
Quantum inter philosophiam interest et arti è la stessa, ritengo, che esiste tra quella
ceteras artes, tantum interesse existimo in parte della filosofia che riguarda gli uomini e
ipsa philosophia inter illam partem quae ad quella che cerca di giungere agli dei.
homines et hanc quae ad deos pertinet. Quest’ultima è più profonda e più ardita, si è
Altior est haec et animosior; non fuit oculis spinta oltre i confini, non si è limitata a ciò che si
contenta; maius esse quiddam suspicata può vedere, ma ha ipotizzato che esistesse
est ac pulchrius quod extra conspectum qualche cosa di più grande e di più bello che la
nostrum natura posuisset. natura avesse posto oltre i limiti dello sguardo
Denique inter duas interest quantum inter umano. Ancora, tra le due vi è la medesima
deum et hominem. Altera docet quid in terris differenza che tra dio e l’uomo. Una insegna
agendum sit, altera quid agatur in caelo. che cosa è necessario fare sulla terra, l’altra ciò
che accade nel cielo. L’una svela i nostri errori e
Altera errores nostros discutit et lumen ci dona la luce affinché divengano evidenti le
praebet ut discernantur ambigua vitae; incertezze dell’esistenza, l’altra vola ben oltre la
altera super hanc in qua volutamus, nebbia nella quale ci aggiriamo e, strappatici
caliginem excedit et nos,e tenebris ereptos, alle tenebre, ci conduce lì dove la luce ha
illuc perducit unde ipsa lucet. origine.
Quapropter ubi in secretiora eius Da parte mia, rendo grazie alla natura quando
intravimus, discimus quae universi materia la osservo non da quella parte che è accessibile
sit, quis auctor aut custos eius sit, quid sit 12
a tutti, ma quando sono entrato in ciò che essa
deus, totus in se tendat an aliquando ad ha di più segreto, quando apprendo quale sia la
nos respiciat, pars mundi sit an mundus materia dell’universo, chi ne sia l’autore o il
ipse, liceat illi ex lege fatorum derogare an custode, che cosa sia Dio, se sia rivolto tutto a
eis subiectus sit. se stesso o se di tanto in tanto guardi anche
verso di noi, se faccia ogni giorno qualcosa o
l’abbia fatto una volta per tutte, se sia una parte
del mondo o si identifichi col mondo
La filosofia “terrestre” cui si riferisce Seneca nel testo appena citato è l’Epicureismo, mentre
la filosofia “celeste” indica lo Stoicismo. Questa scuola filosofica, dunque, è considerata
dall’autore superiore alla prima e più “ardita” (altior et animosior) perché permette di andare
oltre il visibile e di conoscere l’invisibile, ovvero la fonte della luce divina che illumina il
mondo (lumen). Seneca non condanna l’Epicureismo: esso ha il merito di portare una parte
della luce divina nel mondo, ossia, fornisce il giusto criterio per comportarsi nei casi dubbi
della vita; tuttavia si dimostra insufficiente perché non permette di conoscere a fondo la
ragione da cui promana questo stesso criterio. In altri termini il filosofo ritiene che la
teologia sia superiore all’etica, nel senso che ne rappresenta il fondamento. Per questo lo
Stoicismo, insegnando a volgere lo sguardo verso Dio, si dimostra migliore
dell’Epicureismo.
Questa tensione verso la dimensione divina, conduce Seneca a elaborare il concetto di
virtù come un avvicinamento infinito, e quindi senza termine, a Dio. Con questa idea, però,
egli si differenzia tanto dagli epicurei che dagli stoici. Secondo gli epicurei la virtù consiste
nel saper eseguire il calcolo razionale dei piaceri. La condizione preliminare per eseguire
questo tipo di calcolo è comprendere che il piacere non consiste nel godimento, ma
nell’assenza di dolore (aponia). Per provare piacere in modo continuativo, dunque, cioè per
essere felici, occorre limitare al massimo grado i desideri, i quali, come dirà molti secoli
dopo Schopenhauer, sono fonti di preoccupazioni e quindi procurano dolore.
Secondo gli stoici, invece, la virtù consiste nel saper controllare le passioni sino a
raggiungere la totale indipendenza rispetto ad esse. Tale condizione, detta apatia (assenza
di passioni), procura automaticamente la felicità perché l’infelicità, secondo gli stoici, è
prodotta proprio dal turbamento emotivo. Tuttavia la virtù è appannaggio di pochi saggi: la
maggior parte degli uomini non fa un uso corretto della ragione; è e sarà sempre preda
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delle passioni e per questo resterà infelice. Tra queste due categorie di persone, secondo
gli stoici, vi è un salto incolmabile.
Seneca, pur partendo dalla posizione stoica, ritiene che la differenza tra il saggio e lo stolto,
tra il razionale e l’irrazionale non sia netta: il saggio, infatti, non è colui che ha raggiunto la
virtù assoluta, ovvero un perfetto equilibrio interiore, ma colui che vi si approssima. Tra i
due poli, dunque, vi è una gradazione continua che l’uomo non potrà mai percorrere fino in
fondo. Il percorso del saggio è destinato a proseguire all’infinito senza mai compiersi in
senso assoluto: tra ciò che l’uomo deve essere e ciò che è di fatto vi è sempre uno scarto e
l’oscillazione tra il bene e il male, per quanto minima, è sempre presente. Egli, infatti, non si
ritiene un saggio, cioè possessore della virtù, ma un uomo in cerca di essa.
È con questo spirito che Seneca si approccia a scrivere una vasto corpus di opere di
carattere etico-filosofico in cui, rivolgendosi a diverse tipologie di persone, cerca di
insegnare che la virtù non è qualcosa da conquistare ma qualcosa di cui si deve avere
l’intenzione di perseguire. Questo percorso condurrebbe alla felicità interiore e
all’imperturbabilità dell’animo, traguardi che tutti gli uomini di ogni epoca hanno cercato di
raggiungere.
Il De vita beata è il testamento per eccellenza del pensiero di Seneca. Egli, rivolgendosi in
questo dialogo al fratello Anneo Novato, chiamato qui Gallione, si pone come maestro di
vita per condurre un’esistenza quanto più lieta possibile. L’autore esordisce dicendo:
Dunque la vera felicità risiede nella virtù. Ma
Ergo in virtute posita est vera felicitas. Quid quali consigli ti darà questa virtù? Di
haec tibi virtus suadebit? Ne quid aut considerare bene solo ciò che è legato alla virtù
bonum aut malum existimes, quod nec e male ciò che è legato alla malvagità. Poi di
virtute nec malitia continget; deinde, ut sis restare ben saldo di fronte al male e al seguito
inmobilis et contra malum [et] ex bono, ut del bene in modo da imitare Dio nei limiti del
qua fas est, deum effingas. Quid tibi pro hac possibile. E che premio ti promette per questa
expeditione promittit? Ingentia et aequa impresa? Privilegi grandi e degni degli dei: non
divinis: nihil cogeris, nullo indigebis, liber sarai costretto a nulla, non avrai bisogno di
eris, tutus indemnis; nihil frustra temptabis, nulla, sarai libero sicuro e inviolabile, non
nihil prohibeberis; omnia tibi ex sententia tenterai niente invano e non sarai mai
cedent, nihil adversum accidet, nihil contra ostacolato, tutto andrà secondo il tuo desiderio,
nulla ti sarà avverso né contrario al tuo intento e
opinionem ac voluntatem. "Quid ergo? alla tua volontà. "Allora basta la virtù per essere
Virtus ad beate vivendum sufficit?" Perfecta 14
felici?" Perfetta e divina com'è, perché non
illa et divina quidni sufficiat, immo dovrebbe essere sufficiente, anzi più che
superfluat? Quid enim deesse potest extra sufficiente? Cosa può mancare infatti a chi è al
desiderium omnium posito? Quid di là di ogni desiderio? Di cosa può aver
extrinsecus opus est ei, qui omnia sua in se bisogno dall'esterno chi ha raccolto tutto in se
collegit? Sed ei, qui ad virtutem tendit, stesso? Ma chi ancora non ha raggiunto la virtù,
etiam si multum processit, opus est aliqua anche se ha fatto molta strada, ha bisogno che
fortunae indulgentia adhuc inter humana la sorte gli sia benevola finché si dibatte in
luctanti, dum nodum illum exsolvit et omne mezzo ai difetti umani e non riesce a sciogliere
vinculum mortale. Quid ergo interest? Quod questo nodo e ogni vincolo mortale. Allora che
arte alligati sunt alii, adstricti [alii], districti differenza c'è? Che questi sono ben bene legati
quoque: hic, qui ad superiora progressus stretti e incatenati e invece a chi ha cercato di