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Introduzione Tramonto dell'Occidente, tesina
Questa tesina di maturità descrive il tramonto dell'Occidente.
«La questione della verità, che è la questione dell’errore, mi ha tormentato in modo particolare fin dagli inizi dell’adolescenza». E. Morin, Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione.
Da un lato, Karl Jaspers, nel suo celebre testo “Introduzione alla filosofia”, ci ricorda che “Talete, il primo dei filosofi greci, venne deriso da una servetta che lo vide cadere in un pozzo perché camminava guardando le stelle. Pretendeva di guardare ciò che è lontano, inetto com’era a rendersi conto di ciò che è vicino”. Si comprende facilmente che quest’atteggiamento ironico nei confronti del pensatore di Mileto si erge a ipostasi dell’obiezione contro la filosofia: la critica della sua utilità (a cosa serve la filosofia?). Dall’altro lato, invece, abbiamo la schiera di chi considera la βίος θεωρητικός come l’ideale più alto e desiderabile per l’uomo. Ce ne parla, ad esempio, Ovidio, nelle sue “Metamorfosi”, quando dice:“Mentre gli animali volgono lo sguardo verso terra […] egli dette all’uomo un volto sublime e gli ingiunse di guardare il cielo e di volgere il dritto sguardo alle stelle”, o ancora, come riporta Gregorio di Nissa: “Il cielo e non la terra è la patria dell’uomo”.
Insomma, se da una parte c’è un estremo pragmatismo, in antitesi abbiamo una concezione di pensiero che definisce animali coloro i quali volgono lo sguardo verso i propri piedi, invece che rivolgerlo verso il cielo. In forza di ciò, ho tentato di inquadrare in questo breve testo quel luogo che tutti reclamano e di cui nessuno riesce a impossessarsi, a metà strada tra terra e cielo, tra materia e spirito, tra cervello e Occasum – Heidegger, Jaspers e il tramonto dell’Occidente anima: la mente. Cercheremo di fare chiarezza sul problema della nostra conoscenza, non solo per evitare di cadere nel pozzo in cui è finito Talete, ma anche per non smettere di osservare quel cielo stellato che è sopra di noi, capace di
“riempire la mente con sempre nuova e crescente ammirazione e rispetto”.
Anzitutto, è necessario prendere coscienza di essere individui pensanti, capaci di attuare un ragionamento logico, e di comprendere bene chi siamo e cosa ci circonda. Questi sono i presupposti necessari che dobbiamo porci per iniziare a strutturare in maniera rigorosa e fondamentale le nostre conoscenze; abbiamo bisogno di ciò che ci aiuta a pensare da soli: un metodo, che sia in grado di tradurre la complessità del reale, permettendoci di avvicinarci al mistero delle cose. Ho chiamato la mia tesina di maturità: “Occasum”, che in latino significa “tramonto”, ma avrei potuto benissimo intitolarlo: “Téchne”, dato che ogni pagina, ogni frase è una critica alla cultura moderna e contemporanea, che è, innanzitutto, una cultura tecnica, che si esplica quindi per mezzo di quella che Kant definisce “mathesis universalis”, cioè la tendenza anticipatrice e organizzatrice tipica del pensare. matematico. Heidegger, in riferimento a ciò, parla di “pensiero calcolante”, individuando nel modo di pensare occidentale la tendenza al calcolo e la riduzione di tutto lo scibile alla sua possibile previsione da parte della scienza. Secondo il pensatore tedesco, al giorno d’oggi, ci compete solo il far di conto; da ciò l’inferenza che non possiamo adottare una visione del mondo che non cada inevitabilmente sotto il profilo dell’utile. La qualità del pensiero di cui oggi noi disponiamo è egemone al punto che, ormai, non sappiamo più che cosa è bello, cosa è brutto, cosa è vero o santo, perché siamo attratti subito da cosa è utile. Le riflessioni di Heidegger sul problema della tecnica possono essere riassunte in tre grandi osservazioni:
1) Il mondo si trasforma in un enorme apparato tecnico;
2) L’uomo non è preparato a questa radicale trasformazione;
3) Risulta essere assente un pensiero che funga da alternativo al pensiero come calcolo (Denken als Rechnen).
Ma cosa diciamo quando affermiamo che siamo nel “tramonto dell’Occidente”? Che l’Occidente è giunto al suo “tramonto”? Non anticipiamo altro che il senso espresso da più di duemila anni dalla nostra cultura che, come dice il nome, è “occidentale”, cioè “serale”, avviata a un “tramonto”, a una “fine”. L’evento occidentale è sempre stato presso la sua fine, ma solo ora, con Nietzsche e poi con Heidegger e Jaspers, comincia a prenderne coscienza. Ma che cosa davvero finisce, proprio oggi, quando sembra che tutto il mondo insegua senza esitazione la via occidentale, fino ad annullare la specificità che finora ha reso riconoscibile l’Occidente e soprattutto la sua distanza dall’Oriente? Finisce la fiducia che l’Occidente aveva riposto nel progressivo dominio da parte dell’uomo sugli enti di natura, oggi divenuti, al pari dell’uomo, materiali della tecnica. Ma la tecnica non ha alcun fine da raggiungere né alcuno scopo da realizzare, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità, la tecnica “funziona” secondo quelle procedure che, pur nel loro rigore e nella loro efficacia, si rivelano incapaci di promuovere un orizzonte di senso. E sulle ceneri della categoria di “senso”, che dell’Occidente è sempre stata l’idea guida, si affacciano le figure del nichilismo, le quali, nel proiettare le loro ombre sulla “terra della sera”, indicano, a ben guardare, la direzione del tramonto. Un tramonto già inscritto nell’alba di quel giorno in cui l’Occidente ha preso a interpretare se stesso come dominio dell’uomo sulle cose. In questa prospettiva ci proponiamo di rispondere ad alcune domande che rappresentano l’essenza e le conclusioni ultime di questa mia tesina:
1) Cosa è la filosofia?
2) Qual è il rapporto tra la filosofia e la scienza?
3) Qual è il rapporto tra la scienza e la tecnica?
4) E, posto che alla filosofia rimanga qualche scopo, le compete forse quello di salvare l’uomo dall’abisso (Ab-grund) tecnologico, massima espressione della volontà di potenza?
Quando ci si trova a parlare di argomenti complessi, talvolta, le persone tendono ad assumere due atteggiamenti fra loro speculari, ma intrinsecamente legati: abbandonano il dialogo, o lo affrontano come se si sentissero veramente esperte circa quell’argomento, rifiutando ogni tesi che vada contro le loro idee a riguardo. Quest’approccio è giustificato dal fatto che tutti noi fatichiamo ad accettare ipotesi alternative sulle domande cardinali della nostra esistenza, nei confronti delle quali la filosofia da sempre ha tentato di rispondere. Si potrebbe paragonare la nostra riluttanza a quella che proviamo quando rifiutiamo comprendere un trucco di magia che ci ammalia. Il mistero che aleggia intorno al senso del nostro esser-gettati (Geworfen) nel mondo ci fa sentire importanti, e ci spinge a credere, a buon motivo, di essere liberi, di poter scegliere se operare il bene o il male, di occupare una posizione privilegiata nell’universo, a discapito delle altre forme di vita; ma è davvero così? Intendo dire, è davvero lecito arrestarsi di fronte al problema della nostra esistenza e non domandarsi quale sia la vera natura del nostro cōgĭto? Daniel Dennett (nel suo libro “Consciousness Explained”) ci mette in guardia:
“I misteri sono eccitanti, dopo tutto fanno parte delle cose che rendono la nostra vita divertente… Una volta che il segreto è svelato non si può più tornare indietro nello stato di piacevole mistificazione che prima ci ammaliava”.
Scopo di questo mio lavoro è l’umile tentativo di proporre una via alternativa, un nuovo metodo che permetta di relazionarci con la complessità del mondo, in modo innovativo ed efficiente; non ridurre i fenomeni che ci circondano ai loro elementi costitutivi né astrarli dal contesto e ipostatizzarli. Ogni oggetto deve essere compreso e assimilato come rappresentazione di un soggetto che lo conosce, un soggetto sottoposto egli stesso a condizionamenti culturali, storici e sociali. Il compito che ci proponiamo è quello di andare a esaminare la scienza, intesa come metodo di conoscenza della realtà e, non per ultima, la filosofia, cercando di capire se essa, in qualche modo, sia ancora in grado di venirci in soccorso in questo particolare momento della nostra storia, caratterizzato da un’apoteosi delle tecnologie e del pensiero pragmatico, che detronizza le materie umanistiche da quella posizione preminente di cui godevano in passato. Questi saranno i presupposti da cui partiremo per la ricerca di un nuovo metodo, atto a comprendere meglio il reale. Nella mia tesina di maturità ho anche portato avanti dei collegamenti con le varie materie scolastiche.
Collegamenti
Tramonto dell'Occidente, tesina
Filosofia - Martin Heidegger, Karl Jaspers.
Scienze - Epistemologia, limiti e possibilità della scienza.
Pedagogia - Rapporti europei sull'istruzione (Lifelong Learning).
Sociologia - Edgar Morin e l'epistemologia della complessità.
Matematica - Kurt Gödel e il Primo Teorema dell'Incompletezza.
Storia - La crisi del paradigma occidentale e i disordini socio-culturali del primo Novecento.
METAMORFOSI
Pensare da sé
-
«Come la più ricca biblioteca, se è in disordine, non è utile, quanto una
piuttosto modesta, ma ben ordinata; parimenti la più grande quantità di
conoscenze non elaborate a fondo con il proprio pensiero vale assai
meno di una quantità molto minore di esse, che però sia stata pensata
a fondo e da più punti di vista».
A. Schopenhauer, “Parerga e paralipomena”
8
Con queste parole, Arthur Schopenhauer introduce il capitolo
ventiduesimo di Parerga e paralipomena. L’intellettuale che
ha affrontato la realtà senza serbare nel proprio cuore alcuna
domanda, sa bene che la complessità del mondo, nella sua
totalità, non può essere racchiusa all’interno di un sistema,
poiché esso non sarebbe in grado di spiegare i fatti in
maniera completa, in maniera, etimologicamente parlando,
coinvolgente. Fa riflettere il modo in cui il pensatore
tedesco, instancabile bibliofilo, si scagli contro la lettura:
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Alessio Giordano 5ªA Liceo delle Scienze Umane “D. Pace” Guglionesi (CB) A.S. 2015/2016
“La lettura non è che un surrogato del pensiero autonomo. Mentre
leggiamo, lasciamo che un altro guidi i nostri pensieri con le dande. Per
di più molti libri servono soltanto a farci vedere quante vie sbagliate ci
sono e come potremmo deviare malamente dalla via giusta, se ci
lasciassimo fuorviare da essi. Invece colui che è guidato dal genio, vale
a dire colui che pensa da sé, che pensa per volontà propria, che pensa
in modo giusto, è in possesso della bussola per trovare la via giusta.
Bisogna leggere, dunque, soltanto quando la sorgente dei pensieri
propri cessa di sgorgare; e ciò avverrà anche troppo spesso perfino
nella migliore mente. Invece, è un peccato contro lo spirito santo
scacciare i pensieri propri, dotati di energia primigenia, per prendere in
mano un libro.” .
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Pensare da sé è il momento irrinunciabile dell’epistemologia
della complessità, la tappa che, husserlianamente, ci consente
di attingere e osservare non i fatti, bensì le molteplici
essenze. Poiché se, come abbiamo visto, filosofia e scienza
sono in grado di offrirci una panoramica inclusiva del reale
solo collaborando l’una con l’altra, non è certo che tutti siano
in grado di adottare questa visione di cose. Compito della
pedagogia è, dunque, educare una generazione d’individui
capaci di pensare da sé, capaci di pensare di volontà propria,
di pensare in modo giusto. Solo attraverso una rifondazione
del sistema scolastico si può auspicare l’avvento d’individui
filosoficamente maturi, autonomi, intellettualmente fecondi,
capaci di comprendere la complessità del reale nei suoi
aspetti più pittoreschi, senza avvalersi di rappresentazioni
sociali, ma riflettendo in prima persona e problematizzando
l’oggetto delle loro rappresentazioni in maniera analitica e
solidale, per mezzo di un pensiero che non faccia violenza
alla realtà, ma che l’accudisca e l’osservi con cura e passione.
Il metodo incompleto
- «Credo che si tratti di una presa di coscienza tanto più importante
in quanto, fino a un’epoca molto recente, abbiamo convissuto con
l’idea che noi avremmo portato la storia a compimento, che la
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Occasum – Heidegger, Jaspers e il tramonto dell’Occidente
nostra scienza avesse acquisito l’essenziale dei suoi principi e dei
suoi risultati, che la nostra ragione fosse finalmente a punto, che la
società industriale stabilizzasse la sua rotta, che i sottosviluppati si
sarebbero sviluppati, che gli sviluppati non fossero sottosviluppati.
Oggi non si tratta di sprofondare nell’apocalissi e nel millenarismo,
si tratta di vedere che siamo forse alla fine di una certa epoca e,
speriamo, agli esordi di tempi nuovi».
E. Morin, “Introduzione al pensiero complesso”
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Dopo quanto affermato in questo testo, termino questo mio
lavoro con una breve riflessione circa l’incompletezza del
metodo di Morin. In verità, mi tocca ammettere che, se
effettivamente dovessi affermare la mia personale e
soggettiva opinione a riguardo, definirei l’opera di Morin
come un’opera perfettamente compiuta nel suo proposito.
Tuttavia, almeno per onestà intellettuale, mi vedo ben
convinto nel dire che la sua è un’opera incompleta. Questo
perché al mondo non c’è nulla che, in sé, sia compiuto: la
complessità del reale ci spinge a credere che niente sia
definitivo e perfetto. Certo, come afferma anche Dante, è il
desiderio di perfezione interiore che ci anima, quello che
Nietzsche definisce “volontà di potenza”. L’uomo è questa
perenne tensione verso l’assoluto e, anche se la perfezione
esistesse, egli non si contenterebbe di essa.
“Da un essere umano, che cosa ci si può attendere? Lo si colmi di tutti
i beni di questo mondo, lo si sprofondi fino alla radice dei capelli nella
felicità, e anche oltre, fin sopra la testa, tanto che alla superficie della
felicità salgano solo bollicine, come sul pelo dell’acqua; gli si dia di che
vivere, al punto che non gli rimanga altro da fare che dormire, divorare
dolci e pensare alla sopravvivenza dell’umanità; ebbene, in questo
stesso istante, proprio lo stesso essere umano vi giocherà un brutto
tiro, per pura ingratitudine, solo per insultare. Egli metterà in gioco
perfino i dolci e si augurerà la più nociva assurdità, la più dispendiosa
sciocchezza, soltanto per aggiungere a questa positiva razionalità un
proprio funesto e fantastico elemento. Egli vorrà conservare le sue
stravaganti idee, la sua banale stupidità…” .
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Alessio Giordano 5ªA Liceo delle Scienze Umane “D. Pace” Guglionesi (CB) A.S. 2015/2016
Queste parole uscirono dalla penna dell’uomo che Friedrich
Nietzsche considerava il più grande psicologo di tutti i tempi:
Fëdor Michajlovič Dostoevskij. E tuttavia, per quanto
sembrino esprimere il lato negativo dell’essere umano, io le
voglio cogliere nel loro senso più profondo e recondito.
L’uomo è un essere che non è fatto per rimanere fermo e
buono lì dove lo si lasci: ha bisogno di spaziare, di fare
esperienze e di sperimentare la vita che ha dinanzi. L’uomo è
un essere dalle potenzialità infinite, capace di azioni
immensamente buone, o terribilmente malvagie. Eppure,
quest’uomo siamo noi. Questa è la nostra natura e il nostro
destino, del quale siamo artefici.
Il Metodo è allora incompleto. Che cosa significa ciò? Che c’è
qualcosa di più “perfetto” da scoprire.
“Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande
scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono
ancora neppur toccati. Certo allora non resta più domanda alcuna; e
appunto questa è la risposta” .
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All’incompletezza del metodo epistemologico di Morin si lega
una lunga tradizione di pensiero volta alla ricerca di un
fondamento gnoseologico inoppugnabile e incontrovertibile.
Al fine di comprendere meglio questo mondo che ci
circonda, consci delle nostre possibilità, ma consapevoli
soprattutto che, lì dove si è appena data una soluzione a un
quesito, ne nasce un altro, riflettiamo sulla domanda che
sorge dalle ceneri dell’interrogativo dell’Occidente: “Cosa è
l’essente? Perché in generale si dà qualcosa? Perché non il
nulla?” Termina con questi quesiti il mio umile tentativo di
offrire uno sguardo sul tramonto dell’Occidente; domande le
quali io, ahimè, non sono attualmente in grado di dare una
risposta. Tuttavia abbiamo imparato che, in filosofia,
l’impostazione del quesito sembra essere più importante della
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Occasum – Heidegger, Jaspers e il tramonto dell’Occidente
riposta, e allora è su questo che è necessario lavorare,
cercando il modo più rigoroso per impostare correttamente i
temi della domanda. Forse, quando questa finalmente avrà
trovato la sua rigorizzazione, anche la risposta verrà a galla
come una boa nell’oceano sconfinato dell’essere. Quale
compito spetta dunque alla filosofia? Il compito permanente
del filosofare è quello di consentire all’uomo di diventare
veramente se stesso nel prender coscienza dell’essere. Nella
necessità che oggi ci angoscia, la comunicazione ci appare
come un’esigenza fondamentale. Chiarirla nei modi
dell’Umgreifende, partendo dalle sue molteplici origini,
costituisce il tema principale della ricerca filosofica, mentre
accostarsi alla comunicazione in tutte le sue possibili
realizzazioni è il compito quotidiano della vita filosofica.
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Alessio Giordano 5ªA Liceo delle Scienze Umane “D. Pace” Guglionesi (CB) A.S. 2015/2016
M. C. Escher - Magic Mirror (1946)
«Il compito del pensare, oggi, come lo
vedo io, è in qualche modo tanto nuovo
da esigere un metodo anch’esso
assolutamente nuovo. E questo metodo
può essere ottenuto solo attraverso il
dialogo diretto da persona a persona, e
attraverso un lungo apprendistato ed in
una certa misura attraverso l’esercizio
della visione del pensare. In poche
parole, questa modalità del pensare è
concepibile solo per pochi uomini,
inizialmente; può però in seguito essere
comunicato agli altri tramite i diversi
ambiti dell’educazione».
M. Heidegger, La questione del pensare
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Occasum – Heidegger, Jaspers e il tramonto dell’Occidente
Appendice – I fondamenti analitici del sapere
«Una volta non c’era nessuno, ma chi l’avrebbe mai detto? Nessuno,
appunto: siccome non c’era nessuno, nessuno diceva niente. Così questa
storia che non c’era nessuno era molto strana. Era vera, senz’altro,
perché in effetti non c’era nessuno, ma nessuno poteva dirla. Prima o
poi ci fu qualcuno, ma le stranezze non erano finite. Quando qualcuno
cominciò a raccontare la storia che una volta non c’era nessuno, gli altri
aggrottarono la fronte e sollevarono enormi punti interrogativi. Perché
come si faceva a sapere che una volta non c’era nessuno? Quando non
c’era nessuno, non c’era nessuno a saperlo, e il momento che ci fu
qualcuno non si poteva certo dire