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migliaia e tre decine, ma non l'assenza di centinaia e unità, ed era da interpretare

come: 1000 + 1000 + 10 + 10 + 10.

Frase riportata nel trattato matematico di Charles Seife, zero la storia di un’idea pericolosa, capitolo primo, pag. 18

Al vantaggio dei sistemi additivi, e cioè l'indipendenza dall'ordine degli addendi,

si opponevano però sostanziali svantaggi: da un lato, la teorica necessità di

infiniti simboli per le infinite potenze della base; e dall'altro, la (poco) pratica

pesantezza della rappresentazione, che richiedeva troppe ripetizioni. Questa

venne dapprima ovviata con l'introduzione di simboli per altri numeri, come i V

e I romani, e poi dall'eliminazione delle ripetizioni di unità, decine,

centinaia, ... mediante l'introduzione di simboli per i numeri fra 1 e 9: si passò

così ad un sistema additivo-moltiplicativo , che permetteva ad esempio di

scrivere 2030 più semplicemente come:

2 ·1000 + 3 ·10.

2.2 Sumeri

I Sumeri tentarono di ovviare al problema introducendo una nuova caratteristica:

il loro sistema di numerazione non era puramente decimale, in quanto si serviva

della base dieci per individuare le grandezze, ma introduceva anche il numero

sessanta come seconda base; i simboli individuavano i numeri uno, dieci,

sessanta, seicento, tremilaseicento e trentaseimila.

Tuttavia il simbolo corrispondente a 600 combinava la

tacca che indicava il 60 con il cerchietto che

rappresentava il 10. Questo schema creava una

notazione moltiplicativa: c’erano meno simboli da

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imparare e quelli dei grandi numeri avevano una logica interna che consentiva di

generare numeri maggiori partendo da quelli minori, senza dover inventare

nuovi segni. Un cambiamento significativo avvenne intorno al 2600 a.C, grazie

all’uso di uno stilo in grado di produrre linee più sottili e segni a forma di cuneo

di differenti dimensioni.

Il passo successivo nell’affinamento dei metodi, e che portò all’esigenza di

inventare il simbolo dello zero, fu l’introduzione di un sistema posizionale in cui

le ubicazioni dei simboli determinavano i loro valori. Ciò consentiva di usare un

numero minore di segni, dal momento che lo stesso simbolo poteva assumere

significati differenti a seconda della posizione.

2.3 Il problema del “posto vuoto”: Babilonesi e Maya a confronto

Un primo sistema posizionale fece la sua apparizione in Babilonia attorno al

2000 a.C; esso si limitava a estendere la notazione cuneiforme e il vecchio

sistema additivo in base sessanta in modo che includessero l’informazione

posizionale. Esso era usato in modo particolare dai matematici e dagli astronomi

più che per la contabilità quotidiana, ma ben presto fu utilizzato nella

registrazione dei decreti reali. In esso il numero 10.292 sarebbe stato concepito

come (2 x 60 x 60) + (51 x 60) + 32 (v. fig. 3).

Si tratta di una rappresentazione perfettamente analoga a quella di cui ci

serviamo noi, utilizzando le varie potenze di 10 anziché di 60; il sistema

sessagesimale risulta il medesimo da noi impiegato per le misure di tempo: 7

ore, 5 minuti e 6 secondi corrispondono a (7 x 60 x 60) + (5 x 60) + 6 = 25.506

secondi. Il più antico sistema posizionale decimale simile al nostro non apparve

prima della fine del III secolo a.C, quando i Cinesi introdussero il valore

posizionale nel loro sistema di segni in base dieci. Il sistema babilonese era

ancora un ibrido, in quanto l’indicazione del numero per cui andava moltiplicata

ciascuna potenza di 60 era ancora espresso in forma additiva. Ciò avrebbe

potuto causare ambiguità se non si fosse lasciato sufficiente spazio tra una

potenza di 60 e la successiva. Questa difficoltà veniva in genere affrontata

separando nettamente i diversi ordini di 60; tuttavia quando gli spazi bianchi

sono più di uno risulta difficile valutarli: si pensi con quale facilità possono

essere confusi i numeri 72 (settantadue), 7 2 (settecentodue) e 7 2

(settemiladue). Questa è la ragione per cui, dopo aver operato per 1500 anni

senza un simbolo dello zero, i Babilonesi introdussero un segno di separazione:

esso consisteva in due cunei sovrapposti, una doppia cuspide che permetteva di

indicare un posto vuoto nella rappresentazione di un numero. 6

Da

quando fu acquisito nel mondo dell’astronomia, data l’enorme importanza

dell’astronomia babilonese, esercitò una notevole influenza attraverso i secoli,

costituendo la prima rappresentazione simbolica dello zero nella storia della

cultura umana. Tuttavia, lo zero dei Babilonesi non significava nulla più di uno

spazio vuoto nel registro contabile: non veniva mai scritto come risultato di una

operazione, quale potrebbe essere (5 – 5), e non era neppure associato ad un

concetto metafisico di nulla. Non vi era alcun intreccio astratto: esso rispondeva

semplicemente alle esigenze di un popolo di contabili.

Il terzo sistema posizionale della storia della matematica mondiale in ordine

cronologico venne ideato dai Maya, che raggiunsero livelli di grande

raffinatezza nell’ambito delle scienze, matematiche e astronomiche in

particolare. Il loro sistema di numerazione si fondava su una base venti e i

numeri erano composti da combinazioni di punti, ciascuno equivalente a uno, e

di aste, equivalenti a cinque. I primi diciannove numeri erano costruiti con punti

e linee secondo uno schema additivo, derivato probabilmente da un sistema di

numerazione anteriore basato sulle dita delle mani e dei piedi.

Quando si dovevano scrivere numeri maggiori di 20 si creava una sorta di torre

di simboli, il cui piano terreno indicava i multipli di uno, mentre il primo piano

conteneva multipli di 20; al secondo piano, poi, non vi erano multipli di 20 x 20,

ma di 360, in maniera tale che ogni livello rappresentasse multipli di 20 volte

maggiori di quelli del livello precedente, leggendo il numero dall’alto verso il

basso. Il punto usato come simbolo dell’unità, talvolta sostituito da un

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cerchietto, si ritrova in tutta la regione sudamericana e secondo alcune ipotesi

deriva dall’uso di semi di cacao come unità monetarie. Il sistema posizionale

maya era integrato da un simbolo per lo zero a indicare l’assenza di

moltiplicatore a uno dei livelli della

“torre”; il simbolo assomigliava ad una

conchiglia, o secondo altre interpretazioni,

ad un occhio. I Maya usavano lo zero sia in

posizione intermedia, sia in posizione

finale nelle loro sequenze di simboli.

Tuttavia, nel nostro sistema decimale

ciascun livello è correlato al precedente

tramite potenze della base (dieci

nell’esempio considerato) e ciò permette di

“quantificare” l’effetto dello zero, dato che

aggiungerlo alla destra di un numero

comporta sempre la moltiplicazione per il

valore della base; il sistema dei Maya,

invece, manca di questa proprietà a causa delle distanze diseguali tra un livello e

l’altro. Essi non introdussero mai una sequenza regolare di livelli perché non

rispondeva alle loro esigenze di astronomi: il calendario più comune era

composto da 360 giorni, divisi in periodi di 20 giorni; ciascun periodo era

indicato con un’immagine che combinava i simboli degli intervalli di tempo con

quelli che specificavano quanti di questi intervalli andavano considerati. Spesso

in questi pittogrammi lo zero era dipinto con geroglifici differenti, a seconda

dell’aspetto esteriore della composizione di simboli: insomma, lo zero fu

introdotto per ragioni di carattere estetico, perché la rappresentazione grafica di

una data apparisse più completa ed equilibrata.

Il nocciolo della questione è che le normali attività

quotidiane lo zero non ci serve affatto. Nessuno va al

mercato a comprare zero pesci. Lo zero è in un certo senso il

più civilizzato dei numeri cardinali, e il suo impiego ci viene

imposto dalle esigenze legate all’esercizio di una raffinata

razionalità. (Alfred North Whitehead) (1)*

2.4 Lo Zero indiano, un numero un’idea

Occorre attendere il VII secolo per ritrovare uno zero che non si limiti ad

indicare uno spazio vuoto, ma lo stesso concetto di nulla. In India, in una civiltà

che presentava un sistema posizionale in base dieci fondato sull’utilizzo di nove

numeri distinti e su diversi nomi specifici per le potenze di dieci, lo zero

compare per la prima volta già in un testo cosmologico del 458 d.C, giunto

integro fino a noi. Inizialmente rappresentato da un punto, a poco a poco si

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iniziò ad usare il simbolo circolare 0: lo zero indiano indicava l’assenza di una

cifra in qualunque posizione, ma fungeva anche da operatore, in grado di

moltiplicare per la base ciascun numero, ed era incluso tra i possibili risultati di

un calcolo. Nel IX secolo d.C. il grande matematico indiano Mahavira intuisce

che quel simbolo può diventare un numero vero, come tutti gli altri. Lo zero è il

primo dei numeri, è pari ed ha proprietà piuttosto strambe: se lo si aggiunge a un

qualsiasi altro numero, per esempio 2, questi non aumenta: 2 + 0 =2. Anche se lo

si sottrae ad un numero, questi non diminuisce: 2 - 0 = 2. Se invece moltiplico

un qualsiasi numero per 0, ottengo sempre lo stesso risultato: 0. E, secondo

Mahavira, se divido 2 o 3 o 4 per il zero ottengo lo stesso e medesimo risultato,

zero. Ciò che più colpisce è la ricchezza di significati che gli Indù attribuiscono

(1)* Frase riportata nel trattato di Seife già citato, capitolo primo pag 12

allo zero: esso poteva essere indicato con 18 nomi differenti, tra cui sunya,

termine che letteralmente significa “vuoto”, ma che include le nozioni di spazio,

di vuotezza, di irrilevanza, di nulla e di non essere. Tale molteplicità di

sfumature in un unico concetto matematico è stato possibile perché alla base del

numero che indica una quantità nulla vi era un ricco ed elaborato retroterra

filosofico; mentre la tradizione greca ed ebraica rifuggivano dallo stato di nulla,

in quanto logicamente inaccettabile per la prima e anatema per la seconda, la

mentalità indiana considerava il nulla come uno stato di transizione, dal quale

tutto poteva essere giunto e ogni cosa poteva ritornare. Da un lato l’idea

dell’assenza, dall’altra il concetto di insignificanza, intrecciati tra di loro in

maniera indistinguibile. Ai Greci, che potevano vantare eccezionali conquiste

intellettuali, mancò quella dimensione mistica che avrebbe potuto contribuire a

inserire lo zero in un sistema pratico di contabilità.

2.5 Lo zero sbarca in Europa

I matematici indiani mutarono il ruolo dello zero, da mero segnaposto in un

numero in piena regola. Il simbolo dello zero giunse poi in Europa attraverso

(1)*

la cultura araba, passando dalla Spagna e dalla Sicilia. Gli Arabi, in stretti

rapporti commerciali con l’India, vennero a contatto con gli efficienti metodo di

calcolo elaborati e iniziarono a tradurre molte opere matematiche provenienti

dalla valle dell’Indo. Baghdad divenne un centro di smistamento culturale di

primaria importanza; agli inizi del IX secolo il grande matematico arabo Al-

Khuwarizmi illustrò la notazione indiana nel proprio trattato di aritmetica,

gettandone le basi; lo zero, sunya nella valle dell’Indo, divenne as-sifr, che

significa “assenza di qualunque cosa”. Il testo fu poi tradotto in latino,

probabilmente da Abelardo di Bath verso il 1120, e conobbe una vasta

diffusione. La diffusione del sistema indo-arabo in Europa è da attribuire in

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modo particolare a uno studioso francese, Gerberto d’Aurillac, che ne venne a

conoscenza durante lunghi soggiorni in Andalusia; era di umili origini, ma

ricevette una buona istruzione in un monastero ed intraprese una brillante

carriera ecclesiastica, divenendo papa nel 999 con il nome di Silvestro II.

Benché lo zero fosse pratico e indispensabile nel commercio e negli affari,

tuttavia la “cifra del niente” incontrò forti resistenze nell’Europa cristiana: il

sistema rivale, quello dei numeri romani, non era posizionale e non conteneva lo

zero; quando un simbolo romano I compariva alla fine di un numero, per

esempio II, veniva scritto IJ, per impedire che venisse corretto. Il sistema indo-

arabo si prestava invece più facilmente alle frodi: l’aggiunta di una cifra alla fine

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