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Sintesi


Scrittori Veristi e Realisti dell’800 in Europa
Estratto del documento

Scrittori

Veristi e Realisti dell’800

in Europa

1

I problemi dell’unificazione. Destra storica al

potere:

Il 27 Gennaio 1861, poche settimane prima che, a Torino, Vittorio Emanuele 2°

proclamasse l’unità d’Italia, si erano svolte le prime elezioni politiche del nuovo

stato. Gli iscritti alle liste elettorali non superavano i 450.000: neanche il 2% della

popolazione. Infatti, lo Statuto Albertino, la costituzione Sabauda del ’48, estesa a

tutte le regioni recentemente annesse, prevedeva un regolamento elettorale fondato

sul patrimonio e la ricchezza, che limitava notevolmente il diritto di voto. Il delicato

compito di eleggere il parlamento era quindi affidato a una ristrettissima minoranza. I

450.000 italiani con diritto di voto erano proprietari fondiari e ricchi imprenditori

agricoli, industriali e aristocratici, agiati commercianti e alti gradi militari. Era in

sostanza la nuova classe dominante, sorta dall’integrazione tra i vecchi proprietari

fondiari e i nuovi ceti borghesi. Questo gruppo dirigente nel parlamento era diviso in

due tendenze politiche distinte: nei banchi di destra, sedevano i moderati, i liberali

conservatori, seguaci delle idee e dei metodi di Cavour; in quelli di sinistra, i

progressisti, provenienti dalle file del movimento democratico d’ispirazione

mazziniana e garibaldina. Alla destra, chiamata “storica” dagli studiosi per

distinguerla dai successivi movimenti conservatori e reazionari, gli elettori e la

monarchia affidarono, fino al 1876, il difficile compito di cominciare a “fare l’Italia”

e a “fare gli Italiani”: infatti, l’Italia mancava ancora di una struttura amministrativa,

di ordinamenti scolastici, sanitari, giuridici, militari unitari e omogenei. E anche gli

abitanti delle diverse regioni erano separati da barriere secolari, fatte di tradizioni e

culture diverse: solo 250.000 cittadini del nuovo Stato parlavano la lingua italiana,

mentre i restanti 21 milioni si servivano di una miriade di dialetti. Di fronte a questo

gigantesco compito erano emerse due ipotesi di intervento: la prima puntava ad

accentuare tutti i poteri nelle mani del governo e si proponeva di estendere la

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legislazione sabauda alle nuove regioni ammesse; la seconda propugnava invece un

cauto decentramento, prevedendo l’affermazione di un istituto medio fra i comuni, le

province e lo stato, cioè le regioni. Il timore di non riuscire a governare il paese portò

la destra a scegliere la prima soluzione. Tra i primi provvedimenti del nuovo governo

italiano, assunse particolare rilievo la soppressione di tutte le barriere protezionistiche

presenti tra uno stato regionale e l’altro. A questa scelta politica economica vanno

aggiunti altri interventi, volti a omogeneizzare l’assetto giuridico e costituzionale del

paese: l’estensione a tutto il regno dell’obbligo di frequentare i primi quattro anni

della scuola elementare, la promulgazione del nuovo codice civile e l’imposizione del

servizio militare. Già dal 1861, però, migliaia di Italiani del sud si ribellarono al

governo dei piemontesi dando vita al vasto fenomeno del “brigantaggio”.

Il brigantaggio e la situazione meridionale:

Il nuovo stato italiano era parso ai contadini poveri del sud come un organismo

estraneo: nulla stava cambiando nelle campagne, dove ancora i grandi proprietari

terrieri dettavano legge. La riforma agraria, la distribuzione delle terre cui aspiravano

milioni di contadini meridionali, non erano i programmi del governo della destra,

anzi, i primi provvedimenti governativi apparivano alle regioni meridionali più

pesanti di quelli dei Borboni: infatti, obbligavano al servizio militare i giovani per

cinque anni, aggravando così le già pessime condizioni di vita dei contadini

meridionali. In questo contesto, fece presa la reazione legittimista che premeva per un

ritorno al potere della dinastia borbonica. La spina dorsale di questo movimento era

rappresentata dal clero, a cui si aggiungevano funzionari pubblici, impiegati e militari

che erano vissuti sotto il passato regime; essa puntava sul malcontento contadino nei

confronti del nuovo stato e sulle conseguenze che la guerra d’unificazione aveva

apportato nell’economia meridionale. L’insieme di questi fenomeni sociali e politici

determinò una tumultuosa sollevazione del mezzogiorno rurale, che si manifestò nella

forma storica del brigantaggio e delle guerriglie per bande. Migliaia di lavoratori

rurali, molti dei quali erano ex garibaldini, decisero di insorgere contro il nuovo stato,

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inneggiando alla restaurazione del regime borbonico, spinti anche dalla miseria, dalla

fame e dalla insensibilità della nuova classe politica nei confronti dei problemi delle

masse rurali meridionali, non certo dalla volontà di un ritorno al passato. Il governo

respinse in modo cruento queste ribellioni. Alla fine del 1864, il sud poteva

considerarsi rappacificato, ma non erano risolti i problemi che avevano scatenato la

prima ribellione della storia d’Italia Unita, in cui erano morte più persone che nelle

guerre risorgimentali. Sul piano economico, lo Stato prese vari provvedimenti: uno

dei primi fu quello di costruire su tutto il territorio nazionale un’efficiente rete di

comunicazioni stradali e ferroviarie; insieme con l’abolizione delle barriere doganali,

questi provvedimenti avrebbero dovuto fare dell’Italia un unico grande mercato.

Grazie all’ampliamento delle comunicazioni, i prodotti industriali del nord, pur

essendo prevalentemente rivolti ai mercati esteri riuscirono a raggiungere quelli

dell’Italia centro meridionale. Inoltre i gruppi capitalisti trovarono nelle costruzioni

ferroviarie una delle prime forme redditizie d’investimento. Il liberismo radicale

stroncò sul nascere l’affermazione di una struttura industriale del mezzogiorno:

l’industria manifatturiera, per esempio, non resse alla concorrenza europea e a quella

del nord d’Italia. Il sud perdeva così ogni possibilità di dotarsi di una moderna

ossatura industriale e veniva condannato a essere una periferia agricola.

Si cominciava così a delineare nella società italiana il grave problema, ancora oggi

irrisolto, della differenza del nord industriale e del sud prevalentemente agricolo che

gli storici hanno chiamato “questione meridionale”. La progressiva creazione di un

moderno mercato nazionale significò, inoltre, la lenta scomparsa dell’artigianato

locale e del lavoro a domicilio. La diffusione della produzione industriale nel settore

tessile e alimentare cancellò questa diffusa attività contadina, con la forza delle sue

tecnologie o dei bassi prezzi: i contadini, espropriati della loro fonte di reddito,

furono costretti a diventare degli operai nelle industrie in via di sviluppo.

Nonostante tutte queste iniziative economiche, il bilancio dello stato era in deficit.

Così, per irrobustire le finanze statali, il governo della destra impose a tutti i cittadini

di pagare più tasse. L’inasprimento non riguardava tanto le imposte dirette, bensì

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quelle indirette, vale a dire quelle che gravano, sempre ed in maniera uguale per tutti,

sulle singole merci di consumo, quali farina, sale, carbone, fiammiferi. Ciò consentì

di riscuotere le tasse più velocemente e di far pagare queste imposte alla maggioranza

della popolazione. L’aumento dei prezzi dei prodotti di largo consumo contribuì così

ad aggravare le condizioni di vita già misere dei contadini e dei lavoratori urbani. Nel

1868 l’imposizione di una nuova imposta, la tassa sul macinato, fece esplodere una

violenta protesta popolare contro la politica del governo. Nonostante le gravissime

tensioni sociali che questa politica innestava, nel 1876, lo Stato riuscì ad ottenere il

pareggio del bilancio.

Per quindici anni, la destra era riuscita a governare tra le mille difficoltà che si

presentavano all’indomani dell’unità d’Italia, ma, dopo questo periodo, la distanza

tra i gruppi dirigenti e la società nel suo complesso si era allargata. Nel Marzo del

1876, messo in crisi da un’opposizione sempre crescente, il governo della destra fu

costretto a rassegnare le dimissioni; la presidenza del consiglio veniva assunta dal De

Pretis che, in quegli anni, aveva guidato l’opposizione. La sinistra era espressione dei

ceti sociali più favorevoli al cambiamento e più sensibili alle nuove correnti culturali

e politiche internazionali: non a caso, in tutta Europa, il protezionismo industriale

stava trionfando e la legislazione sociale si faceva strada. Erano tutte scelte che

andavano in una direzione duramente contraria al principio basilare del liberalismo.

L’avvento della sinistra al governo non fu certo una rivoluzione, come scrissero molti

uomini politici di allora; fu però un avvenimento denso di significato che segnò il

passaggio a una nuova fase storica, nella quale l’Italia definì meglio i suoi connotati

di moderno paese industriale. 5

La seconda rivoluzione industriale:

La sconfitta dei moti rivoluzionari del 1848 e il ritorno all’ordine nella maggior parte

degli stati, non impedirono lo sviluppo dell’economia liberale, anzi ne favorirono

un’espansione senza precedenti. Infatti, nell’Europa centro-occidentale, tra il 1850 e

il 1873, caddero le ultime limitazioni giuridiche di origine feudale alla circolazione

delle merci e dei lavoratori e i governi firmarono numerosi trattati di libero scambio,

agevolando l’espansione del mercato interno e internazionale, col risultato che il

commercio mondiale crebbe di due volte e mezzo nel giro di appena un ventennio. A

metà secolo la Gran Bretagna rappresentava il paese maggiormente industrializzato

ed era la massima esportatrice di manufatti e di tecnologie. Tuttavia, sulla sua scia

incalzava la concorrenza della Francia degli Stati Uniti e della Confederazione

germanica. Il trionfo dell’industrialismo e dell’economia di mercato trovò

un’adeguata cornice nelle grandi esposizioni internazionali promosse dai governi,

dove milioni di visitatori giungevano da tutto il mondo per ammirare i prodigi della

tecnologia. Si moltiplicarono così le occasioni di scambi e di affari, mentre si

celebravano e si esaltavano i valori e i principi liberali, nei quali veniva riposta la

fiducia di un progresso senza fine.

Anche sul piano culturale, col superamento dell’idealismo romantico, si impose la

filosofia positivista propugnato dal francese Auguste Comte che affidava alla scienza

e alle sue applicazioni concrete ( la tecnica ), la soluzione di ogni problema

individuale o collettivo, mentre nelle arti e nella letteratura iniziava la grande

stagione del Realismo.

Però, l’impetuosa crescita economica iniziata a metà dell’800 subì una repentina

interruzione dal 1873 fino agli ultimi anni del secolo, in gran parte dei paesi

industrializzati: il sistema produttivo non riuscì a ritrovare gli alti tassi di profitto del

periodo precedente. Causa di tutto ciò era la persistente sovrapproduzione

industriale, ( a cui poi si sommò anche quella agricola, aggravata in Europa dalle

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massicce importazioni di cereali americani ), e la caduta delle domande, mentre molte

imprese cessavano la loro attività e i dipendenti restavano senza lavoro. Soltanto a

partire dal 1896 l’andamento recessivo ebbe termine. Il mercato ricominciò ad

assorbire le merci e la lunga “depressione” sembrò superata.

Dinnanzi alla contrazione degli scambi e in seguito all’inasprimento della

concorrenza interna e internazionale, l’economia capitalistica subì processi di

ristrutturazione importanti, con ripercussioni di varia natura. Se le imprese meno

competitive dovettero chiudere i battenti, altre invece imboccarono la strada del

rinnovamento tecnologico, utilizzando ogni possibile contributo dalla scienza e dalla

tecnica, per realizzare nuovi procedimenti lavorativi e nuovi macchinari per

abbassare i costi di produzione, per aumentare la produttività degli impianti, per

migliorare la qualità dei prodotti e per soddisfare nuovi bisogni. Si assiste pertanto a

una radicale trasformazione dei processi produttivi, paragonabile secondo gli storici,

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