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«Di gente allegra...».

«Gente egoista vuol dire, e vi siete trovati isolatissimi in mezzo ad essa, capisco...».

«Prendevamo anzi molta parte alla loro allegria, sinceramente, spensieratamente. Appena però ci trovavamo soli...

Non potevamo mica condurre la comitiva a dormire con noi...».

«Ma dunque dormivate? Ora non capisco più, se tu intendi parlare di allucinazioni o pure di sogni...».

«E picchia con le allucinazioni, coi sogni! Eravamo svegli, con tanto di occhi spalancati, nelle più limpide funzioni dei

sensi e dello spirito, come in questo momento che vorrei ragionare con te e tu ti ostini a non volermi concedere..».

«Tutto quel che vuoi».

«Vorrei almeno esporti i fatti».

«Li so, me li figuro; i libri di scienza ne sono pieni zeppi. Potranno esservi diversità insignificanti nei minuti

particolari... Non contano. L'essenziale natura del fenomeno non muta per ciò».

«Non vuoi darmi neppure la soddisfazione...?».

«Cento, non una, giacché ti fa piacere. Tu sei di coloro che amano di grogiolarsi nei dolori, quasi vogliano

centellinarseli... È stupido, scusa!... Ma se ti fa piacere...».

«Francamente, mi sembra che tu abbia paura».

«Paura di che? Sarebbe bella!...».

«Paura di dover mutare opinione. Hai detto: Io non credo agli spiriti. E se, dopo, fossi costretto a crederci?».

«Ebbene, sì; questo mi seccherebbe. Che vuoi? Siamo così noi scienziati: siamo uomini, caro mio. Quando il nostro

modo di vedere, di giudicare ha preso una piega, l'intelletto si rifiuta fin di prestar fede ai sensi. Anche l'intelligenza è

affare di abitudine. Tu intanto mi metti con le spalle al muro. Sia. Sentiamo dunque questi famosi fatti».

«Oh!...», esclamò con un largo respiro Lelio Giorgi. «Già sai per quali tristi circostanze dovetti andarmene a cercar

fortuna in America. I parenti di Luisa erano contrari alla nostra unione; come tutti i parenti - e non dico che avessero

torto - anch'essi badavano, più che ad altro, alla situazione economica di colui che doveva essere il marito della loro

figliuola. Non avevano fiducia nel mio ingegno; diffidavano anzi della mia pretesa qualità di poeta. Quel volumetto di

versi giovanili pubblicato allora, è stato la mia maggiore disgrazia. Non che pubblicati, non ne ho scritti più da

quell'anno in poi; ma anche tu, poco fa, mi hai chiamato caro poeta! L'etichetta mi è rimasta appiccata addosso, quasi

fosse stata scritta con inchiostro indelebile. Basta. Suol dirsi che c'è un Dio per gli ubriachi e pei bambini.

Bisognerebbe aggiungere: E talvolta anche pei poeti, giacché devo passare per poeta».

«Ecco come siete voialtri letterati! Cominciamo sempre ab ovo!».

«Non spazientirti. Ascolta. Durante la mia dimora di tre anni a Buenos Aires, non aveva più avuto nessuna notizia di

Luisa. Piovutami dal cielo quell'eredità di uno zio che non s'era mai fatto vivo con me, tornai in Europa, corsi a

Londra... e con dugentomila lire di cartelle della Banca d'Inghilterra volai qui... dove mi attendeva il più doloroso

disinganno. Luisa era sposa da sei mesi! Ed io l'amavo più di prima!... La povera creatura aveva dovuto cedere alle

insistenti pressioni dei suoi. Ci mancò poco, te lo giuro, che non commettessi una pazzia. Questi particolari, vedrai,

non sono superflui... Commisi però la sciocchezza di scriverle una focosissima lettera di rimproveri, e di spedirglierla

per posta. Non avevo previsto che potesse capitare in mano del marito. Il giorno dopo egli si presentò a casa mia.

Compresi subito l'enormità del mio atto e mi proposi di esser calmo. Era calmo anche lui.

"Vengo a restituirle questa lettera" mi disse. "Ho aperto sbadatamente, non per indiscrezione, la busta che la

conteneva; ed è stato bene che sia accaduto così. Mi hanno assicurato che lei è un gentiluomo. Rispetto il suo dolore;

ma spero che lei non vorrà turbare inutilmente la pace di una famiglia. Se può fare lo sforzo di riflettere, si convincerà

che nessuno ha voluto arrecarle del male volontariamente. Certe fatalità della vita non si sfuggono. Lei intende qual è

ormai il suo dovere. Le dico intanto, senza spavalderia, che son risoluto a difendere a ogni costo la mia felicità

domestica".

Era impallidito parlando e gli tremava la voce. "Chiedo perdono dell'imprudenza" risposi. "E, per meglio rassicurarla, le

dico che domani partirò per Parigi".

Dovevo essere più pallido di lui; le parole mi uscivano a stento di bocca. Mi stese la mano; gliela strinsi. E mantenni la

parola. Sei mesi dopo, ricevevo un telegramma di Luisa: "Sono vedova. T'amo sempre. E tu?". Suo marito era morto

da due mesi».

«Il mondo è così: la disgrazia di uno forma la felicità di un altro».

«È quel che egoisticamente pensai anch'io; ma non sempre è vero. Mi era parso di toccare il cielo col dito la sera delle

nozze e durante i primi mesi della nostra unione. Evitammo, per tacito accordo, di parlare di colui. Luisa aveva

distrutto ogni traccia del morto. Non per ingratitudine, giacché quegli, illudendosi di essere amato, aveva fatto ogni

sforzo per renderle lieta la vita; ma perché temeva che l'ombra di un ricordo, anche insignificante, potesse

dispiacermi. Indovinava giusto. Certe volte, il pensiero che il corpo della mia adorata era stato in pieno possesso,

quantunque legittimo, di un altro mi dava tale stretta al cuore, che mi faceva fremere da capo a piedi. Mi sforzavo di

nasconderglielo. Spesso però l'intuito femminile velava di malinconia i begli occhi di Luisa. E per ciò la vidi raggiante di

gioia, quando ella fu sicura di potermi annunciare che un frutto del nostro amore le palpitava nel seno. Ricordo

benissimo: prendevamo il caffè, io in piedi, ella seduta con una posa di dolce stanchezza. Fu quella la prima volta che

un accenno al passato le sfuggì dalle labbra.

"Come sono felice" esclamò "che questo sia avvenuto soltanto ora!".

Si udì un gran colpo all'uscio, quasi qualcuno vi avesse picchiato forte col pugno. Trasalimmo. Io corsi a vedere,

sospettando una sbadataggine della cameriera o di un servitore; nella stanza allato non c'era nessuno».

«Vi sarà parso colpo di pugno qualche schianto forse prodotto nel legno dell'uscio dal calore della stagione».

«Diedi tale spiegazione, visto il turbamento grandissimo di Luisa; ma non ne ero convinto. Un forte senso di impaccio,

non so definirlo altrimenti, si era impossessato di me e non riuscivo a celarlo. Stemmo alcuni minuti in attesa. Niente.

Da quel momento in poi, però, notai che Luisa evitava di rimaner sola; il turbamento persisteva in lei, quantunque non

osasse di confessarmelo, né io di interrogarla».

«E così, ora comprendo, vi siete suggestionati, inconsapevolmente, a vicenda».

«Niente affatto. Pochi giorni dopo io ridevo di quella sciocca impressione; e attribuivo allo stato interessante di Luisa

l'eccessivo eccitamento nervoso che traspariva dai suoi atti. Poi parve tranquillarsi anch'essa. Avvenne il parto. Dopo

qualche mese però, mi accorsi che quel senso di paura, anzi di terrore, l'aveva ripresa. La notte, tutt'a un tratto, ella si

avvinghiava a me, diaccia, tremante.

"Che cosa hai? Ti senti male?" le domandavo ansioso. "Ho paura... Non hai udito?". "No". "Non odi?..." insistette la

sera appresso. "No". Invece quella volta udivo un fioco suono di passi per la stanza, su e giù, attorno al letto; dicevo di

no per non atterrirla di più. Levavo il capo, guardavo... "Dev'essere entrato qualche topo in camera...". "Ho paura!...

Ho paura!". Per parecchie notti, ad ora fissa prima della mezzanotte, sempre quello scalpiccio, quell'inesplicabile

andare e venire, su e giù, di persona invisibile, attorno al letto. Lo attendevamo».

«E le fantasie riscaldate facevano il resto».

«Tu mi conosci bene; non sono uomo da essere eccitato facilmente. Facevo il bravo anzi, per riguardo di Luisa;

tentavo di dare spiegazioni del fatto: echi, ripercussioni di rumori lontani; accidentalità della costruzione della villa, che

la rendevano stranamente sonora... Tornammo in città. Ma, la notte appresso, il fenomeno si riprodusse con maggior

forza. Due volte la spalliera appiè del letto venne scossa con violenza. Balzai giù, per osservar meglio. Luisa,

rannicchiata sotto le coperte, balbettava: "È lui! È lui!"».

«Scusa» lo interruppe Mongeri «non te lo dico per metter male tra tua moglie e te, ma io non sposerei una vedova per

tutto l'oro del mondo! Qualcosa permane sempre del marito morto, a dispetto di tutto, nella vedova. Sì. "È lui! È lui!".

Non già, come crede tua moglie, l'anima del defunto. È quel lui, cioè sono quelle sensazioni, quelle impressioni di lui

rimaste incancellabili nelle sue carni. Siamo in piena fisiologia».

«Sia pure. Ma io» riprese Lelio Giorgi «come c'entro con la tua fisiologia?».

«Tu sei suggestionato; ora è evidente, evidentissimo».

«Suggestionato soltanto la notte? A ora fissa?».

«L'attenzione aspettante, oh! fa prodigi».

«E come mai il fenomeno varia ogni volta, con particolari imprevisti, poiché la mia immaginazione non lavora punto?».

«Ti pare. Non abbiamo sempre coscienza di quel che avviene dentro di noi. L'incosciente! Eh! Eh! fa prodigi

anch'esso».

«Lasciami continuare. Riserva le tue spiegazioni a quando avrò finito. Nota che la mattina, nella giornata, noi

ragionavamo del fatto con relativa tranquillità. Luisa mi rendeva conto di quel che aveva sentito lei, per raffrontarlo

con quel che avevo sentito io, appunto per convincerci, come tu dici, se mai le fantasie sovraeccitate ci facessero,

nostro malgrado, quel brutto scherzo. Risultava che avevamo sentito l'identico rumore di passi, nella stessa direzione,

ora lento, ora accelerato; la stessa scossa alla spalliera del letto, lo stesso strappo alle coperte e nella stessissima

circostanza, cioè quando io tentavo, con una carezza, con un bacio, di calmare il suo terrore, d'impedirle di gridare: "È

lui! È lui!" quasi quel bacio, quella carezza provocassero lo sdegno della persona invisibile. Poi, una notte, Luisa,

aggrappandosi al collo, accostando le labbra al mio orecchio, con un suono di voce che mi fece trasalire, mi sussurrò:

"Ha parlato!", "Che dice?", "Non ho sentito bene... Odi? Ha detto: Sei mia!". E siccome anch'io la stringevo più

fortemente al petto, sentii che le braccia di Luisa venivano tratte indietro, violentemente, da due mani poderose; e

dovettero cedere non ostante la resistenza che mia moglie opponeva».

«Che resistenza poteva opporre, se era lei stessa che agiva in quel modo, senza averne coscienza?».

«Va bene... Ma ho sentito l'ostacolo anche io, di persona che si frapponeva tra me e lei, di persona che voleva

impedire, a ogni costo, il contatto tra me e lei... Ho visto mia moglie rigettata indietro con una spinta... Giacché Luisa

voleva stare in piedi, per via del bambino che dormiva nella culla accanto al letto, ora che sentivamo scricchiolare i

ferri a cui la culla era sospesa e vedevamo la culla dondolare, traballare e le copertine volare via per la camera,

buttate per aria malamente... Non era allucinazione questa. Le raccoglievo; Luisa, tremante, le rimetteva al posto; ma

di lì a poco esse volavano per aria di nuovo, e il bambino, destato dalla scossa, piangeva. Tre notti fa, peggio.... Luisa

sembrava vinta dal malefico fascino di colui... Non mi udiva più, se la chiamavo, non si accorgeva di me che le stavo

davanti... Parlava con colui e, dalle sue risposte, capivo quel che colui le diceva. "Che colpa ho io, se tu sei morto? Oh!

no, no!... Come puoi pensarlo? Avvelenarti io?... Per sbarazzarmi di te?... È un'infamia! E il bambino che colpa ha?

Soffri? Pregherò per te farò dire delle messe... Non vuoi messe?... Me, vuoi?... Ma come mai? Sei morto!...". Invano io

la scotevo, la chiamavo per destarla da quella fissazione, da quell'allucinazione... Luisa si ricomponeva tutt'a un tratto.

"Hai sentito?", mi diceva, "Mi accusano di averlo avvelenato. Tu non ci credi... Tu non mi sospetterai capace... oh Dio!

E come faremo pel bambino? Lo farà morire! Hai sentito?". Io non avevo udito niente, ma capivo benissimo che Luisa

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