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Introduzione
Sull’universo tanto è stato detto, ipotizzato, osservato, smentito, scoperto.
L’universo ha sempre rappresentato un mistero per l’uomo, e la paura superstiziosa che nell’antichità portava a considerarlo un altro mondo, divino ed irraggiungibile, si è da tempo tramutata in uno stimolo alla ricerca scientifica, portatrice di risposte che rendono l’umanità poco a poco sempre più consapevole delle leggi universali che regolano il mondo fisico, del quale la terra non è che un puntino infinitesimale.
Ma che cosa sappiamo noi dell’universo?
Stephen Hawking, attuale detentore della cattedra lucasiana di matematica di Cambridge che fu di Isaac Newton, e senza dubbio l’astrofisico più illustre del nostro tempo, ha pubblicato diversi saggi di divulgazione sulla moderna teoria cosmologica, alla cui delineazione ha contribuito egli stesso con i suoi preziosissimi studi sui buchi neri e sulle dinamiche dell’universo. Su uno di questi, «Dal Big Bang ai buchi neri», si basa buona parte del presente lavoro.
In apertura del suo libro, Hawking presenta un aneddoto che risponde con ironico realismo alla nostra domanda:
Un famoso scienziato tenne una volta una conferenza pubblica su un argomento di astronomia. Egli parlò di come la Terra orbiti attorno al Sole e di come il Sole, a sua volta, compia un’ampia rivoluzione attorno al centro di un immenso aggregato di stelle noto come la nostra galassia. Al termine della conferenza, una piccola vecchia signora in fondo alla sala si alzò in piedi e disse: “Quel che lei ha raccontato sono tutte frottole. Il mondo, in realtà, è un disco piatto che poggia sul dorso di una gigantesca tartaruga.” Lo scienziato si lasciò sfuggire un sorriso di superiorità prima di rispondere: “E su cosa poggia la tartaruga?” “Lei è molto intelligente, giovanotto” disse la vecchia signora. “Ma ogni tartaruga poggia su un’altra tartaruga!”
Questo per indicare che le attuali conoscenze che abbiamo dell’universo sono talmente vaghe, ed infinitesimamente limitate rispetto alla vastità dei fenomeni che ci circondano, che i modelli fisici attualmente accettati come veri sono frutto di semplici ipotesi, e in quanto tali potrebbero rivelarsi a seguito di scoperte future tanto infondati quanto lo è oggi una torre di tartarughe.
Ciò nonostante, partiamo dal presupposto che tutto ciò che può essere stato scoperto è partito dalla semplice osservazione; iniziamo quindi col considerare ciò che in prima persona possiamo percepire dell’universo, cioè il cielo stellato, quella distesa scura costellata di puntini più o meno luminosi. Ci rendiamo quindi conto che in realtà ciò che cogliamo non è altro che un’alternanza di luci e buio, un accostamento di chiaro e scuro; l’universo così come ci appare è un gioco di luce.
Esposito Valeria V A ling «L’Universo tra Luci ed Ombre»
lunghezze d’onda oltre i 590 nm. Quindi non soltanto le stelle appaiono variare la loro magnitudine
dall’osservazione visuale a quella fotografica, ma anche da pellicola a pellicola.
La nebulosa Trifida o M20
fotografata in luce blu, verde e rossa.
L’esigenza di conoscere la magnitudine a diverse lunghezze d’onda ha portato alla definizione di
indice di colore. Esso è la differenza tra due magnitudini della stessa stella ripresa in due diversi
colori.
Le magnitudini di cui normalmente si parla e quelle che abbiamo indicato finora, sia visuali che
fotografiche, sono quelle apparenti, cioè quelle che vengono osservate dalla Terra,
indipendentemente dal fatto che la stella sia più o meno luminosa o più o meno lontana. Una stella
può apparire più brillante di un’altra solo perché più vicina; per conoscere l’effettiva luminosità di
una stella è necessario calcolare quanto sarebbero brillanti se fossero situate alla stessa distanza. Si
è universalmente convenuto di fissare questa distanza standard uguale a 10 parsec o 32,6 anni-luce,
e in questo caso si parla di magnitudine assoluta.
MISURA DELLE DISTANZE STELLARI
La distanza delle stelle è così grande da rendere impossibile una misurazione diretta. Si ricorre
quindi a misurazioni indirette, ricavate da altri dati: una di queste si basa sul metodo spettroscopico,
che sfrutta tutti gli studi sulle emanazioni luminose degli astri analizzati finora. Scomponendo la
luce della stella nelle sue componenti fondamentali e analizzandone le righe oscure di assorbimento
dei gas che solcano le bande colorate dello spettro, è infatti facile risalire alla composizione chimica
ed alla magnitudine assoluta delle stelle, che poi posta a confronto con quella apparente ci darà la
distanza.
Per le stelle più vicine a noi, si ricorre invece al
cosiddetto metodo della parallasse, che è lo
spostamento apparente di un oggetto rispetto allo
sfondo, quando viene osservato da due punti
diversi. Per ottenere il massimo risultato è bene
adottare due punti di osservazione che siano alla
maggior distanza possibile tra loro: per questo si
compie questo tipo di osservazioni sulle stelle a
distanza di sei mesi, cosicché la terra si trovi in due
punti opposti della sua orbita (che distano circa 300
milioni di chilometri). L’angolo di cui la stella
apparirà spostata sullo sfondo celeste nella seconda
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Esposito Valeria V A ling «L’Universo tra Luci ed Ombre»
osservazione sarà tanto più piccolo quanto essa sarà distante da noi. Misurando dunque l'entità di
tale angolo, e conoscendo il raggio dell'orbita terrestre, 1 Unità Astronomica, dalla trigonometria
avremo la distanza D = 1 : tgA espressa in parsec.
RED SHIFT Nel 1929 l’astronomo Edwin Hubble scoprì, nell'osservare lo
spettro della luce emessa dalle stelle lontane e constatando uno
spostamento delle frequenze verso il rosso (frequenze sempre
minori) rispetto alle fonti più vicine, che le galassie sono in
movimento, e si allontanano progressivamente da noi.
Questo fatto è dimostrato dall’effetto Doppler, esperibile
quotidianamente per quanto riguarda le onde sonore prodotte da
una sorgente in movimento: percepiamo infatti suoni più acuti
con la sorgente in avvicinamento, e più gravi se invece si allontana. Ciò accade in quanto nel primo
caso l'intervallo di tempo fra due onde successive ricevute diminuisce e quindi la frequenza
aumenta, mentre nel secondo l’intervallo di tempo aumenta, con conseguente diminuzione della
frequenza.
Allo stesso modo quando una sorgente di luce si avvicina, il suo spettro si sposta verso colori a
frequenze più alte, ossia verso il blu ("blueshift"). Se invece la sorgente si allontana dall'osservatore
si ha lo spostamento della luce verso il rosso ("redshift"). In realtà il fenomeno ha preso questo
nome poiché nella luce visibile il rosso è il colore con frequenza più piccola, anche se magari la
radiazione registrata rientra nelle radiofrequenze.
Il redshift si calcola misurando la differenza tra la lunghezza d'onda effettivamente registrata e
quella che le radiazioni avrebbero se venissero emesse da una sorgente in quiete, essendo
quest'ultima conosciuta.
Per galassie comprese entro una distanza di un migliaio di megaparsec, lo spostamento è
direttamente proporzionale alla velocità della sorgente luminosa.
L'interpretazione standard di questo fenomeno è che le galassie sono in allontanamento le une dalle
altre, e più in generale che l'Universo è in una fase di espansione, attualmente in accelerazione,
iniziata col Big Bang.
I Buchi Neri
Dato che la luce si propaga anche nel vuoto, si potrebbe pensare che ogni angolo dell’universo sia
raggiunto dalla luce emessa dalle stelle. Esistono però dei corpi celesti che non soltanto non
emettono luce, ma a causa del loro campo gravitazionale potentissimo attirano e catturano tutti i
raggi luminosi che passano entro una determinata distanza: ne deriva una totale mancanza di luce,
da cui il caratteristico nome di Buchi Neri. Possiamo quindi considerarli le “ombre” dell’universo;
ombre da intendersi non nel senso che metaforicamente diamo al termine, ossia gli elementi
negativi di un tutto, anche se in un certo senso la loro oscurità li ha resi materia di studio alquanto
problematica: la mancanza di radiazione luminosa emanata e l’impossibilità di avvicinarsi a
sufficienza per compiere ogni tipo di rilevazione diretta hanno costituito un notevole ostacolo
all’analisi dei buchi neri.
La loro esistenza fu ipotizzata nel 1783, quando John Michell (docente all’università di Cambridge)
pubblicò un saggio in cui evidenziava la possibilità che una stella di massa e densità
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sufficientemente grandi avrebbe creato un campo gravitazionale tanto forte da attirare anche i raggi
di luce; ci vollero però due secoli di studi per arrivare a delineare le implicazioni della forza di
gravità sulla luce, e soltanto nel 1969 il fisico americano John Wheeler coniò il termine “black
hole” ad indicare i corpi celesti che noi conosciamo.
ORIGINE
I buchi neri si possono originare dal declassamento di stelle di massa molto grande; il loro processo
di formazione inizia quindi al termine del ciclo vitale di una stella.
Quando il combustibile nucleare inizia ad esaurirsi, ossia quando tutto l'idrogeno è stato tramutato
in elio dalla fusione nucleare, il nucleo centrale della stella non riesce più a produrre quella quantità
di energia necessaria a contrastare le forze gravitazionali, che quindi comprimono la massa della
stella verso il suo centro, aumentandone la densità. Si innesca quindi la fusione nucleare dell'elio in
elementi sempre più pesanti; la contrazione si blocca in stelle di massa sufficientemente piccola
grazie al principio di esclusione di Pauli (secondo cui particelle molto vicine devono avere velocità
diverse, quindi si allontanano l’una dall’altra, tendendo ad espandere l’astro), poiché questa forza
contrasta il collasso gravitazionale. La stella quindi si raffredda e si stabilizza allo stadio di nana
bianca.
Se il nucleo della stella supera una massa critica, detta limite di Chandrasekhar e corrispondente a
1,4 volte la massa solare, la fusione interna continua fino all’esaurimento di tutte le risorse
energetiche; le reazioni nucleari non sono dunque più in grado di opporsi al collasso gravitazionale
e la stella subisce una contrazione fortissima. A questo punto la pressione di degenerazione della
materia può operare sui componenti dei nuclei atomici, protoni e neutroni, anziché sugli elettroni,
arrivando ad arrestare bruscamente il processo di contrazione e ristabilire, spesso in seguito ad
un’esplosione di supernova in cui la stella espelle buona parte della sua massa, una situazione di
equilibrio: si forma quindi una stella di neutroni.
Se il nucleo della stella supera invece le 3 masse solari, nulla può contrastare la forza gravitazionale
generatasi. La massa si contrae fino ad addensarsi in un punto teoricamente privo di dimensioni, e si
può dire che l’astro arrivi ad avere una densità infinita: siamo di fronte ad un buco nero.
ORIZZONTE DEGLI EVENTI
Ovviamente un buco nero non inghiotte tutto ciò che lo circonda, a qualsiasi distanza: come ogni
campo gravitazionale, esiste una velocità di fuga che permette di passare ad una determinata
distanza dalla sorgente senza cadere irrimediabilmente al suo interno. Consideriamo la luce, poiché
la sua velocità è la più alta raggiungibile in natura; la distanza minima a cui un raggio di luce deve
passare per evitare di essere catturato dalla forza di gravità del buco nero costituisce una sorta di
limite immaginario, all’interno del quale ogni cosa, anche la luce, è destinata a cadere nel buco
nero, e da cui nulla può uscire. E’ questo l’orizzonte degli eventi, superficie immaginaria formata
dalle traiettorie di raggi di luce che, risentendo del campo gravitazionale del buco nero, non
riescono a sfuggirgli, ma nonostante ciò la loro velocità non permette che ne vengano inghiottiti.
Hawking, durante i suoi studi, si rese conto che i raggi di luce intrappolati sull’orizzonte degli
eventi non possono scontrarsi, poiché questo significherebbe essere deviati e sfuggire al confine del
buco, allontanandosi o cadendovi. I raggi devono quindi essere paralleli tra loro, e, di conseguenza,
la superficie dell’orizzonte degli eventi non potrà mai diminuire, perché questo sovrapporrebbe le
traiettorie dei raggi di luce e ne devierebbe l’andamento.
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Esposito Valeria V A ling «L’Universo tra Luci ed Ombre»
Buco nero di Schwarzschild - non rotante e privo di carica elettrica; si tratta del modello
ideale, più semplice ma anche meno probabile nella realtà. In questo caso esiste un solo
orizzonte degli eventi, che è una sfera centrata nell'astro puntiforme e di raggio pari al raggio di
Schwarzschild (dipendente dalla massa del buco nero).
Buco nero di Kerr - deriva da oggetti rotanti e privi di carica elettrica, caso che
presumibilmente corrisponde alla situazione reale. Il buco nero ruota ad una velocità costante; in
base ad essa, il corpo celeste può presentare un rigonfiamento equatoriale dovuto alla rotazione, e a
velocità molto elevate assume la forma di un anello. Per questa ragione si formeranno non uno ma
due orizzonti degli eventi distinti.
Esistono poi altri due modelli di buco nero dotato di carica elettrica, fermo o rotante: si
chiamano, rispettivamente, Buco nero di Reissner-Nordstørm e Buco nero di Kerr-Newman.
RINTRACCIABILITA’ DEI BUCHI NERI
Nonostante l’impossibilità dell’osservazione diretta di un buco nero, esso può modificare lo spazio
circostante in modo tale da determinare fenomeni in qualche modo rilevabili.
Un fenomeno che permette di scorgere indirettamente un buco nero è l'effetto di lente
gravitazionale che esso esercita. In condizioni normali, infatti, la luce percorre una traiettoria
rettilinea, ma quella che passa abbastanza vicino ad un buco nero viene incurvata a causa del
suo intenso campo gravitazionale. Questa deflessione dei raggi di luce produce una visione
distorta, formata da più immagini, del corpo celeste che si trova oltre la lente.
Lo stesso Wheeler che diede il nome ai buchi neri coniò anche una frase significativa sulla
caratteristica di questi corpi celesti di non emettere alcun tipo di informazione fisica: ”Un buco
nero non ha capelli”. In realtà tra il 1973 e il 1974 Stephen Hawking dimostrò che i buchi neri
emettono una radiazione costante, come un qualsiasi corpo con una temperatura elevata (che nel
caso dei buchi neri è inversamente proporzionale alla sua massa): si tratta di una sorta di
evaporazione nota come radiazione di Hawking. Questo perché la materia interstellare che,
attratta dal campo gravitazionale, cade verso l’orizzonte degli eventi, si riscalda ed emette